Dalla prima rivoluzione industriale ad oggi, le condizioni dell’umanità sono state contrassegnate da un forte progresso scientifico ed economico, ma anche da forme di ingiustizia fortemente lesive della dignità dell’uomo.
Nella sua complessa articolazione il miliardo di persone, che risiede nelle nazioni industrializzate, guadagna il 60% del reddito mondiale, mentre 3,5 miliardi di soggetti, che vivono nei paesi a basso reddito, percepiscono meno del 20% dell’intera ricchezza. Mentre, sul versante occupazionale, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, 60 milioni di giovani sono, senza successo, alla ricerca di un’occupazione; circa l’80% di essi vive nei paesi in via di sviluppo e nelle economie in transizione verso l’economia di mercato. Quelli che rientrano nella schiera compresa nella fascia di età dai 15 ai 24 anni, hanno più o meno il doppio delle possibilità di rimanere disoccupati anche da adulti; e in alcuni paesi poveri, questo rapporto è ancora più alto. I giovani hanno anche maggiori possibilità di essere gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati; così come hanno meno probabilità di essere difesi dalla normativa sul lavoro. La stessa ricerca spasmodica della produttività e del profitto ha favorito la perdita di innumerevoli vite umane: basti pensare che ogni anno circa due milioni di persone muoiono a causa di un incidente sul lavoro o per malattie professionali e di queste vittime, registrate su scala planetaria, molti risultano essere bambini.
Solo nei paesi in via di sviluppo il lavoro minorile coinvolge circa 250 milioni di esseri umani: tutti con un’età compresa fra i 5 e i 14 anni. A questi vanno poi aggiunti i bambini lavoratori del mondo industrializzato (Europa, Nord America e Oceania). Secondo alcuni dati forniti da organizzazioni non governative e fatti propri dall’Unicef, si calcola che almeno il 15% dei minori, presenti nel Regno Unito, e anagraficamente collocati nella fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, svolga una qualche attività lavorativa. Mentre negli Stati Uniti risultano essere occupati 5 milioni e mezzo di ragazzi; qui le violazioni delle norme che regolamentano il lavoro dei minori, sono aumentati del 250%, in un arco temporale compreso tra il 1983 e il 1990.
Più in generale il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro ha visto l’emergere di un’economia decisamente informale: questa, nel suo insieme, assorbe la metà di tutti i lavoratori del mondo, e, in alcune Nazioni, come ad esempio il Bangladesh o il Pakistan, tale percentuale arriva al 70%.
Ma anche nei Paesi di più antica industrializzazione si avverte un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro. In particolare si registra: l’aumento dei disturbi muscolo-scheletrici e delle malattie mentali; la recrudescenza dell’asma e delle reazioni allergiche; la moltiplicazione delle complicazioni dovute a materiali pericolosi o cancerogeni. A tutto questo si deve inoltre aggiungere: la crescita degli infortuni; una maggiore colonizzazione e dilatazione degli orari vissuti in azienda; una disoccupazione diffusa; la sensibile perdita del potere di acquisto dei salari; l’aumento indiscriminato dei carichi di lavoro; la drastica diminuzione dei contratti a tempo indeterminato e il corrispettivo aumento del lavoro precario e dei rapporti di collaborazione.
Lo stress derivante dall’attività lavorativa è divenuto talmente elevato che, solo in Giappone, si calcola che rimangano vittime del Karoshi (morte da super-lavoro) più di 10 mila persone ogni anno.
In definitiva, oggi come ieri, l’assolutizzazione del movente economico ha fatto perdere di vista la centralità della persona. Si tratta, allora, di guardare alla rivoluzione industriale come a un processo profondamente incompiuto: espressione, nella sua intima essenza, di un progresso chiuso egoisticamente, negli interessi finanziari di pochi, e per questo enormemente lesiva della più profonda e genuina dignità dell’uomo.☺
a.miccoli@cgilmolise.it
Dalla prima rivoluzione industriale ad oggi, le condizioni dell’umanità sono state contrassegnate da un forte progresso scientifico ed economico, ma anche da forme di ingiustizia fortemente lesive della dignità dell’uomo.
