Ogni volta che il corpo sociale si ammala e con esso valori giudicati fino a ieri non negoziabili, è forte la tentazione di rifugiarsi nello spazio atemporale del sogno. Il tempo cupo della Storia si dissolve per far posto alla luminosità e alla trasparenza di luoghi che si aprono verso l’infinito, spettacolari e surreali. Il passato si deforma e in esso riconosciamo ciò che manca all’oggi; ritenendolo migliore del tempo che viviamo, il tempo che fu diventa la proiezione dei nostri desideri. Assomigliamo a quegli anziani che rimpiangono la giovinezza, dimenticandone le fatiche e le privazioni.
La gabbia dorata del passato rassicura, consente la fuga in un’età che non è più, ma che viene ricordata come la migliore possibile.
Quest’abitudine al rimpianto ed alla nostalgia ha origini antiche e nasce in ambito letterario come risposta ad un disagio esistenziale profondamente avvertito. A noi europei giunge attraverso la cultura greca e la tradizione mitologica che l’accompagna con l’immagine di età dell’oro: un’epoca di felicità totale che risparmiava agli esseri viventi qualsiasi affanno e dolore e garantiva loro una perfetta armonia con il mondo naturale. Un paradiso perduto! Un giardino di pace, di serenità, di piacere.
A questa mitica età si sostituì la Storia e con essa la consapevolezza che le azioni umane hanno un peso rilevante: causa e conseguenza strettamente collegate, rischio e pericolo continuamente in agguato, paura e sofferenza sostituite all’allegria e alla licenza. Si fece strada l’idea di responsabilità, di servizio, di mutuo soccorso, si avvertì che la propria felicità è orrore quando qualcun altro ne paga il prezzo.
Anche la nostra quotidianità ci pone dinanzi paradiso e inferno, vita e morte, il disorientamento di un’epoca che scivola inesorabilmente verso l’edonismo e l’oblio. La stanchezza per i soprusi di un sistema basato sulla sopraffazione affiora però nei discorsi quotidiani della gente, stanca di una società opulenta che vorrebbe vedere perpetuata l’età dell’oro solo per pochi.
Schiacciati dalla logica aziendale dei nostri anni spietati assistiamo indifesi al fatto che potere politico, economico e culturale concentrino ogni decisione in poche mani, condizionando l’informazione, la politica, la vita del singolo. Spaventa l’estraneità della politica alla vita dei cittadini e sebbene tutto sembri svolgersi alla luce del sole, si fa strada la certezza di un potere che trama nella clandestinità. Ciò che sembra pioverci addosso dall’alto non è più l’atmosfera idillica e incontaminata del mito, ma la nube tossica del progresso ad ogni costo.
Anche per il Molise è ormai al tramonto il mito dell’isola felice, laddove si idealizzava una campagna e il suo piccolo proprietario, sempre soddisfatto di ciò che la terra gli offriva e interiormente sereno. Oggi come non mai il nostro territorio, dissestato e colpito duramente da calamità geologiche, conserva ben poco di idillico e di bucolico; forse è scomparso il mulo, ma non del tutto il fangoso tracciato viario delle strade interpoderali; per non parlare della viabilità dissestata della maggioranza delle strade statali, dei servizi pubblici negati o ridotti, dello scempio del paesaggio perpetrato ad opera del proliferare di impianti eolici, della presenza di insediamenti industriali nocivi alla salute pubblica, dello sperpero insensato di un bene prezioso come l’acqua.
E se ci riappropriassimo di quel paradiso perduto? Per costruire una civiltà laboriosa e pacifica in cui ognuno si curi del benessere proprio come del progresso della sua comunità, dove la politica diventi servizio e non commiserazione per la faticosa dignità degli esclusi, dove venga messa da parte la frenesia mondana degli egocentrici e dei narcisisti che esalta unicamente il desiderio di apparire.
