Il servizio civile volontario deriva dal servizio civile sostitutivo del militare conseguente all’obiezione di coscienza: cioè ad una precisa scelta formale contro la preparazione della guerra. Se non ci fosse stata l’obiezione di coscienza non ci sarebbe oggi il servizio civile volontario. Oggi ci viene presentato come un’esperienza di lavoro di otto mesi al servizio del prossimo, nella maggior parte dei casi di tipo assistenziale, presso un ente convenzionato con il Ministero della Difesa; ai posti di servizio civile si accede in pratica per concorso; i progetti degli enti sono sottoposti al vaglio di una commissione e non tutti vengono accettati, e ogni anno il numero effettivo di volontari sarà pari a quello dei “posti” accettati dal ministero. Non una parola, nella pubblicità, inerente alla pace.
Forse nessuno tiene conto, almeno a livello istituzionale, di come è nato e cosa è stato il servizio civile. Si è discusso sul suo passaggio alla regione, se la gestione doveva essere pubblica o privata, ma nessuno ha provato ad analizzare quale dovrebbero essere le finalità e che caratteristiche dovrebbe avere un buon progetto. Appunto perché si è preferito delegare la materia ad un ufficio regionale appositamente costituito, che nel Molise è attualmente dominato da una classe politica abituata a curare clientele. E così non mi risulta finora alcun tentativo di creare progetti di servizio civile finalizzati a costruire la pace. Certo, l’assistenza è una cosa buona, crea buoni rapporti, allevia sofferenze e talvolta violenze strutturali: ma opporsi alla guerra con un’azione costruttiva di risoluzione dei conflitti è un’altra cosa.
Eppure in Italia stiamo a buon punto sia sul piano legislativo che sul piano dei progetti concreti. Infatti, sul piano legislativo la legge prevede, tra gli scopi e le attività del servizio civile, (unico caso al mondo) anche la possibilità di costruire un sistema di difesa non armata e nonviolenta, che è la questione fondamentale per dare uno sbocco concreto ad una sensibilità pacifista diffusa, cresciuta grazie a 50 anni di impegno pacifista nonviolento, nel quale non pochi hanno pagato di persona dapprima col carcere, poi con il servizio punitivo più lungo, poi con lunghe battaglie processuali. E’ possibile, e previsto dalla legge, costruire un sistema di difesa non affidato ai micidiali armamenti ma ad interventi di mediazione e di risoluzione pacifica e concordata dei conflitti. Tutto sta a costruire progetti in tal senso. Purtroppo alcuni atti politici, provenienti ahimé anche dal centro-sinistra, lasciano capire l’intenzione di eliminare la difesa popolare nonviolenta dalle finalità del servizio civile, per continuare a delegare alle Forze Armate il compito della sicurezza e le questioni guerra-pace. Ci auguriamo che questa tendenza anacronistica e miope venga al più presto invertita.
Sul piano dei progetti, la preparazione teorica e pratica agli interventi nonviolenti nelle aree di crisi almeno dagli anni ’90 è patrimonio di esperienza di varie associazioni, ad esempio i Caschi Bianchi dell’Operazione Colomba attuata dall’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, intervenuti ripetutamente nei Balcani e in Medio Oriente, con tentativi in Cecenia.
Ma esistono anche progetti di servizio civile volontario promossi da enti locali. Ad esempio il Comune e la Provincia di Ferrara hanno inviato due ragazze e due ragazzi a Cipro, per creare ponti di dialogo tra le due comunità rivali, la greco-cipriota a sud e la turco-cipriota a nord. Va ricordato che Cipro è divisa da un muro da quando, nel 1974, ci fu un’invasione turca in risposta ad un tentato colpo di stato del governo greco. I quattro giovani sono stati a Cipro per dieci mesi, il primo di formazione, otto di servizio effettivo e l’ultimo di valutazione e documentazione dell’esperienza (è bene sottolineare la maggior durata come indice di forte motivazione e migliore qualità del progetto). Il fatto di dipendere da enti pubblici e non da associazioni private è stato percepito più seriamente dalla gente fin dai primi importantissimi incontri: si è creata una reciproca conoscenza, un primo legame tra Ferrara e Nicosia suscettibile di futuri positivi sviluppi. Inoltre si è capito il senso della diplomazia popolare: i volontari in servizio civile hanno intessuto rapporti con la gente che nessun funzionario istituzionale può avere. In una situazione di calma apparente ma di conflitto latente, che dipende soprattutto da un educazione scolastica molto nazionalista da entrambe le parti, i volontari si sono inseriti in una associazione culturale greco-cipriota che si occupa di cinema, poesia e fotografia, e hanno costruito occasioni di dialogo e mediazione: serate culturali con poeti turchi e greci, corsi di intaglio, di flauto sufi e di tai chi, studio delle due lingue, una banca dati sulla città vecchia (dove il muro è più imponente e ingombrante) per elaborare una guida turistica bipartizan, il progetto di come potrebbe essere l’ambiente di un caffé condiviso come luogo di incontro tra le due comunità, diverso da tutti gli altri della città che sono etichettabili dal punto di vista nazionalistico; e infine una proposta di viaggio alternativo nell’isola di Cipro come occasione di incontro con le diverse associazioni locali per capire la complessità del conflitto ed entrare in contatto con la società civile. Il tutto con la modestia di proporre testi rivedibili mediante un lavoro di mediazione e di scrittura collettiva da parte dei due gruppi e degli stessi volontari (i locali non sopportano, infatti, chi viene da fuori e pretende di spiegare e risolvere i loro problemi). Nella serata di festa finale a casa dei volontari, sono venuti tutti, fugando i timori dei volontari di aver fallito la missione, che invece è risultata complessivamente positiva.
