“Il più bello dei giorni”: con queste parole il poeta latino Catullo (carme 14, v. 15) definiva la festa dei Saturnali, che si celebrava tutti gli anni, il 17 dicembre (ma la durata fu progressivamente allungata, fino a sette giorni nel periodo imperiale), in onore di Saturno, il dio dell’abbondanza e della ricchezza. Durante i Saturnali, le normali attività venivano sospese, era proibito combattere ed eseguire condanne a morte, e anche gli schiavi potevano sedersi a tavola ed essere serviti dai loro padroni: insomma era un ritorno alla splendida Età dell’Oro che Saturno aveva portato agli uomini, l’età in cui tutti erano liberi, uguali e felici.
I festeggiamenti avevano inizio con una processione fino al tempio di Saturno e con un solenne sacrificio, nel quale venivano sciolte le bende di lana che per tutto l’anno tenevano legata la statua del dio al suo piedistallo, per impedirgli di abbandonare la città e di portarsi via la prosperità. A seguire si svolgevano il lettisternio, che consisteva nell’offrire raffinati cibi agli dèi, le cui statue erano state poste a giacere su letti intorno ad una tavola riccamente imbandita, e il banchetto pubblico, a spese dello Stato, in cui tutti, alla luce delle candele, si scambiavano brindisi, auguri, e piccoli doni detti “strenne” (dal latino strenae: candele, statuette, noci, datteri, miele). Si vegliava poi tutta la notte per attendere e salutare la nascita del sole nuovo, dato che la festa coincideva con il solstizio d’inverno, a partire dal quale le giornate cominciano a farsi più lunghe.
Nei giorni successivi, era consuetudine riunirsi in banchetti e, nel caso dei nobili, svolgere conversazione culturali (come non ricordare i Saturnalia dello scrittore Macrobio, dotti dialoghi ambientati in quei giorni?), oppure giocare con la tavoletta (una specie di dama) e ai calcoli (un antenato della tombola). In ogni casa si sceglieva a sorte il princeps, un maestro della festa, che, vestito con colori sgargianti, di solito in rosso, doveva orchestrare il divertimento, impersonando il dio Saturno con la barba.
Non può passare inosservato come molte delle usanze dei Saturnali si siano conservate fino ad oggi e caratterizzino il nostro modo di festeggiare il Natale: la lunga festa, l’interruzione delle attività, la celebrazione religiosa, le luci, il banchetto, i brindisi e gli auguri, lo scambio di doni. Perfino qualcosa che ricorda vagamente la tombola e Babbo Natale.
In realtà, per la sfrenata baldoria che dominava in quei giorni, con scherzi d’ogni genere, crapule e gozzoviglie, ma soprattutto per il sovvertimento dell’ordine sociale, per cui la divisione tra liberi e schiavi spariva e gli schiavi potevano prendere il posto dei padroni, alla festa dei Saturnali si fa risalire più propriamente l’origine del Carnevale.
Ed è a questo clima appunto “carnevalesco” dei Saturnali, di sospensione del tempo reale e di ribaltamento delle parti, che si può ricondurre la celebre massima semel in anno licet insanire, “una volta all’anno è lecito fare follie”, nota anche nella forma abbreviata, semel in anno. Correntemente attribuita al filosofo Seneca, è tuttavia conservata nel De civitate Dei di Sant’Agostino VI 10, 2: tolerabile est semel in anno insanire. Come a dire che è tollerabile che i doveri quotidiani siano ogni tanto interrotti dalla gioia di una festa spensierata, per ricaricare le energie fisiche e psichiche, e poi rientrare ciascuno nella propria vita. Almeno fino all’anno successivo.
Filomena Giannotti
“Il più bello dei giorni”: con queste parole il poeta latino Catullo (carme 14, v. 15) definiva la festa dei Saturnali, che si celebrava tutti gli anni, il 17 dicembre (ma la durata fu progressivamente allungata, fino a sette giorni nel periodo imperiale), in onore di Saturno, il dio dell’abbondanza e della ricchezza. Durante i Saturnali, le normali attività venivano sospese, era proibito combattere ed eseguire condanne a morte, e anche gli schiavi potevano sedersi a tavola ed essere serviti dai loro padroni: insomma era un ritorno alla splendida Età dell’Oro che Saturno aveva portato agli uomini, l’età in cui tutti erano liberi, uguali e felici.
I festeggiamenti avevano inizio con una processione fino al tempio di Saturno e con un solenne sacrificio, nel quale venivano sciolte le bende di lana che per tutto l’anno tenevano legata la statua del dio al suo piedistallo, per impedirgli di abbandonare la città e di portarsi via la prosperità. A seguire si svolgevano il lettisternio, che consisteva nell’offrire raffinati cibi agli dèi, le cui statue erano state poste a giacere su letti intorno ad una tavola riccamente imbandita, e il banchetto pubblico, a spese dello Stato, in cui tutti, alla luce delle candele, si scambiavano brindisi, auguri, e piccoli doni detti “strenne” (dal latino strenae: candele, statuette, noci, datteri, miele). Si vegliava poi tutta la notte per attendere e salutare la nascita del sole nuovo, dato che la festa coincideva con il solstizio d’inverno, a partire dal quale le giornate cominciano a farsi più lunghe.
Nei giorni successivi, era consuetudine riunirsi in banchetti e, nel caso dei nobili, svolgere conversazione culturali (come non ricordare i Saturnalia dello scrittore Macrobio, dotti dialoghi ambientati in quei giorni?), oppure giocare con la tavoletta (una specie di dama) e ai calcoli (un antenato della tombola). In ogni casa si sceglieva a sorte il princeps, un maestro della festa, che, vestito con colori sgargianti, di solito in rosso, doveva orchestrare il divertimento, impersonando il dio Saturno con la barba.