Nella sua complessa articolazione il miliardo di persone, che risiede nelle nazioni industrializzate, guadagna il 60% del reddito mondiale, mentre 3,5 miliardi di soggetti, che vivono nei paesi a basso reddito, percepiscono meno del 20% dell’intera ricchezza. Mentre, sul versante occupazionale, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, 60 milioni di giovani sono, senza successo, alla ricerca di un’occupazione; circa l’80% di essi vive nei paesi in via di sviluppo e nelle economie in transizione verso l’economia di mercato. Quelli che rientrano nella schiera compresa nella fascia di età dai 15 ai 24 anni, hanno più o meno il doppio delle possibilità di rimanere disoccupati anche da adulti; e in alcuni paesi poveri, questo rapporto è ancora più alto. I giovani hanno anche maggiori possibilità di essere gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati; così come hanno meno probabilità di essere difesi dalla normativa sul lavoro. La stessa ricerca spasmodica della produttività e del profitto ha favorito la perdita di innumerevoli vite umane: basti pensare che ogni anno circa due milioni di persone muoiono a causa di un incidente sul lavoro o per malattie professionali e di queste vittime, registrate su scala planetaria, molti risultano essere bambini.
Solo nei paesi in via di sviluppo il lavoro minorile coinvolge circa 250 milioni di esseri umani: tutti con un’età compresa fra i 5 e i 14 anni. A questi vanno poi aggiunti i bambini lavoratori del mondo industrializzato (Europa, Nord America e Oceania). Secondo alcuni dati forniti da organizzazioni non governative e fatti propri dall’Unicef, si calcola che almeno il 15% dei minori, presenti nel Regno Unito, e anagraficamente collocati nella fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, svolga una qualche attività lavorativa. Mentre negli Stati Uniti risultano essere occupati 5 milioni e mezzo di ragazzi; qui le violazioni delle norme che regolamentano il lavoro dei minori, sono aumentati del 250%, in un arco temporale compreso tra il 1983 e il 1990.
Più in generale il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro ha visto l’emergere di un’economia decisamente informale: questa, nel suo insieme, assorbe la metà di tutti i lavoratori del mondo, e, in alcune Nazioni, come ad esempio il Bangladesh o il Pakistan, tale percentuale arriva al 70%.
Ma anche nei Paesi di più antica industrializzazione si avverte un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro. In particolare si registra: l’aumento dei disturbi muscolo-scheletrici e delle malattie mentali; la recrudescenza dell’asma e delle reazioni allergiche; la moltiplicazione delle complicazioni dovute a materiali pericolosi o cancerogeni. A tutto questo si deve inoltre aggiungere: la crescita degli infortuni; una maggiore colonizzazione e dilatazione degli orari vissuti in azienda; una disoccupazione diffusa; la sensibile perdita del potere di acquisto dei salari; l’aumento indiscriminato dei carichi di lavoro; la drastica diminuzione dei contratti a tempo indeterminato e il corrispettivo aumento del lavoro precario e dei rapporti di collaborazione.
Lo stress derivante dall’attività lavorativa è divenuto talmente elevato che, solo in Giappone, si calcola che rimangano vittime del Karoshi (morte da super-lavoro) più di 10 mila persone ogni anno.
In definitiva, oggi come ieri, l’assolutizzazione del movente economico ha fatto perdere di vista la centralità della persona. Si tratta, allora, di guardare alla rivoluzione industriale come a un processo profondamente incompiuto: espressione, nella sua intima essenza, di un progresso chiuso egoisticamente, negli interessi finanziari di pochi, e per questo enormemente lesiva della più profonda e genuina dignità dell’uomo.☺
Dalla prima rivoluzione industriale ad oggi, le condizioni dell’umanità sono state contrassegnate da un forte progresso scientifico ed economico, ma anche da forme di ingiustizia fortemente lesive della dignità dell’uomo.
