La società globalizzata ci ha abituati a leggere sull’etichetta di qualsiasi prodotto che acquistiamo espressioni del tipo Made in Italy [pronuncia: meid in itali] oppure Made in China [pronuncia: meid in ciàina]; non ci sorprendono affatto, anzi ci comunicano direttamente, senza che ci sia il bisogno di ricorrere alla traduzione, la provenienza di quel prodotto.
Made, participio passato del verbo make [pronuncia: meic], che compare nei suddetti enunciati, significa “fabbricato, confezionato”. È infatti make un verbo dalle molteplici accezioni, tutte inerenti l’area semantica di “fare”, con una varietà di significati che non si potrebbe esaurire in poche righe. Scelgo perciò due voci su cui vorrei invitarvi a riflettere.
Quando intendono avere cura dell’aspetto del proprio volto, le signore di qualsiasi età ricorrono ovviamente al make-up [pronuncia: meic-ap]. Questo sostantivo sta ad indicare quei prodotti che si applicano sul viso, occhi e labbra, per rendere più attraente la propria immagine. Si potrebbero esprimere opinioni diverse a proposito del make-up: per alcuni rappresenterebbe una forzatura, il tentativo cioè di mascherare imperfezioni o solamente il desiderio di essere alla moda, per altri il convincimento di esprimere davvero se stessi attraverso quell’immagine e solo ricorrendo a quegli accorgimenti. Nella lingua italiana, quando traduciamo make-up con “trucco” ci riferiamo, magari inconsapevolmente, ad un espediente per nascondere o mascherare la realtà. Un po’ dissimile il vocabolo inglese: “formare, costituire, organizzare” è il senso profondo del termine make-up; oltre ad indicare i cosmetici e di conseguenza la cura del proprio volto, il termine può riferirsi in ambito sociologico ai gruppi di persone per indicarne l’estrazione sociale, il livello di istruzione, ecc.; da un punto vista psicologico riguarda gli atteggiamenti e le qualità del carattere di una persona; lo si può utilizzare infine in campo editoriale per indicare la bozza di un giornale con la sequenza e l’impaginazione degli articoli.
Make-up, aspetto più che trucco: ciò che si vuole mostrare piuttosto che ciò che si vuole nascondere!
Un’altra parola che abbiamo preso in prestito dagli inglesi e che preferiamo utilizzare ritenendola più aderente a quello che vogliamo esprimere è remake [pronuncia: rimeic], sia verbo che sostantivo, il cui significato è “rifare/rifacimento”. È un termine molto in voga nel mondo dello spettacolo: un film, un’opera teatrale oppure una canzone sono spesso ripresi, a distanza di anni, e riproposti, grazie alle tecnologie innovative, “in chiave moderna”: costituiscono appunto, con voce anglofona, dei remake.
Le ragioni di tale operazione di rifacimento possono essere varie: il gradimento che ci si aspetta dal pubblico, la validità della storia narrata e del messaggio che veicola, la melodia accattivante (quando si tratta di canzoni) che affascina anche generazioni più giovani. Più di ogni altra cosa, la considerazione che quando un prodotto è buono conviene non cambiarlo, perché si è certi della sua riuscita.
Se i remake in campo cinematografico o musicale sono “dichiarati” ed il pubblico consapevolmente li sceglie e ne decreta il successo e la popolarità, a quanti altri remake assistiamo, senza rendercene conto, che pretendono di far passare per nuovi, in ambiti diversi, prodotti già negativamente collaudati? ☺
dario.carlone@tiscali.it
La società globalizzata ci ha abituati a leggere sull’etichetta di qualsiasi prodotto che acquistiamo espressioni del tipo Made in Italy [pronuncia: meid in itali] oppure Made in China [pronuncia: meid in ciàina]; non ci sorprendono affatto, anzi ci comunicano direttamente, senza che ci sia il bisogno di ricorrere alla traduzione, la provenienza di quel prodotto.
Made, participio passato del verbo make [pronuncia: meic], che compare nei suddetti enunciati, significa “fabbricato, confezionato”. È infatti make un verbo dalle molteplici accezioni, tutte inerenti l’area semantica di “fare”, con una varietà di significati che non si potrebbe esaurire in poche righe. Scelgo perciò due voci su cui vorrei invitarvi a riflettere.
Quando intendono avere cura dell’aspetto del proprio volto, le signore di qualsiasi età ricorrono ovviamente al make-up [pronuncia: meic-ap]. Questo sostantivo sta ad indicare quei prodotti che si applicano sul viso, occhi e labbra, per rendere più attraente la propria immagine. Si potrebbero esprimere opinioni diverse a proposito del make-up: per alcuni rappresenterebbe una forzatura, il tentativo cioè di mascherare imperfezioni o solamente il desiderio di essere alla moda, per altri il convincimento di esprimere davvero se stessi attraverso quell’immagine e solo ricorrendo a quegli accorgimenti. Nella lingua italiana, quando traduciamo make-up con “trucco” ci riferiamo, magari inconsapevolmente, ad un espediente per nascondere o mascherare la realtà. Un po’ dissimile il vocabolo inglese: “formare, costituire, organizzare” è il senso profondo del termine make-up; oltre ad indicare i cosmetici e di conseguenza la cura del proprio volto, il termine può riferirsi in ambito sociologico ai gruppi di persone per indicarne l’estrazione sociale, il livello di istruzione, ecc.; da un punto vista psicologico riguarda gli atteggiamenti e le qualità del carattere di una persona; lo si può utilizzare infine in campo editoriale per indicare la bozza di un giornale con la sequenza e l’impaginazione degli articoli.
