La violenza sulle donne, così come definita nella Dichiarazione per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne emanata dalle Nazioni Unite nel 1993, è “qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata”. È una violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile. Violenza di genere, che si coniuga in: violenza fisica (maltrattamenti), sessuale (molestie, stupri, sfruttamento), economica (negazione dell’accesso alle risorse economiche della famiglia, anche se prodotte dalla donna), psicologica (violazione del sé).
Il fenomeno ed il concetto di violenza verso le donne è ricorrente nella storia e, nel corso del tempo, è stato considerato in modo differente, a seconda delle interconnessioni al contesto culturale, sociale e istituzionale di riferimento. Il tipo di norme approvate contro la violenza alle donne e il loro modo di essere interpretate riflettono proprio questi processi sociali e culturali che fanno da sfondo al fenomeno. Per esempio, in Italia è solo con l’approvazione del nuovo diritto di famiglia nel 1975, e a partire dalle pressioni esercitate dal movimento delle donne, che viene abolita l’autorità maritale cioè la liceità, da parte del coniuge di far uso di “mezzi di correzione” e disciplina nei confronti della propria moglie; e ancora, è solo nel 1981 che scompare dal nostro codice il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, il primo che permetteva ai mariti di godere di sensibili sconti di pena nel caso in cui avessero ucciso la propria moglie per infedeltà, il secondo che consentiva, a chi avesse commesso uno stupro, di vedere estinto il proprio reato qualora avesse contratto matrimonio con la propria vittima. Nel 1996, con l’approvazione della nuova legge sulla violenza sessuale Legge n. 66/1996, si è operato un fondamentale cambiamento di prospettiva nella cultura giuridica dominante, attraverso una modifica sostanziale sul piano giuridico, cioè il cambiamento di rubricazione della violenza sessuale da “reato contro la morale e il buon costume” a “reato contro la persona e contro la libertà individuale”. Nel 1997 viene emessa una Direttiva del Presidente del Consiglio che ha impegnato il Governo e le istituzioni italiane a prevenire e contrastare tutte le forme di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne, dai maltrattamenti familiari al traffico di donne e minori a scopo di sfruttamento sessuale. Infine, nel 2001 viene promilgata la Legge 154 sull'allontanamento del familiare violento per via civile o penale, che prevede misure di protezione sociale per le donne che subiscono violenza e trafficate, per queste ultime con o senza collaborazione giudiziaria.
Negli anni Sessanta vengono intrapresi i primi studi sul tema della violenza da psichiatri e psicologi, in particolare statunitensi e inglesi, che concentrano la loro attenzione sui gruppi clinici di uomini violenti (aggressori e violentatori). Il comportamento aggressivo maschile viene fatto risalire o alle caratteristiche psicologiche individuali devianti dalla norma, oppure alle loro mogli, cioè l’aggressione viene considerata come una reazione a un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato”, perché poco docile e passiva o poco dipendente e disponibile. In questo modo il fenomeno della violenza viene collocato nella categoria della patologia, mentre si afferma una colpevolizzazione della donna per la violenza subita e a lei viene attribuita la responsabilità del maltrattamento: “Se l’è cercata”.
Negli anni Sessanta e Settanta il movimento femminista, divenuto attore socialmente rilevante in tutto il mondo, sollecita una nuova definizione della violenza contro le donne, puntando al riconoscimento della sua connotazione “sessuata” e legando il problema al modo in cui si strutturano le relazioni tra gli uomini e le donne nella società. Ciò ha portato ad un radicale ed incisivo cambiamento nella definizione del fenomeno, a partire da una rilettura del sistema dei diritti umani da un punto di vista di genere, e allo sviluppo di una “terminologia di genere” in grado di dare un significato nuovo al problema della violenza alle donne. ☺
La violenza sulle donne, così come definita nella Dichiarazione per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne emanata dalle Nazioni Unite nel 1993, è “qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata”. È una violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile. Violenza di genere, che si coniuga in: violenza fisica (maltrattamenti), sessuale (molestie, stupri, sfruttamento), economica (negazione dell’accesso alle risorse economiche della famiglia, anche se prodotte dalla donna), psicologica (violazione del sé).
Il fenomeno ed il concetto di violenza verso le donne è ricorrente nella storia e, nel corso del tempo, è stato considerato in modo differente, a seconda delle interconnessioni al contesto culturale, sociale e istituzionale di riferimento. Il tipo di norme approvate contro la violenza alle donne e il loro modo di essere interpretate riflettono proprio questi processi sociali e culturali che fanno da sfondo al fenomeno. Per esempio, in Italia è solo con l’approvazione del nuovo diritto di famiglia nel 1975, e a partire dalle pressioni esercitate dal movimento delle donne, che viene abolita l’autorità maritale cioè la liceità, da parte del coniuge di far uso di “mezzi di correzione” e disciplina nei confronti della propria moglie; e ancora, è solo nel 1981 che scompare dal nostro codice il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, il primo che permetteva ai mariti di godere di sensibili sconti di pena nel caso in cui avessero ucciso la propria moglie per infedeltà, il secondo che consentiva, a chi avesse commesso uno stupro, di vedere estinto il proprio reato qualora avesse contratto matrimonio con la propria vittima. Nel 1996, con l’approvazione della nuova legge sulla violenza sessuale Legge n. 66/1996, si è operato un fondamentale cambiamento di prospettiva nella cultura giuridica dominante, attraverso una modifica sostanziale sul piano giuridico, cioè il cambiamento di rubricazione della violenza sessuale da “reato contro la morale e il buon costume” a “reato contro la persona e contro la libertà individuale”. Nel 1997 viene emessa una Direttiva del Presidente del Consiglio che ha impegnato il Governo e le istituzioni italiane a prevenire e contrastare tutte le forme di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne, dai maltrattamenti familiari al traffico di donne e minori a scopo di sfruttamento sessuale. Infine, nel 2001 viene promilgata la Legge 154 sull'allontanamento del familiare violento per via civile o penale, che prevede misure di protezione sociale per le donne che subiscono violenza e trafficate, per queste ultime con o senza collaborazione giudiziaria.
