t. s. o.     di Loredana Alberti
30 Marzo 2013 Share

t. s. o. di Loredana Alberti

 

Domenica 10 marzo è stato proiettato a Sasso Marconi, il mio film "ma il furore dei nostri sguardi". L’ho rivisto dopo vari anni: ancora ci sono delle frasi (prese integralmente da cartelle o da scritti delle internate) che mi commuovono come quella di Beatrice che viene rinchiusa in manicomio con l’inganno: la scusa è di portarla in una villa in campagna con aria salubre. Beatrice confusa, scambia inizialmente le infermiere per cameriere dell’albergo, dà il suo nome e cognome con altri dati, interdetta poi, capisce di essere finita in un manicomio. Siamo nel 1874.

Oggi l’Istituzione è così normalizzata e pacificamente omogeneizzata che esistono funzioni e norme che ratificano meglio, molto meglio il contenimento. Parlo del TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, un provvedimento emanato dal sindaco, per cui si è obbligati a sottoporsi a cure psichiatriche, anche contro la nostra volontà. Si attua con il ricovero presso i reparti di psichiatria. Perché venga attuato devono coesistere due certificati medici che accertino che: 1) la persona si trova in una situazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; 2) la persona rifiuta gli interventi terapeutici proposti; 3) non è possibile adottare tempestive misure extra-ospedaliere per la persona.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è oggetto di discussione perché senza dubbio interferisce con l’integrità psichica del soggetto su cui viene effettuato, con il suo libero arbitrio e più in generale con i suoi diritti umani. Spesso si tratta di una violazione dei diritti di minoranze deboli: immigrati, zingari, poveri e senzatetto, liberi pensatori, omosessuali, persone ipersensibili.

Innumerevoli casi verificatisi in tutto il mondo dimostrano come il ricovero e il trattamento con psicofarmaci o altre terapie, contro la volontà del paziente, abbiano spesso causato gravi disturbi nel soggetto trattato e in alcuni casi la sua morte. Esistono anche diritti del paziente, ma, di fatto, egli non può opporsi in alcun modo al trattamento.

È la storia di Giuseppe Casu, che il 15 giugno 2006 a Quartu (Cagliari) venne prelevato a forza, ammanettato alla barella e portato via per un ricovero coatto in psichiatria, dove morì una settimana dopo per tromboembolia venosa. Il T.S.O. era stato prescritto solo perché Casu era un ambulante abusivo, una delle professioni – ci si consenta il paragone – che il partito nazionalsocialista considerava “asociali”.

È la storia di Siamak Brahmandpour, italiano di origini iraniane, biologo all’ospedale di Campo di Marte di Lucca che, il 24 agosto 2007, è stato coattivamente prelevato dal posto di lavoro da quattro medici accompagnati da tre vigili urbani e trasferito nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Pontedera. Il fatto che avesse denunciato ripetutamente episodi di mobbing avvenuti nell’ospedale dove prestava servizio potrebbe aver indotto qualcuno a ritenerlo “pericoloso”.

È la storia di Francesco Mastrogiovanni, anarchico; aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno).

Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero.

Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia.

È la storia di  M, una persona che ha subito 8 TSO e che tutte le volte è stata legata al letto per 24 ore consecutive. Qui descrive l'inizio del primo TSO. “Mi portarono al pronto soccorso e qui decisero per il trattamento sanitario obbligatorio, e cioè coatto. Mi piantonarono per qualche ora al pronto soccorso, dopo mi condussero al reparto psichiatrico, e qui continuavo a dire che volevo andarmene e mi rifiutavo di prendere gli psicofarmaci e di fare la flebo. Psichiatri e infermieri andarono per le spicce e aggreditomi mi legarono al letto. Poi mi imbottirono di psicofarmaci. Non capii più nulla e la mente mi si ottenebrò e mi si offuscò completamente. Infine mi addormentai. Svegliatomi nuovamente, venni slegato e mi alzai. Ero spossatissimo, imbambolato, senza forze, con la mente obnubilata, e la sera, mentre stavo per andare a letto, due infermieri piombarono alle mie spalle e mi sbatterono a faccia in giù sul letto, e mi dicevano “Fermo, non ti muovere, hai capito che devi stare fermo? Non ti muovere”. Poi, scuotendomi e strattonandomi con forza, mi legarono nuovamente al letto. Dopo qualche minuto sentii il bisogno impellente e indifferibile di urinare e chiesi agli infermieri di slegarmi per poter andare in bagno. “Pisciati addosso!” mi gridarono gli infermieri. Resistei finché potei, e poi dovetti urinarmi addosso, provando una profonda umiliazione. Provai, nell’illusione di poter mitigare i danni, ad estraniarmi da me e a fare finta che quello che provavo non stesse succedendo a me, ma è perfettamente inutile chiudere gli occhi e girarsi dall'altra parte quando un camion che viaggia alla folle velocità di mille chilometri orari ti investe in pieno e ti fracassa tutte le ossa”.

