Nel dramma dell’esilio il popolo d’Israele ha sperimentato la perdita dell’indipendenza e della sicurezza con la conseguente mancanza di dignità. In questo contesto traumatico sarebbe stato facile (e probabilmente per molti esiliati così e avvenuto) abbattersi e rassegnarsi a una situazione nuova e deprimente. Eppure le Scritture ci dicono che in mezzo alla disperazione più nera, si sono alzate delle voci che da un lato hanno gridato in faccia agli oppressori la voglia di riscatto, dall’altro hanno rianimato la debole fede e la poca speranza degli oppressi incitando a guardare a un futuro di rinascita: “Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno città desolate, devastate da più generazioni. Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (Is 61,4-5).
Nella semplificata concezione della giustizia divina, il profeta della consolazione d’Israele vede nell’inversione delle parti (gli oppressori diventano servitori) il segno tangibile dell’intervento salvatore di Dio. A parte questa strettezza mentale, però, è da sottolineare che la rinascita è stata possibile perché c’è stato qualcuno che ci ha creduto, nonostante che tutto remasse contro; allo stesso tempo, però, avevano anche ben chiaro che non basta sognare una rinascita materiale, ma occorre una base etica perché sia possibile la ricostruzione e dopo è necessaria una vita nuova, non più ancorata alla grettezza tipica di chi pensa solo a se stesso e non al bene della comunità. Questo lo esige l’esperienza che hanno fatto di Dio i profeti: “Io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne” (Is 61,8). In mezzo a tanti faccendieri e speculatori, quindi, c’è chi si deve assumere l’onere della denuncia, quello di aprire gli occhi a tanti infelici che lo sono doppiamente sia per la situazione materiale che per la piccolezza morale: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece di cenere, olio di letizia invece dell’abito di lutto, canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,1-3a).
Il ritorno degli esiliati nella loro terra non è semplicemente un ritorno allo status quo ma costituisce piuttosto un’investitura per una missione, per gridare agli altri, dopo aver provato sulla propria pelle il peso dell’ingiustizia, la necessità di costruire una nuova società basata sul diritto e la condivisione: “Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (Is 61,6a). Subito dopo il terremoto del 2002 si disse che era necessaria una ricostruzione non solo materiale ma morale. A quasi cinque anni da allora è iniziata (anche se solo molto approssimativamente) la ricostruzione materiale, ma quale effetto ha prodotto tutta la giostra di politici e politicanti, progetti e iniziative? Avendo ben presto dimenticato, dopo il cordoglio dei primi tempi, che solo rispettando i valori e la dignità della persona si possono evitare immani tragedie, ci siamo precipitati all’arraffamento generalizzato in una sorta di cupio dissolvi, che già da tempo attanaglia la nostra società e il Molise in particolare. Di fronte a questa stupidità generalizzata, non possiamo tacere (qui il non possumus ci sta bene!): ne andrebbe della nostra dignità; almeno quella non ce la possono rubare. ☺
Nel dramma dell’esilio il popolo d’Israele ha sperimentato la perdita dell’indipendenza e della sicurezza con la conseguente mancanza di dignità. In questo contesto traumatico sarebbe stato facile (e probabilmente per molti esiliati così e avvenuto) abbattersi e rassegnarsi a una situazione nuova e deprimente. Eppure le Scritture ci dicono che in mezzo alla disperazione più nera, si sono alzate delle voci che da un lato hanno gridato in faccia agli oppressori la voglia di riscatto, dall’altro hanno rianimato la debole fede e la poca speranza degli oppressi incitando a guardare a un futuro di rinascita: “Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno città desolate, devastate da più generazioni. Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (Is 61,4-5).
Nella semplificata concezione della giustizia divina, il profeta della consolazione d’Israele vede nell’inversione delle parti (gli oppressori diventano servitori) il segno tangibile dell’intervento salvatore di Dio. A parte questa strettezza mentale, però, è da sottolineare che la rinascita è stata possibile perché c’è stato qualcuno che ci ha creduto, nonostante che tutto remasse contro; allo stesso tempo, però, avevano anche ben chiaro che non basta sognare una rinascita materiale, ma occorre una base etica perché sia possibile la ricostruzione e dopo è necessaria una vita nuova, non più ancorata alla grettezza tipica di chi pensa solo a se stesso e non al bene della comunità. Questo lo esige l’esperienza che hanno fatto di Dio i profeti: “Io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne” (Is 61,8). In mezzo a tanti faccendieri e speculatori, quindi, c’è chi si deve assumere l’onere della denuncia, quello di aprire gli occhi a tanti infelici che lo sono doppiamente sia per la situazione materiale che per la piccolezza morale: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece di cenere, olio di letizia invece dell’abito di lutto, canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,1-3a).