Make-up, aspetto più che trucco: ciò che si vuole mostrare piuttosto che ciò che si vuole nascondere!
Un’altra parola che abbiamo preso in prestito dagli inglesi e che preferiamo utilizzare ritenendola più aderente a quello che vogliamo esprimere è remake [pronuncia: rimeic], sia verbo che sostantivo, il cui significato è “rifare/rifacimento”. È un termine molto in voga nel mondo dello spettacolo: un film, un’opera teatrale oppure una canzone sono spesso ripresi, a distanza di anni, e riproposti, grazie alle tecnologie innovative, “in chiave moderna”: costituiscono appunto, con voce anglofona, dei remake.
Le ragioni di tale operazione di rifacimento possono essere varie: il gradimento che ci si aspetta dal pubblico, la validità della storia narrata e del messaggio che veicola, la melodia accattivante (quando si tratta di canzoni) che affascina anche generazioni più giovani. Più di ogni altra cosa, la considerazione che quando un prodotto è buono conviene non cambiarlo, perché si è certi della sua riuscita.
Se i remake in campo cinematografico o musicale sono “dichiarati” ed il pubblico consapevolmente li sceglie e ne decreta il successo e la popolarità, a quanti altri remake assistiamo, senza rendercene conto, che pretendono di far passare per nuovi, in ambiti diversi, prodotti già negativamente collaudati? ☺
La società globalizzata ci ha abituati a leggere sull’etichetta di qualsiasi prodotto che acquistiamo espressioni del tipo Made in Italy [pronuncia: meid in itali] oppure Made in China [pronuncia: meid in ciàina]; non ci sorprendono affatto, anzi ci comunicano direttamente, senza che ci sia il bisogno di ricorrere alla traduzione, la provenienza di quel prodotto.
Made, participio passato del verbo make [pronuncia: meic], che compare nei suddetti enunciati, significa “fabbricato, confezionato”. È infatti make un verbo dalle molteplici accezioni, tutte inerenti l’area semantica di “fare”, con una varietà di significati che non si potrebbe esaurire in poche righe. Scelgo perciò due voci su cui vorrei invitarvi a riflettere.
Quando intendono avere cura dell’aspetto del proprio volto, le signore di qualsiasi età ricorrono ovviamente al make-up [pronuncia: meic-ap]. Questo sostantivo sta ad indicare quei prodotti che si applicano sul viso, occhi e labbra, per rendere più attraente la propria immagine. Si potrebbero esprimere opinioni diverse a proposito del make-up: per alcuni rappresenterebbe una forzatura, il tentativo cioè di mascherare imperfezioni o solamente il desiderio di essere alla moda, per altri il convincimento di esprimere davvero se stessi attraverso quell’immagine e solo ricorrendo a quegli accorgimenti. Nella lingua italiana, quando traduciamo make-up con “trucco” ci riferiamo, magari inconsapevolmente, ad un espediente per nascondere o mascherare la realtà. Un po’ dissimile il vocabolo inglese: “formare, costituire, organizzare” è il senso profondo del termine make-up; oltre ad indicare i cosmetici e di conseguenza la cura del proprio volto, il termine può riferirsi in ambito sociologico ai gruppi di persone per indicarne l’estrazione sociale, il livello di istruzione, ecc.; da un punto vista psicologico riguarda gli atteggiamenti e le qualità del carattere di una persona; lo si può utilizzare infine in campo editoriale per indicare la bozza di un giornale con la sequenza e l’impaginazione degli articoli.
Make-up, aspetto più che trucco: ciò che si vuole mostrare piuttosto che ciò che si vuole nascondere!
Un’altra parola che abbiamo preso in prestito dagli inglesi e che preferiamo utilizzare ritenendola più aderente a quello che vogliamo esprimere è remake [pronuncia: rimeic], sia verbo che sostantivo, il cui significato è “rifare/rifacimento”. È un termine molto in voga nel mondo dello spettacolo: un film, un’opera teatrale oppure una canzone sono spesso ripresi, a distanza di anni, e riproposti, grazie alle tecnologie innovative, “in chiave moderna”: costituiscono appunto, con voce anglofona, dei remake.
Le ragioni di tale operazione di rifacimento possono essere varie: il gradimento che ci si aspetta dal pubblico, la validità della storia narrata e del messaggio che veicola, la melodia accattivante (quando si tratta di canzoni) che affascina anche generazioni più giovani. Più di ogni altra cosa, la considerazione che quando un prodotto è buono conviene non cambiarlo, perché si è certi della sua riuscita.
Se i remake in campo cinematografico o musicale sono “dichiarati” ed il pubblico consapevolmente li sceglie e ne decreta il successo e la popolarità, a quanti altri remake assistiamo, senza rendercene conto, che pretendono di far passare per nuovi, in ambiti diversi, prodotti già negativamente collaudati? ☺
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