Sempre contro i deboli
Secondo gli ultimi dati forniti dalla Paris School of Economics, gli italiani più ricchi hanno trasferito nei paradisi fiscali 196,5 miliardi di euro. Di questa cifra, 181 miliardi sono depositati in conti correnti di banche con sede in giurisdizioni offshore e in prodotti finanziari di fondi sempre con sede in paradisi fiscali. Si tratta di risorse che, anche quando sono trasferite in maniera legittima utilizzando i tanti paradisi fiscali consentiti, sottraggono al fisco del nostro Paese cifre elevatissime. Per una stima complessiva del gettito sottratto alla comunità bisognerebbe poi aggiungere la mole di miliardi utilizzata per comprare opere d’arte, oro, gioielli, auto di lusso, yacht e jet privati su cui non si opera un prelievo perché acquistati di nuovo utilizzando paradisi fiscali o non dichiarati. Ma la partita delle risorse sottratte non finisce qui, dal momento che esistono circa 150 miliardi di euro cash conservati presso cassette di sicurezza. Se mettiamo insieme tutti questi numeri arriviamo a oltre 400 miliardi di euro che una percentuale limitatissima della popolazione italiana sottrae al fisco del nostro Paese; gli stessi però beneficiano del diritto universale all’assistenza sanitaria pubblica, soprattutto in casi di emergenza, che viene pagata con la tassazione generale che come ben sappiamo proviene in larga parte dai lavoratori con redditi infinitamente inferiori.
Nel frattempo con il passaggio dal Reddito di cittadinanza (RdC) all’Assegno di inclusione (AdI), la nuova “misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli” al via dal 1 gennaio 2024, il governo ha escluso 900mila famiglie dai potenziali beneficiari. “Si stima che i requisiti anagrafici ed economici più restrittivi dell’AdI riducano la platea dei potenziali beneficiari da 2,1 a 1,2 milioni rispetto all’RdC. Chi avrà diritto all’AdI riceverà meno: “Il reddito disponibile delle famiglie nel primo decimo della distribuzione del reddito disponibile equivalente (quelle più povere, ndr) diminuisce in media di circa 1.300 euro annui (-11 per cento)”. La nuova misura sarà meno efficace nel contrasto alla povertà e alla disuguaglianza: “Nel passaggio dal RdC all’AdI risultano maggiori sia l’incidenza della povertà assoluta (di 0,8 punti) sia l’indice di Gini (l’indicatore di diseguaglianza) di 0,4 punti”.
Bankitalia si augura che una risposta positiva dell’occupazione possa “attenuare o controbilanciare gli effetti negativi in termini redistributivi”. Poi però aggiunge che “osservando le caratteristiche degli attuali percettori del RdC, almeno nel breve periodo, il percorso di (re)inserimento lavorativo non sarà tuttavia privo di difficoltà”. Il rapporto di Bankitalia lo descrive così: “Secondo i dati dell’IBF relativi al 2020, gli adulti tra 18 e 59 anni delle famiglie che percepivano il RdC erano caratterizzati da bassi livelli di scolarità e scarse esperienze lavorative pre- gresse. Circa l’80% possedeva al massimo la licenza media e circa la metà dei disoccupati lo era da oltre 5 anni. Tutto ciò inoltre era vero sia per gli individui appartenenti a nuclei in possesso dei requisiti anagrafici per accedere all’AdI sia per quelli in famiglie prive di tali requisiti”, quelle che il governo definisce “occupabili” e che al massimo potranno accedere al Supporto formazione e lavoro, i 350 euro al mese per un massimo di 12 non rinnovabili, destinati a chi segue corsi o parteciperà ai Progetti utili alla collettività dei comuni.