Il ritorno degli esiliati nella loro terra non è semplicemente un ritorno allo status quo ma costituisce piuttosto un’investitura per una missione, per gridare agli altri, dopo aver provato sulla propria pelle il peso dell’ingiustizia, la necessità di costruire una nuova società basata sul diritto e la condivisione: “Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (Is 61,6a). Subito dopo il terremoto del 2002 si disse che era necessaria una ricostruzione non solo materiale ma morale. A quasi cinque anni da allora è iniziata (anche se solo molto approssimativamente) la ricostruzione materiale, ma quale effetto ha prodotto tutta la giostra di politici e politicanti, progetti e iniziative? Avendo ben presto dimenticato, dopo il cordoglio dei primi tempi, che solo rispettando i valori e la dignità della persona si possono evitare immani tragedie, ci siamo precipitati all’arraffamento generalizzato in una sorta di cupio dissolvi, che già da tempo attanaglia la nostra società e il Molise in particolare. Di fronte a questa stupidità generalizzata, non possiamo tacere (qui il non possumus ci sta bene!): ne andrebbe della nostra dignità; almeno quella non ce la possono rubare. ☺
Nel dramma dell’esilio il popolo d’Israele ha sperimentato la perdita dell’indipendenza e della sicurezza con la conseguente mancanza di dignità. In questo contesto traumatico sarebbe stato facile (e probabilmente per molti esiliati così e avvenuto) abbattersi e rassegnarsi a una situazione nuova e deprimente. Eppure le Scritture ci dicono che in mezzo alla disperazione più nera, si sono alzate delle voci che da un lato hanno gridato in faccia agli oppressori la voglia di riscatto, dall’altro hanno rianimato la debole fede e la poca speranza degli oppressi incitando a guardare a un futuro di rinascita: “Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno città desolate, devastate da più generazioni. Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (Is 61,4-5).
Nella semplificata concezione della giustizia divina, il profeta della consolazione d’Israele vede nell’inversione delle parti (gli oppressori diventano servitori) il segno tangibile dell’intervento salvatore di Dio. A parte questa strettezza mentale, però, è da sottolineare che la rinascita è stata possibile perché c’è stato qualcuno che ci ha creduto, nonostante che tutto remasse contro; allo stesso tempo, però, avevano anche ben chiaro che non basta sognare una rinascita materiale, ma occorre una base etica perché sia possibile la ricostruzione e dopo è necessaria una vita nuova, non più ancorata alla grettezza tipica di chi pensa solo a se stesso e non al bene della comunità. Questo lo esige l’esperienza che hanno fatto di Dio i profeti: “Io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne” (Is 61,8). In mezzo a tanti faccendieri e speculatori, quindi, c’è chi si deve assumere l’onere della denuncia, quello di aprire gli occhi a tanti infelici che lo sono doppiamente sia per la situazione materiale che per la piccolezza morale: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro una corona invece di cenere, olio di letizia invece dell’abito di lutto, canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,1-3a).
Il ritorno degli esiliati nella loro terra non è semplicemente un ritorno allo status quo ma costituisce piuttosto un’investitura per una missione, per gridare agli altri, dopo aver provato sulla propria pelle il peso dell’ingiustizia, la necessità di costruire una nuova società basata sul diritto e la condivisione: “Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (Is 61,6a). Subito dopo il terremoto del 2002 si disse che era necessaria una ricostruzione non solo materiale ma morale. A quasi cinque anni da allora è iniziata (anche se solo molto approssimativamente) la ricostruzione materiale, ma quale effetto ha prodotto tutta la giostra di politici e politicanti, progetti e iniziative? Avendo ben presto dimenticato, dopo il cordoglio dei primi tempi, che solo rispettando i valori e la dignità della persona si possono evitare immani tragedie, ci siamo precipitati all’arraffamento generalizzato in una sorta di cupio dissolvi, che già da tempo attanaglia la nostra società e il Molise in particolare. Di fronte a questa stupidità generalizzata, non possiamo tacere (qui il non possumus ci sta bene!): ne andrebbe della nostra dignità; almeno quella non ce la possono rubare. ☺
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