
Economia bellica
Fiumi di denaro pubblico sono ormai indirizzati alla produzione di armi, in aperto sostegno alla guerra e alla militarizzazione ma i processi speculativi sono del tutto evidenti se pensiamo che il quotidiano Qui Finanza afferma che “il risultato è stato il raddoppio dell’indice europeo delle aziende quotate nel settore difesa, con le azioni del comparto militare che hanno avuto delle valutazione pari fino a 20 volte gli utili attesi”. Perché tutto questo? È in gioco il conflitto per il nuovo ordine mondiale. Da una parte l’occidente indebitato e dall’altro i grandi Paesi ormai non più solo emergenti, i quali, sia da un punto di vista demografico, che da un punto di vista economico, si sono imposti. L’integrazione economica propugnata dall’occidente ha creato eccessi di liquidità in Paesi quali Cina, Russia, Arabia Saudita. Questi ultimi hanno acquistato dapprima titoli di stato dei Paesi debitori dell’occidente, ma quando hanno iniziato ad acquistare titoli delle principali aziende che ridisegnano la traiettoria futura dell’economia, la risposta occidentale è stata una raffica di sanzioni internazionali che delineano una politica restrittiva protezionista. L’integrazione economica e la globalizzazione l’hanno vinta gli altri Paesi, i Brics, con a capo la Cina. Proprio perché gli Stati Uniti hanno perso la partita economica, non resta loro che continuare a svolgere il ruolo di gendarme o sceriffo mondiale, nel tentativo di riaffermare la loro supremazia economica e finanziaria.
In questo contesto di politiche protezionistiche e di accordi economici ispirati al friend-shoring (produrre e approvvigionarsi da Paesi che sono alleati geopolitici), l’Europa e l’Italia vanno al traino senza comprendere che l’essersi divisi dalla Russia a causa delle mire espansionistiche della NATO, e della evitabile e prevenibile reazione violenta e imperialista della Russia, li ha indeboliti politicamente ed economicamente, e affidati alle braccia mortali delle politiche economiche a supremazia statunitense.
Quand’anche all’Italia venisse in mente di rendersi indipendente bisogna ricordarsi che i principali enti finanziari e società di Rating, che valutano l’enorme debito Italiano, sono proprio statunitensi e che sul territorio italiano vi sono basi militari anche nucleari o direttamente della NATO o comunque espressione dell’alleanza atlantica. Ma nel frattempo tutti si armano innescando una vera economia di guerra. Dal febbraio 2022, le azioni in borsa dei 70 produttori di armi più importanti al mondo, tra i quali l’italiana Leonardo, hanno ripreso a crescere vertiginosamente, guadagnando fino al 325%. Gli investimenti militari, assicurati dalle istituzioni finanziarie globali, ammontano a quasi 1.000 miliardi di dollari (959), in meno di due anni. Le banche e la finanza vogliono indirizzare sempre maggiori risorse alla ricerca verso tecnologie dual use che producono per il civile ed il militare.
E l’Europa che ruolo gioca? Il rafforzamento della difesa europea avviene da tempo anche attraverso acquisti e appalti congiunti che vedono protagoniste le principali aziende produttrici nel settore. Nel settembre 2023 è stata approvata dal Parlamento Europeo un’apposita legge che prevede il finanziamento delle spese militari, per il 20%, con soldi comunitari. Solo nel 2023 le 15 maggiori banche europee hanno realizzato ingenti finanziamenti e investimenti a favore delle aziende produttrici di armi per un importo pari a 87,72 miliardi di euro come riporta il rapporto della Global Alliance for Banking on Values.
Ma veniamo in Italia. Leonardo nell’ultimo anno ha avuto un balzo in Borsa del 97%, la sua capitalizzazione ha toccato 12,9 miliardi di euro, ma la guerra all’interno dell’economia di guerra è del tutto evidente. Si pensi che le azioni di Leonardo hanno subìto perdite in Borsa (meno 8,9%) dopo una relazione di Goldman Sachs, la quale Banca di affari risponde probabilmente al desiderio degli USA di non avere dei concorrenti nel commercio di armi. In Italia il peso economico del comparto bellico oscilla da 30mila a 40mila occupati e da 9,5 mld a 12,0 mld di euro di fatturato. Si tratta di una quota minima del PIL nazionale ma sempre più legata alle strategie di partenariato con gli USA, considerando ad esempio che la fornitura di armi ad Israele sta avvenendo tramite una controllata di Leonardo negli Stati Uniti. Ma il problema è la concentrazione in distretti militari industriali. Ad esempio, quello torinese va analizzato in collegamento con la crisi di Stellantis. La mancanza di alternative reali della mobilità elettrica produce un vuoto che l’abile seduzione di Leonardo va, in parte, ad occupare con l’immaginario della produzione aerospaziale propagandata al posto di quella effettiva e predominante delle armi.
Cosa possiamo fare? Innanzitutto dotarci di un vademecum di base, utile a smontare il falso mito dei vantaggi della produzione bellica; utilizzare l’“Atlante delle aziende in Italia operanti nel settore aerospazio-difesa”, per identificare tutti i distretti industriali territoriali nei quali l’incidenza del comparto bellico riveste una relativa importanza sul piano economico e occupazionale.
Ricordo anche che dal punto di vista giuridico possiamo affermare che la Costituzione promuove una “economia di pace”, che si basa sul valore della fratellanza e sorellanza universale, della solidarietà, della cooperazione e del legame con l’ambiente, al cui fondamento c’è, da una parte, che “l’Italia ripudia la guerra”, dall’altra, limita l’uso della stessa alla difesa della patria e indirizza l’attività economica ad una funzione sociale ed ambientale.
Nessuna commercializzazione delle armi è possibile se non per la difesa della Patria in quanto al di fuori di questo recinto essa è attività economica “improduttiva”, nel senso della Costituzione, e distruttiva. E questa difesa, come ci indica don Lorenzo Milani nella lettera ai giudici, è anche nonviolenta.☺