Certamente a Cipro non c’è guerra aperta e l’intervento è più facile. Ma proprio per questo è bene “allenarsi” in queste situazioni: innanzitutto per prevenire futuri conflitti violenti, poi per imparare ad affrontare conflitti più gravi, nei quali comunque altre associazioni italiane intervengono in modo simile (e più coraggioso).
Ci piacerebbe che tanti enti locali, che hanno istituito assessorati ed uffici per la pace, provassero a organizzare progetti di servizio civile simili a quello descritto, oppure di addestramento alla difesa non armata (esistono esperti in materia). E che gli stessi politici, notoriamente a contatto con i loro colleghi parlamentari e di governo, si adoperassero per la costruzione del sistema di difesa nonviolenta, da affiancare (non diciamo sostituire) alle forze armate, che per loro stessa ammissione non hanno veri compiti di pace. Perché accontentarsi di un servizio civile orientato solo alla solidarietà sociale e all’assistenza quando può diventare uno strumento non solo di crescita sociale, ma anche di eliminazione delle violenze a tutti i livelli e, in prospettiva, di intervento nonviolento per risolvere le situazioni di conflitto senza ricorrere alle armi? Nei fatti, tutto questo deve essere conquistato da chi crede realmente in questo obiettivo.
Da tutto ciò è evidente che la progettazione, la gestione e il controllo del servizio civile regionale non può essere affidata a privati, ma deve rimanere un servizio pubblico. A capo del quale, e nel quale, sarebbe bene mettere a lavorare chi ha esperienza di servizio civile ed ha lavorato per lunghi anni in organizzazioni pacifiste, e che dunque ne conosce tutte le varie problematiche. L’affidamento con gara d’appalto dimostra lo scarso interesse e la scarsa competenza in materia di chi lo ha proposto e rischia di fare del servizio civile regionale un carrozzone clientelare e un modo per sfruttare mano d’opera a basso costo. ☺
Il servizio civile volontario deriva dal servizio civile sostitutivo del militare conseguente all’obiezione di coscienza: cioè ad una precisa scelta formale contro la preparazione della guerra. Se non ci fosse stata l’obiezione di coscienza non ci sarebbe oggi il servizio civile volontario. Oggi ci viene presentato come un’esperienza di lavoro di otto mesi al servizio del prossimo, nella maggior parte dei casi di tipo assistenziale, presso un ente convenzionato con il Ministero della Difesa; ai posti di servizio civile si accede in pratica per concorso; i progetti degli enti sono sottoposti al vaglio di una commissione e non tutti vengono accettati, e ogni anno il numero effettivo di volontari sarà pari a quello dei “posti” accettati dal ministero. Non una parola, nella pubblicità, inerente alla pace.
Forse nessuno tiene conto, almeno a livello istituzionale, di come è nato e cosa è stato il servizio civile. Si è discusso sul suo passaggio alla regione, se la gestione doveva essere pubblica o privata, ma nessuno ha provato ad analizzare quale dovrebbero essere le finalità e che caratteristiche dovrebbe avere un buon progetto. Appunto perché si è preferito delegare la materia ad un ufficio regionale appositamente costituito, che nel Molise è attualmente dominato da una classe politica abituata a curare clientele. E così non mi risulta finora alcun tentativo di creare progetti di servizio civile finalizzati a costruire la pace. Certo, l’assistenza è una cosa buona, crea buoni rapporti, allevia sofferenze e talvolta violenze strutturali: ma opporsi alla guerra con un’azione costruttiva di risoluzione dei conflitti è un’altra cosa.