Non può passare inosservato come molte delle usanze dei Saturnali si siano conservate fino ad oggi e caratterizzino il nostro modo di festeggiare il Natale: la lunga festa, l’interruzione delle attività, la celebrazione religiosa, le luci, il banchetto, i brindisi e gli auguri, lo scambio di doni. Perfino qualcosa che ricorda vagamente la tombola e Babbo Natale.
In realtà, per la sfrenata baldoria che dominava in quei giorni, con scherzi d’ogni genere, crapule e gozzoviglie, ma soprattutto per il sovvertimento dell’ordine sociale, per cui la divisione tra liberi e schiavi spariva e gli schiavi potevano prendere il posto dei padroni, alla festa dei Saturnali si fa risalire più propriamente l’origine del Carnevale.
Ed è a questo clima appunto “carnevalesco” dei Saturnali, di sospensione del tempo reale e di ribaltamento delle parti, che si può ricondurre la celebre massima semel in anno licet insanire, “una volta all’anno è lecito fare follie”, nota anche nella forma abbreviata, semel in anno. Correntemente attribuita al filosofo Seneca, è tuttavia conservata nel De civitate Dei di Sant’Agostino VI 10, 2: tolerabile est semel in anno insanire. Come a dire che è tollerabile che i doveri quotidiani siano ogni tanto interrotti dalla gioia di una festa spensierata, per ricaricare le energie fisiche e psichiche, e poi rientrare ciascuno nella propria vita. Almeno fino all’anno successivo.
“Il più bello dei giorni”: con queste parole il poeta latino Catullo (carme 14, v. 15) definiva la festa dei Saturnali, che si celebrava tutti gli anni, il 17 dicembre.
“Il più bello dei giorni”: con queste parole il poeta latino Catullo (carme 14, v. 15) definiva la festa dei Saturnali, che si celebrava tutti gli anni, il 17 dicembre (ma la durata fu progressivamente allungata, fino a sette giorni nel periodo imperiale), in onore di Saturno, il dio dell’abbondanza e della ricchezza. Durante i Saturnali, le normali attività venivano sospese, era proibito combattere ed eseguire condanne a morte, e anche gli schiavi potevano sedersi a tavola ed essere serviti dai loro padroni: insomma era un ritorno alla splendida Età dell’Oro che Saturno aveva portato agli uomini, l’età in cui tutti erano liberi, uguali e felici.
I festeggiamenti avevano inizio con una processione fino al tempio di Saturno e con un solenne sacrificio, nel quale venivano sciolte le bende di lana che per tutto l’anno tenevano legata la statua del dio al suo piedistallo, per impedirgli di abbandonare la città e di portarsi via la prosperità. A seguire si svolgevano il lettisternio, che consisteva nell’offrire raffinati cibi agli dèi, le cui statue erano state poste a giacere su letti intorno ad una tavola riccamente imbandita, e il banchetto pubblico, a spese dello Stato, in cui tutti, alla luce delle candele, si scambiavano brindisi, auguri, e piccoli doni detti “strenne” (dal latino strenae: candele, statuette, noci, datteri, miele). Si vegliava poi tutta la notte per attendere e salutare la nascita del sole nuovo, dato che la festa coincideva con il solstizio d’inverno, a partire dal quale le giornate cominciano a farsi più lunghe.
Nei giorni successivi, era consuetudine riunirsi in banchetti e, nel caso dei nobili, svolgere conversazione culturali (come non ricordare i Saturnalia dello scrittore Macrobio, dotti dialoghi ambientati in quei giorni?), oppure giocare con la tavoletta (una specie di dama) e ai calcoli (un antenato della tombola). In ogni casa si sceglieva a sorte il princeps, un maestro della festa, che, vestito con colori sgargianti, di solito in rosso, doveva orchestrare il divertimento, impersonando il dio Saturno con la barba.
Non può passare inosservato come molte delle usanze dei Saturnali si siano conservate fino ad oggi e caratterizzino il nostro modo di festeggiare il Natale: la lunga festa, l’interruzione delle attività, la celebrazione religiosa, le luci, il banchetto, i brindisi e gli auguri, lo scambio di doni. Perfino qualcosa che ricorda vagamente la tombola e Babbo Natale.
In realtà, per la sfrenata baldoria che dominava in quei giorni, con scherzi d’ogni genere, crapule e gozzoviglie, ma soprattutto per il sovvertimento dell’ordine sociale, per cui la divisione tra liberi e schiavi spariva e gli schiavi potevano prendere il posto dei padroni, alla festa dei Saturnali si fa risalire più propriamente l’origine del Carnevale.
Ed è a questo clima appunto “carnevalesco” dei Saturnali, di sospensione del tempo reale e di ribaltamento delle parti, che si può ricondurre la celebre massima semel in anno licet insanire, “una volta all’anno è lecito fare follie”, nota anche nella forma abbreviata, semel in anno. Correntemente attribuita al filosofo Seneca, è tuttavia conservata nel De civitate Dei di Sant’Agostino VI 10, 2: tolerabile est semel in anno insanire. Come a dire che è tollerabile che i doveri quotidiani siano ogni tanto interrotti dalla gioia di una festa spensierata, per ricaricare le energie fisiche e psichiche, e poi rientrare ciascuno nella propria vita. Almeno fino all’anno successivo.
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