Nella sua complessa articolazione il miliardo di persone, che risiede nelle nazioni industrializzate, guadagna il 60% del reddito mondiale, mentre 3,5 miliardi di soggetti, che vivono nei paesi a basso reddito, percepiscono meno del 20% dell’intera ricchezza. Mentre, sul versante occupazionale, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, 60 milioni di giovani sono, senza successo, alla ricerca di un’occupazione; circa l’80% di essi vive nei paesi in via di sviluppo e nelle economie in transizione verso l’economia di mercato. Quelli che rientrano nella schiera compresa nella fascia di età dai 15 ai 24 anni, hanno più o meno il doppio delle possibilità di rimanere disoccupati anche da adulti; e in alcuni paesi poveri, questo rapporto è ancora più alto. I giovani hanno anche maggiori possibilità di essere gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati; così come hanno meno probabilità di essere difesi dalla normativa sul lavoro. La stessa ricerca spasmodica della produttività e del profitto ha favorito la perdita di innumerevoli vite umane: basti pensare che ogni anno circa due milioni di persone muoiono a causa di un incidente sul lavoro o per malattie professionali e di queste vittime, registrate su scala planetaria, molti risultano essere bambini.
Solo nei paesi in via di sviluppo il lavoro minorile coinvolge circa 250 milioni di esseri umani: tutti con un’età compresa fra i 5 e i 14 anni. A questi vanno poi aggiunti i bambini lavoratori del mondo industrializzato (Europa, Nord America e Oceania). Secondo alcuni dati forniti da organizzazioni non governative e fatti propri dall’Unicef, si calcola che almeno il 15% dei minori, presenti nel Regno Unito, e anagraficamente collocati nella fascia di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, svolga una qualche attività lavorativa. Mentre negli Stati Uniti risultano essere occupati 5 milioni e mezzo di ragazzi; qui le violazioni delle norme che regolamentano il lavoro dei minori, sono aumentati del 250%, in un arco temporale compreso tra il 1983 e il 1990.
Più in generale il processo di deregolamentazione del mercato del lavoro ha visto l’emergere di un’economia decisamente informale: questa, nel suo insieme, assorbe la metà di tutti i lavoratori del mondo, e, in alcune Nazioni, come ad esempio il Bangladesh o il Pakistan, tale percentuale arriva al 70%.
Ma anche nei Paesi di più antica industrializzazione si avverte un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro. In particolare si registra: l’aumento dei disturbi muscolo-scheletrici e delle malattie mentali; la recrudescenza dell’asma e delle reazioni allergiche; la moltiplicazione delle complicazioni dovute a materiali pericolosi o cancerogeni. A tutto questo si deve inoltre aggiungere: la crescita degli infortuni; una maggiore colonizzazione e dilatazione degli orari vissuti in azienda; una disoccupazione diffusa; la sensibile perdita del potere di acquisto dei salari; l’aumento indiscriminato dei carichi di lavoro; la drastica diminuzione dei contratti a tempo indeterminato e il corrispettivo aumento del lavoro precario e dei rapporti di collaborazione.
Lo stress derivante dall’attività lavorativa è divenuto talmente elevato che, solo in Giappone, si calcola che rimangano vittime del Karoshi (morte da super-lavoro) più di 10 mila persone ogni anno.
In definitiva, oggi come ieri, l’assolutizzazione del movente economico ha fatto perdere di vista la centralità della persona. Si tratta, allora, di guardare alla rivoluzione industriale come a un processo profondamente incompiuto: espressione, nella sua intima essenza, di un progresso chiuso egoisticamente, negli interessi finanziari di pochi, e per questo enormemente lesiva della più profonda e genuina dignità dell’uomo.☺
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