Eppure in Italia stiamo a buon punto sia sul piano legislativo che sul piano dei progetti concreti. Infatti, sul piano legislativo la legge prevede, tra gli scopi e le attività del servizio civile, (unico caso al mondo) anche la possibilità di costruire un sistema di difesa non armata e nonviolenta, che è la questione fondamentale per dare uno sbocco concreto ad una sensibilità pacifista diffusa, cresciuta grazie a 50 anni di impegno pacifista nonviolento, nel quale non pochi hanno pagato di persona dapprima col carcere, poi con il servizio punitivo più lungo, poi con lunghe battaglie processuali. E’ possibile, e previsto dalla legge, costruire un sistema di difesa non affidato ai micidiali armamenti ma ad interventi di mediazione e di risoluzione pacifica e concordata dei conflitti. Tutto sta a costruire progetti in tal senso. Purtroppo alcuni atti politici, provenienti ahimé anche dal centro-sinistra, lasciano capire l’intenzione di eliminare la difesa popolare nonviolenta dalle finalità del servizio civile, per continuare a delegare alle Forze Armate il compito della sicurezza e le questioni guerra-pace. Ci auguriamo che questa tendenza anacronistica e miope venga al più presto invertita.
Sul piano dei progetti, la preparazione teorica e pratica agli interventi nonviolenti nelle aree di crisi almeno dagli anni ’90 è patrimonio di esperienza di varie associazioni, ad esempio i Caschi Bianchi dell’Operazione Colomba attuata dall’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, intervenuti ripetutamente nei Balcani e in Medio Oriente, con tentativi in Cecenia.
Ma esistono anche progetti di servizio civile volontario promossi da enti locali. Ad esempio il Comune e la Provincia di Ferrara hanno inviato due ragazze e due ragazzi a Cipro, per creare ponti di dialogo tra le due comunità rivali, la greco-cipriota a sud e la turco-cipriota a nord. Va ricordato che Cipro è divisa da un muro da quando, nel 1974, ci fu un’invasione turca in risposta ad un tentato colpo di stato del governo greco. I quattro giovani sono stati a Cipro per dieci mesi, il primo di formazione, otto di servizio effettivo e l’ultimo di valutazione e documentazione dell’esperienza (è bene sottolineare la maggior durata come indice di forte motivazione e migliore qualità del progetto). Il fatto di dipendere da enti pubblici e non da associazioni private è stato percepito più seriamente dalla gente fin dai primi importantissimi incontri: si è creata una reciproca conoscenza, un primo legame tra Ferrara e Nicosia suscettibile di futuri positivi sviluppi. Inoltre si è capito il senso della diplomazia popolare: i volontari in servizio civile hanno intessuto rapporti con la gente che nessun funzionario istituzionale può avere. In una situazione di calma apparente ma di conflitto latente, che dipende soprattutto da un educazione scolastica molto nazionalista da entrambe le parti, i volontari si sono inseriti in una associazione culturale greco-cipriota che si occupa di cinema, poesia e fotografia, e hanno costruito occasioni di dialogo e mediazione: serate culturali con poeti turchi e greci, corsi di intaglio, di flauto sufi e di tai chi, studio delle due lingue, una banca dati sulla città vecchia (dove il muro è più imponente e ingombrante) per elaborare una guida turistica bipartizan, il progetto di come potrebbe essere l’ambiente di un caffé condiviso come luogo di incontro tra le due comunità, diverso da tutti gli altri della città che sono etichettabili dal punto di vista nazionalistico; e infine una proposta di viaggio alternativo nell’isola di Cipro come occasione di incontro con le diverse associazioni locali per capire la complessità del conflitto ed entrare in contatto con la società civile. Il tutto con la modestia di proporre testi rivedibili mediante un lavoro di mediazione e di scrittura collettiva da parte dei due gruppi e degli stessi volontari (i locali non sopportano, infatti, chi viene da fuori e pretende di spiegare e risolvere i loro problemi). Nella serata di festa finale a casa dei volontari, sono venuti tutti, fugando i timori dei volontari di aver fallito la missione, che invece è risultata complessivamente positiva.
Certamente a Cipro non c’è guerra aperta e l’intervento è più facile. Ma proprio per questo è bene “allenarsi” in queste situazioni: innanzitutto per prevenire futuri conflitti violenti, poi per imparare ad affrontare conflitti più gravi, nei quali comunque altre associazioni italiane intervengono in modo simile (e più coraggioso).