Che affamare e ricattare gli “occupa- bili” li renda davvero occupabili è una teoria che si scontra con la realtà. “Quanto questo maggiore stimolo a cercare un impiego si tradurrà in maggiore occupazione dipende dalla domanda di lavoro”, come sostiene Bankitalia, ricordando che, alla fine, se il lavoro non c’è la disperata volontà di trovarne uno non modifica i grandi numeri. La conferma è nell’ultima Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat. Le tabelle sul tasso di occupazione delle persone tra i 15 e i 64 anni indicano una variazione positiva, rispetto al terzo trimestre 2022, per tutte le categorie: maschi e femmine, più o meno giovani, residenti al Nord come al Sud, italiani come stranieri. Così anche per chi ha conseguito il diploma o la laurea. L’unico dato in calo è quello di chi ha il titolo di studio più basso, che fatica a trovare lavoro anche in un momento di occupazione in lieve ripresa. Dati che litigano con le regole del nuovo Assegno di inclusione che impone, ai percettori in grado di lavorare, di accettare un’offerta a tempo indeterminato ovunque essa sia, anche a oltre mille chilometri di distanza dal luogo di residenza, pena la decadenza dal sussidio. Un’idea di contrasto alla povertà che nulla ha a che fare con le gravi ragioni dell’ indigenza nel nostro Paese, che spesso è ereditaria, soprattutto in alcune aree del Mezzogiorno.
Meno soldi, quindi, che sommato al dato di fatto che nemmeno il reddito di cittadinanza ha mai coperto integralmente gli oltre 5 milioni di persone in povertà presenti in Italia, ci fa capire in che situazione critica si trovano queste persone dimenticate da tutti. Sussidi ridotti per non disincentivare la ricerca di lavoro, come pure è stato segnalato dai centri per l’impiego e datori di lavoro, soprattutto al Sud dove il reddito ha avuto un potere d’acquisto maggiore. Un risparmio poteva essere conseguito, magari senza rinunce in termini di equità, ma il governo ha mantenuto, tra le tante promesse, quella di togliere il reddito di cittadinanza, lasciando sul lastrico quei 5,6 milioni di poveri che vivono oggi in Italia. Tutti gli altri possono girarsi dall’altra parte, basta far finta che non esistano!
Ma nel 2022, confermando la percentuale dell’anno precedente, il 20,1% dei residenti in Italia è a rischio di povertà. Si tratta di circa 11 milioni e 800mila persone che nel 2021 hanno avuto un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, cioè 11.155 euro. Significa che una persona ogni sei è a rischio di diventare povera e tale rischio è poi inversamente correlato ai livelli di istruzione. Inoltre il 65% dei lavoratori dipendenti che vivono in nuclei a rischio di povertà ha un impiego a tempo indeterminato, il 56,3% è occupato a tempo pieno e circa i tre quarti sono cittadini italiani (75,6%). Ci sono poi 2,6 milioni di persone che si trovano in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, che presentano cioè almeno sette dei tredici segnali di deprivazione individuati dal nuovo indicatore Europa 2030, sette relativi alla famiglia e sei all’individuo. Sono tutti dati ufficiali, come quello in cui l’Istat ci dice che il 9,8% degli individui vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, quelle con componenti tra i 18 e i 64 anni che nel 2021 hanno lavorato solo per un quinto del tempo o meno. Di più: la quota di individui che si trova in almeno una delle suddette tre condizioni riferite a reddito, deprivazione e bassa intensità di lavoro, e cioè la popolazione a rischio di esclusione sociale, è il 24,4%, ovvero 14,3 milioni di residenti.
Tra coloro che incrociamo per strada, uno su 4 è in questa triste condizione. Persone costrette a rinunce importanti, dalla cura della salute all’alimentazione, con figli che rischiano a loro volta la povertà educativa e, di conseguenza, povertà certa nel loro futuro. Condizioni che si tradurranno in costi per mancata prevenzione e bassa istruzione, che a loro volta produrranno esclusione e nuova povertà, presentando un conto più salato di quanto non sia il risparmio rivendicato oggi dal governo.
Si tratta di una vera e propria alleanza contro i poveri e i disoccupati. Secondo lo stesso rapporto di Bankitalia la fine del “supporto per la formazione e il lavoro” tra un anno genererà inesorabilmente altri poveri che non saranno calcolati tra i disoccupati anche perché queste persone sono “lontane” da anni dal “mercato del lavoro”. Della serie: “se non entrano nelle statistiche non esistono come poveri e disoccupati”. ☺