Ci sono anche o ancora psichiatri contro. Riporto alcune parole di un’intervista del dr. Giorgio Antonucci, sempre contrario a certe metodologie: "Io non direi una subcultura, (quella del TSO e di TEC) ma una cultura. È cultura nel senso che viene insegnata nelle università, viene applicata negli ospedali, viene accettata dalle Unità Sanitarie Locali, il Ministero della Sanità si attiene a questo tipo di pratica. Si tratta ovviamente, a mio giudizio, di una cultura sbagliata”.

Con il titolo “Psichiatria oggi: in memoria di Michael” è stato pubblicata su “Inchiesta”, 177, luglio-settembre 2012, pp. 41-47, la denuncia dello psichiatra bolognese Emilio Rebecchi che riporto in parte (parla di un ragazzo ventenne, ospite di una casa di recupero, Casa Dolce di Casalecchio di Reno, che dopo uno scoppio d’ira, trattenuto da tre infermieri che poi chiamano il 118, muore): “Secondo l’autopsia, non ancora depositata, il ragazzo è morto per asfissia meccanica. La presenza di minuscole ecchimosi e di piccole emorragie sottocutanee, emerse durante l’esame autoptico, parrebbe confermare l’ipotesi di uno schiacciamento del torace del giovane da parte dei dipendenti della Dolce, (Dolce casa, nei pressi di Casalecchio sul Reno, Bo) …Il giovane Michael vuol continuare a giocare con la playstation. Evidentemente il regolamento (o la consuetudine) della Casa Dolce non lo consentono. Gli operatori si impongono, ma il giovane non cede. Si apre quindi uno scontro di potere …Esisterebbero dei protocolli per interrompere con la forza la crisi dei pazienti. Non solo quindi il giovane Michael deve sottostare alle regole, ubbidire, consegnare la playstation, ma, di fronte al rifiuto, si può ricorrere alla forza fisica. Secondo un protocollo, ma sempre di forza fisica si tratta. Il potere non accetta di discutere. Impone. Costringe chi si oppone alla resa. E quindi chi si oppone si configura come un nemico e il rapporto tra operatori e pazienti, come un rapporto di scontro, a volte di scontro violento. Un atto di forza. Michael, infatti, muore; perché non viene applicato correttamente il protocollo, perché invece di sedersi sul bacino l’operatore si siede (sic) sul torace del poveretto, e lo soffoca mortalmente. Minuscole ecchimosi e piccole emorragie sottocutanee lo testimoniano”.

Per chi suona la campana di Hemingway comincia con una poesia di John Donne, che riporto integralmente: “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall’onda del Mare, la terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo all’Umanità”.

Diversamente dagli anni settanta, oggi la morte di Michael è solo una notizia di cronaca. “Sono fatti che succedono… purtroppo”.

 Già nella seconda metà degli anni ’90 e poi nell’ultimo decennio si avvia una controriforma; la cosiddetta aziendalizzazione viene usata come grimaldello per trasformare l’intervento pubblico e riportarlo progressivamente verso il privato. Molti interventi sanitari vengono ridotti, alcuni – soprattutto gli interventi preventivi – addirittura spazzati via. Via via si spegne il tentativo di comprendere la persona sofferente per problemi psichici, e si sviluppa una strategia tesa al controllo, al condizionamento, alla “educazione”. Educare, guidare i malati di mente invece di comprenderli; sedarli, in qualche modo farli tacere. Non debbono disturbare, non debbono scandalizzare. Il silenzio torna a scendere su di loro. È in questo contesto, in questo momento storico, che il povero Michael incontra il suo destino.

 Nei campi di concentramento finivano ebrei, comunisti, zingari e malati di mente. Non vogliamo che accada mai più.☺

ninive@aliceposta.it

 

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