Ci piacerebbe che tanti enti locali, che hanno istituito assessorati ed uffici per la pace, provassero a organizzare progetti di servizio civile simili a quello descritto, oppure di addestramento alla difesa non armata (esistono esperti in materia). E che gli stessi politici, notoriamente a contatto con i loro colleghi parlamentari e di governo, si adoperassero per la costruzione del sistema di difesa nonviolenta, da affiancare (non diciamo sostituire) alle forze armate, che per loro stessa ammissione non hanno veri compiti di pace. Perché accontentarsi di un servizio civile orientato solo alla solidarietà sociale e all’assistenza quando può diventare uno strumento non solo di crescita sociale, ma anche di eliminazione delle violenze a tutti i livelli e, in prospettiva, di intervento nonviolento per risolvere le situazioni di conflitto senza ricorrere alle armi? Nei fatti, tutto questo deve essere conquistato da chi crede realmente in questo obiettivo.
Da tutto ciò è evidente che la progettazione, la gestione e il controllo del servizio civile regionale non può essere affidata a privati, ma deve rimanere un servizio pubblico. A capo del quale, e nel quale, sarebbe bene mettere a lavorare chi ha esperienza di servizio civile ed ha lavorato per lunghi anni in organizzazioni pacifiste, e che dunque ne conosce tutte le varie problematiche. L’affidamento con gara d’appalto dimostra lo scarso interesse e la scarsa competenza in materia di chi lo ha proposto e rischia di fare del servizio civile regionale un carrozzone clientelare e un modo per sfruttare mano d’opera a basso costo. ☺
Il servizio civile volontario deriva dal servizio civile sostitutivo del militare conseguente all’obiezione di coscienza: cioè ad una precisa scelta formale contro la preparazione della guerra. Se non ci fosse stata l’obiezione di coscienza non ci sarebbe oggi il servizio civile volontario. Oggi ci viene presentato come un’esperienza di lavoro di otto mesi al servizio del prossimo, nella maggior parte dei casi di tipo assistenziale, presso un ente convenzionato con il Ministero della Difesa; ai posti di servizio civile si accede in pratica per concorso; i progetti degli enti sono sottoposti al vaglio di una commissione e non tutti vengono accettati, e ogni anno il numero effettivo di volontari sarà pari a quello dei “posti” accettati dal ministero. Non una parola, nella pubblicità, inerente alla pace.
Forse nessuno tiene conto, almeno a livello istituzionale, di come è nato e cosa è stato il servizio civile. Si è discusso sul suo passaggio alla regione, se la gestione doveva essere pubblica o privata, ma nessuno ha provato ad analizzare quale dovrebbero essere le finalità e che caratteristiche dovrebbe avere un buon progetto. Appunto perché si è preferito delegare la materia ad un ufficio regionale appositamente costituito, che nel Molise è attualmente dominato da una classe politica abituata a curare clientele. E così non mi risulta finora alcun tentativo di creare progetti di servizio civile finalizzati a costruire la pace. Certo, l’assistenza è una cosa buona, crea buoni rapporti, allevia sofferenze e talvolta violenze strutturali: ma opporsi alla guerra con un’azione costruttiva di risoluzione dei conflitti è un’altra cosa.
Eppure in Italia stiamo a buon punto sia sul piano legislativo che sul piano dei progetti concreti. Infatti, sul piano legislativo la legge prevede, tra gli scopi e le attività del servizio civile, (unico caso al mondo) anche la possibilità di costruire un sistema di difesa non armata e nonviolenta, che è la questione fondamentale per dare uno sbocco concreto ad una sensibilità pacifista diffusa, cresciuta grazie a 50 anni di impegno pacifista nonviolento, nel quale non pochi hanno pagato di persona dapprima col carcere, poi con il servizio punitivo più lungo, poi con lunghe battaglie processuali. E’ possibile, e previsto dalla legge, costruire un sistema di difesa non affidato ai micidiali armamenti ma ad interventi di mediazione e di risoluzione pacifica e concordata dei conflitti. Tutto sta a costruire progetti in tal senso. Purtroppo alcuni atti politici, provenienti ahimé anche dal centro-sinistra, lasciano capire l’intenzione di eliminare la difesa popolare nonviolenta dalle finalità del servizio civile, per continuare a delegare alle Forze Armate il compito della sicurezza e le questioni guerra-pace. Ci auguriamo che questa tendenza anacronistica e miope venga al più presto invertita.
Sul piano dei progetti, la preparazione teorica e pratica agli interventi nonviolenti nelle aree di crisi almeno dagli anni ’90 è patrimonio di esperienza di varie associazioni, ad esempio i Caschi Bianchi dell’Operazione Colomba attuata dall’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, intervenuti ripetutamente nei Balcani e in Medio Oriente, con tentativi in Cecenia.
