Rottamare la costituzione?
2 Gennaio 2014 Share

Rottamare la costituzione?

“I recenti attacchi alla Costituzione possono essere ricondotti ad una stagione cominciata più di venti anni fa, quando ci si affrettò a richiudere quella finestra di opportunità che si era aperta con la fine della guerra fredda. Oggi al mito della governabilità dobbiamo anteporre il valore della rappresentanza” (R. La Valle). Se questo è vero, noi in quale situazione siamo? Proviamo a spulciare alcuni articoli della costituzione, a cercarne l’intento e a metterli a confronto con l’oggi.

Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani hanno scelto, in un referendum, che l’Italia non fosse più una monarchia, con a capo un re, ma una Repubblica. Questa Repubblica è democratica (e non oligarchica, dove comandano pochi), cioè il potere di comando (sovranità) è attribuito originariamente (appartiene) al popolo, che lo esercita direttamente (art. 75 sul referendum) o indirettamente (vedi art. 48, 60, 122 sulle elezioni del Parlamento e dei Consigli regionali, provinciali e comunali). Il popolo è formato dai  cittadini, termine che, a partire dalla rivoluzione francese, ha sostituito quello di “sudditi” ovvero di sottoposti al potere del re e dei nobili. Il lavoro è visto come fondamento della vita democratica, come diritto che rende l’uomo pienamente “cittadino”. Il primo articolo, come sottolineato da una sentenza della Corte Costituzionale (86/1977), esplicita i caratteri essenziali ovvero l’architettura costituzionale dello Stato italiano che si configura come una repubblica.

Art. 5. La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

La Costituente volle sottolineare il carattere regionale dello Stato italiano: per questo – assieme alla natura unitaria e indivisibile – sottolineò l’importanza del principio autonomista (secondo il quale Regioni, Province e Comuni acquisivano il diritto di regolamentare autonomamente determinate materie) e del decentramento amministrativo dei servizi statali. La Regione fu istituita con il duplice obiettivo: permettere ai cittadini di partecipare più da vicino alla vita politica locale e contrastare i movimenti anti-unitari (come quelli sorti in Sardegna e in Sicilia).

Oggi dove siamo? Scorriamo alcune date dell’ultimo trentennio.

1989 caduta del muro di Berlino. Si chiude la fase della “guerra fredda”: il mondo diviso in due blocchi tra loro contrapposti ad excludendum. Il 26 giugno 1991 il presidente Cossiga (messaggio alle Camere) affermava che col tramonto di quell’assetto politico anche la Costituzione approvata nel 1947 era destinata ad essere aggiornata e superata perché non più adeguata ai tempi. Affermazione strana perché la sua genesi testimonia invece l’incontro e la collaborazione proficua fra le culture democratiche, liberali, cristiane e socialcomuniste. La Costituzione ha sì origine da un conflitto ma quello della seconda guerra mondiale scatenata dai fascismi e si pone l’obiettivo di non farla più accadere (art. 11 ripudia la guerra) anticipando già al 22 dicembre 1947 il preambolo e la Dichiarazione dei diritti umani dell’ONU del 10 dicembre 1948.

Nelle democrazie le leggi elettorali che regolano l’esercizio del potere popolare, sono leggi strumentali rispetto alle costituzioni; però, anche se non formalmente costituzionali, sono “leggi di sistema” perché capaci di plasmare il sistema politico. Non a caso, in Italia, non essendo riusciti a cambiare la Costituzione (referendum del 2006) si è proceduto intervenendo sulla legge elettorale, definita dagli stessi promotori un “porcellum”. Avrebbe dovuto sanare la crisi di “governabilità” mentre in realtà esasperava la crisi di rappresentanza svuotando il potere elettivo del popolo. Non esiste una crisi di governabilità né in Italia né in Europa. I grandi poteri che oggi dirigono l’Europa riescono benissimo a far fare i “compiti a casa” ai governi ad essi ormai sottoposti.