Negli anni Sessanta vengono intrapresi i primi studi sul tema della violenza da psichiatri e psicologi, in particolare statunitensi e inglesi, che concentrano la loro attenzione sui gruppi clinici di uomini violenti (aggressori e violentatori). Il comportamento aggressivo maschile viene fatto risalire o alle caratteristiche psicologiche individuali devianti dalla norma, oppure alle loro mogli, cioè l’aggressione viene considerata come una reazione a un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato”, perché poco docile e passiva o poco dipendente e disponibile. In questo modo il fenomeno della violenza viene collocato nella categoria della patologia, mentre si afferma una colpevolizzazione della donna per la violenza subita e a lei viene attribuita la responsabilità del maltrattamento: “Se l’è cercata”.
Negli anni Sessanta e Settanta il movimento femminista, divenuto attore socialmente rilevante in tutto il mondo, sollecita una nuova definizione della violenza contro le donne, puntando al riconoscimento della sua connotazione “sessuata” e legando il problema al modo in cui si strutturano le relazioni tra gli uomini e le donne nella società. Ciò ha portato ad un radicale ed incisivo cambiamento nella definizione del fenomeno, a partire da una rilettura del sistema dei diritti umani da un punto di vista di genere, e allo sviluppo di una “terminologia di genere” in grado di dare un significato nuovo al problema della violenza alle donne. ☺
La violenza sulle donne, così come definita nella Dichiarazione per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne emanata dalle Nazioni Unite nel 1993, è “qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata”. È una violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile sul femminile. Violenza di genere, che si coniuga in: violenza fisica (maltrattamenti), sessuale (molestie, stupri, sfruttamento), economica (negazione dell’accesso alle risorse economiche della famiglia, anche se prodotte dalla donna), psicologica (violazione del sé).
Il fenomeno ed il concetto di violenza verso le donne è ricorrente nella storia e, nel corso del tempo, è stato considerato in modo differente, a seconda delle interconnessioni al contesto culturale, sociale e istituzionale di riferimento. Il tipo di norme approvate contro la violenza alle donne e il loro modo di essere interpretate riflettono proprio questi processi sociali e culturali che fanno da sfondo al fenomeno. Per esempio, in Italia è solo con l’approvazione del nuovo diritto di famiglia nel 1975, e a partire dalle pressioni esercitate dal movimento delle donne, che viene abolita l’autorità maritale cioè la liceità, da parte del coniuge di far uso di “mezzi di correzione” e disciplina nei confronti della propria moglie; e ancora, è solo nel 1981 che scompare dal nostro codice il “delitto d’onore” e il “matrimonio riparatore”, il primo che permetteva ai mariti di godere di sensibili sconti di pena nel caso in cui avessero ucciso la propria moglie per infedeltà, il secondo che consentiva, a chi avesse commesso uno stupro, di vedere estinto il proprio reato qualora avesse contratto matrimonio con la propria vittima. Nel 1996, con l’approvazione della nuova legge sulla violenza sessuale Legge n. 66/1996, si è operato un fondamentale cambiamento di prospettiva nella cultura giuridica dominante, attraverso una modifica sostanziale sul piano giuridico, cioè il cambiamento di rubricazione della violenza sessuale da “reato contro la morale e il buon costume” a “reato contro la persona e contro la libertà individuale”. Nel 1997 viene emessa una Direttiva del Presidente del Consiglio che ha impegnato il Governo e le istituzioni italiane a prevenire e contrastare tutte le forme di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne, dai maltrattamenti familiari al traffico di donne e minori a scopo di sfruttamento sessuale. Infine, nel 2001 viene promilgata la Legge 154 sull'allontanamento del familiare violento per via civile o penale, che prevede misure di protezione sociale per le donne che subiscono violenza e trafficate, per queste ultime con o senza collaborazione giudiziaria.
Negli anni Sessanta vengono intrapresi i primi studi sul tema della violenza da psichiatri e psicologi, in particolare statunitensi e inglesi, che concentrano la loro attenzione sui gruppi clinici di uomini violenti (aggressori e violentatori). Il comportamento aggressivo maschile viene fatto risalire o alle caratteristiche psicologiche individuali devianti dalla norma, oppure alle loro mogli, cioè l’aggressione viene considerata come una reazione a un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato”, perché poco docile e passiva o poco dipendente e disponibile. In questo modo il fenomeno della violenza viene collocato nella categoria della patologia, mentre si afferma una colpevolizzazione della donna per la violenza subita e a lei viene attribuita la responsabilità del maltrattamento: “Se l’è cercata”.
Negli anni Sessanta e Settanta il movimento femminista, divenuto attore socialmente rilevante in tutto il mondo, sollecita una nuova definizione della violenza contro le donne, puntando al riconoscimento della sua connotazione “sessuata” e legando il problema al modo in cui si strutturano le relazioni tra gli uomini e le donne nella società. Ciò ha portato ad un radicale ed incisivo cambiamento nella definizione del fenomeno, a partire da una rilettura del sistema dei diritti umani da un punto di vista di genere, e allo sviluppo di una “terminologia di genere” in grado di dare un significato nuovo al problema della violenza alle donne. ☺
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