Ma esistono anche progetti di servizio civile volontario promossi da enti locali. Ad esempio il Comune e la Provincia di Ferrara hanno inviato due ragazze e due ragazzi a Cipro, per creare ponti di dialogo tra le due comunità rivali, la greco-cipriota a sud e la turco-cipriota a nord. Va ricordato che Cipro è divisa da un muro da quando, nel 1974, ci fu un’invasione turca in risposta ad un tentato colpo di stato del governo greco. I quattro giovani sono stati a Cipro per dieci mesi, il primo di formazione, otto di servizio effettivo e l’ultimo di valutazione e documentazione dell’esperienza (è bene sottolineare la maggior durata come indice di forte motivazione e migliore qualità del progetto). Il fatto di dipendere da enti pubblici e non da associazioni private è stato percepito più seriamente dalla gente fin dai primi importantissimi incontri: si è creata una reciproca conoscenza, un primo legame tra Ferrara e Nicosia suscettibile di futuri positivi sviluppi. Inoltre si è capito il senso della diplomazia popolare: i volontari in servizio civile hanno intessuto rapporti con la gente che nessun funzionario istituzionale può avere. In una situazione di calma apparente ma di conflitto latente, che dipende soprattutto da un educazione scolastica molto nazionalista da entrambe le parti, i volontari si sono inseriti in una associazione culturale greco-cipriota che si occupa di cinema, poesia e fotografia, e hanno costruito occasioni di dialogo e mediazione: serate culturali con poeti turchi e greci, corsi di intaglio, di flauto sufi e di tai chi, studio delle due lingue, una banca dati sulla città vecchia (dove il muro è più imponente e ingombrante) per elaborare una guida turistica bipartizan, il progetto di come potrebbe essere l’ambiente di un caffé condiviso come luogo di incontro tra le due comunità, diverso da tutti gli altri della città che sono etichettabili dal punto di vista nazionalistico; e infine una proposta di viaggio alternativo nell’isola di Cipro come occasione di incontro con le diverse associazioni locali per capire la complessità del conflitto ed entrare in contatto con la società civile. Il tutto con la modestia di proporre testi rivedibili mediante un lavoro di mediazione e di scrittura collettiva da parte dei due gruppi e degli stessi volontari (i locali non sopportano, infatti, chi viene da fuori e pretende di spiegare e risolvere i loro problemi). Nella serata di festa finale a casa dei volontari, sono venuti tutti, fugando i timori dei volontari di aver fallito la missione, che invece è risultata complessivamente positiva.
Certamente a Cipro non c’è guerra aperta e l’intervento è più facile. Ma proprio per questo è bene “allenarsi” in queste situazioni: innanzitutto per prevenire futuri conflitti violenti, poi per imparare ad affrontare conflitti più gravi, nei quali comunque altre associazioni italiane intervengono in modo simile (e più coraggioso).
Ci piacerebbe che tanti enti locali, che hanno istituito assessorati ed uffici per la pace, provassero a organizzare progetti di servizio civile simili a quello descritto, oppure di addestramento alla difesa non armata (esistono esperti in materia). E che gli stessi politici, notoriamente a contatto con i loro colleghi parlamentari e di governo, si adoperassero per la costruzione del sistema di difesa nonviolenta, da affiancare (non diciamo sostituire) alle forze armate, che per loro stessa ammissione non hanno veri compiti di pace. Perché accontentarsi di un servizio civile orientato solo alla solidarietà sociale e all’assistenza quando può diventare uno strumento non solo di crescita sociale, ma anche di eliminazione delle violenze a tutti i livelli e, in prospettiva, di intervento nonviolento per risolvere le situazioni di conflitto senza ricorrere alle armi? Nei fatti, tutto questo deve essere conquistato da chi crede realmente in questo obiettivo.
Da tutto ciò è evidente che la progettazione, la gestione e il controllo del servizio civile regionale non può essere affidata a privati, ma deve rimanere un servizio pubblico. A capo del quale, e nel quale, sarebbe bene mettere a lavorare chi ha esperienza di servizio civile ed ha lavorato per lunghi anni in organizzazioni pacifiste, e che dunque ne conosce tutte le varie problematiche. L’affidamento con gara d’appalto dimostra lo scarso interesse e la scarsa competenza in materia di chi lo ha proposto e rischia di fare del servizio civile regionale un carrozzone clientelare e un modo per sfruttare mano d’opera a basso costo. ☺
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