I guasti prodotti dalla lunga fase di governi neo-liberali, succedutisi al potere sia in Europa che in America dopo il 1989 hanno prodotto nel sistema democratico effetti di lungo periodo: sopravvissute le Costituzioni, la democrazia è precipitata. A guidare la danza sono i mercati, le borse, il denaro e suoi surrogati, le banche, le agenzie di rating, le insostituibili competenze dei “tecnici”. Nasce il falso mito secondo cui il “paese invoca” il cambiamento della costituzione; in verità quando si è provato a farlo il paese ha reagito e resistito.

Il crimine si erge a maestro. La banca d’affari Jp Morgan, processata nel febbraio scorso quale corresponsabile della crisi dei mutui subprime del 2008, ha patteggiato con il Dipartimento di Giustizia degli USA la restituzione di 9 miliardi di dollari alle autorità statunitensi e 4 miliardi ai creditori. Un tale “maestro” nella sua analisi della situazione europea (28 maggio 2013) getta la maschera e attacca “i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni», perché hanno «caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione”. Infatti “Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica … Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro Costituzioni, sono nati in seguito alle dittature e sono rimasti segnati da quella esperienza. I sistemi politici nell’Europa meridionale hanno di solito le seguenti caratteristiche: leadership debole, stati centrali deboli rispetto alle regioni, la tutela costituzionale dei lavoratori … il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi …”. I diritti guadagnati e l’antifascismo rappresentano, dunque, il vero problema per le riforme strutturali che la banca d’affari pretende. Il tecnofascismo arriva alle conclusioni del fascismo di ieri. Unica differenza: nel 900 mosse la propria azione articolandola sul piano politico, oggi impone la  propria austerità senza diritti come unica alternativa articolandola sul piano economico. Ora, grazie al mordere della crisi, è tempo di chiudere una volta per tutte la partita durata oltre un secolo, tra un’economia che si pretende anarchica ed ogni sua possibile correzione e regola, proprio quelle dettate delle costituzioni. Dal canto loro i rappresentanti del potere politico hanno fatto di tutto perché questa narrazione degli eventi rappresentasse la verità. Jp Morgan conclude ammonendo che l’austerity si stenderà sul vecchio continente “per un periodo molto lungo”.

Sarà una coincidenza? Il 26 maggio 2013 Jp Morgan pontifica e il 10 giugno 2013 il Presidente Letta, all’unisono con i ministri Quagliariello e Franceschini, presenta il disegno di legge (ddl 813) per l’istituzione di un Comitato per le riforme costituzionali (10 deputati e senatori) col compito di elaborare proposte di legge al Parlamento, per modificare la seconda parte della costituzione. Perché tanta fretta e perché limitare il dibattito all’interno di 10 persone (certo più dei quattro berlusconiani in ferie in Valle d’Aosta)? Perché, soprattutto, derogare alle norme stabilite dall’art.138 (revisione costituzionale e altre leggi costituzionali)? Ce lo spiegano i nostri politici nella loro “relazione introduttiva” raccontandoci l’ammonizione di Jp Morgan: “Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionali disegnato nella seconda parte della nostra costituzione… sono rimasti invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione (di chi?) largamente condivisa  che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare  adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza (basterebbe una legge ordinaria che elimini il porcellum) e d’innovazione… per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale…”. Non possiamo affermare  l’interdipendenza diretta dei due testi, costatiamo il pensiero ispiratore comune: adeguare la costituzione, mediante adeguate riforme politiche, alle nuove esigenze del mercato globale.

Con  R. La Valle, presidente dei comitati Dossetti, si è aperta la riflessione e con lui si chiude questo primo tratto: “Oggi, passato più di un decennio dall’inizio del nuovo Millennio, siamo preoccupati per i giovani e per i figli dei loro figli che vivranno in questo secolo. Quello che possiamo fare è trasmettere loro gli attrezzi e le speranze che noi abbiamo avuto nel Novecento, sapendo però che saranno loro a decidere cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi nuovi. Ogni generazione ha le sue vie. Non si tratta perciò di lasciare ai nostri figli degli altarini alla Costituzione, al Concilio e alla contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando una vecchia parola, potremmo dirlo così: queste sono le tre cose che rimangono: il diritto, la fede, la libertà; ma di tutte più grande è l’amore”. ☺

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