Soltanto un secolo fa, in uno scenario che poneva le premesse di due guerre mondiali, passeggeri privilegiati di un transatlantico esibito come meraviglioso prodotto della tecnica moderna si abbandonavano a una festa che immaginavano senza fine. Vogliamo assomigliare alla folla gaudente del Titanic o fronteggiare con responsabilità un presente per molti versi inquietante?
Il passato vagheggiato deve divenire storia, memoria su cui fondarsi, non rimpianto o nostalgia. ☺
annama.mastropietro@tiscali.it
Ogni volta che il corpo sociale si ammala e con esso valori giudicati fino a ieri non negoziabili, è forte la tentazione di rifugiarsi nello spazio atemporale del sogno. Il tempo cupo della Storia si dissolve per far posto alla luminosità e alla trasparenza di luoghi che si aprono verso l’infinito, spettacolari e surreali. Il passato si deforma e in esso riconosciamo ciò che manca all’oggi; ritenendolo migliore del tempo che viviamo, il tempo che fu diventa la proiezione dei nostri desideri. Assomigliamo a quegli anziani che rimpiangono la giovinezza, dimenticandone le fatiche e le privazioni.
La gabbia dorata del passato rassicura, consente la fuga in un’età che non è più, ma che viene ricordata come la migliore possibile.
Quest’abitudine al rimpianto ed alla nostalgia ha origini antiche e nasce in ambito letterario come risposta ad un disagio esistenziale profondamente avvertito. A noi europei giunge attraverso la cultura greca e la tradizione mitologica che l’accompagna con l’immagine di età dell’oro: un’epoca di felicità totale che risparmiava agli esseri viventi qualsiasi affanno e dolore e garantiva loro una perfetta armonia con il mondo naturale. Un paradiso perduto! Un giardino di pace, di serenità, di piacere.
A questa mitica età si sostituì la Storia e con essa la consapevolezza che le azioni umane hanno un peso rilevante: causa e conseguenza strettamente collegate, rischio e pericolo continuamente in agguato, paura e sofferenza sostituite all’allegria e alla licenza. Si fece strada l’idea di responsabilità, di servizio, di mutuo soccorso, si avvertì che la propria felicità è orrore quando qualcun altro ne paga il prezzo.
Anche la nostra quotidianità ci pone dinanzi paradiso e inferno, vita e morte, il disorientamento di un’epoca che scivola inesorabilmente verso l’edonismo e l’oblio. La stanchezza per i soprusi di un sistema basato sulla sopraffazione affiora però nei discorsi quotidiani della gente, stanca di una società opulenta che vorrebbe vedere perpetuata l’età dell’oro solo per pochi.
Schiacciati dalla logica aziendale dei nostri anni spietati assistiamo indifesi al fatto che potere politico, economico e culturale concentrino ogni decisione in poche mani, condizionando l’informazione, la politica, la vita del singolo. Spaventa l’estraneità della politica alla vita dei cittadini e sebbene tutto sembri svolgersi alla luce del sole, si fa strada la certezza di un potere che trama nella clandestinità. Ciò che sembra pioverci addosso dall’alto non è più l’atmosfera idillica e incontaminata del mito, ma la nube tossica del progresso ad ogni costo.
Anche per il Molise è ormai al tramonto il mito dell’isola felice, laddove si idealizzava una campagna e il suo piccolo proprietario, sempre soddisfatto di ciò che la terra gli offriva e interiormente sereno. Oggi come non mai il nostro territorio, dissestato e colpito duramente da calamità geologiche, conserva ben poco di idillico e di bucolico; forse è scomparso il mulo, ma non del tutto il fangoso tracciato viario delle strade interpoderali; per non parlare della viabilità dissestata della maggioranza delle strade statali, dei servizi pubblici negati o ridotti, dello scempio del paesaggio perpetrato ad opera del proliferare di impianti eolici, della presenza di insediamenti industriali nocivi alla salute pubblica, dello sperpero insensato di un bene prezioso come l’acqua.
E se ci riappropriassimo di quel paradiso perduto? Per costruire una civiltà laboriosa e pacifica in cui ognuno si curi del benessere proprio come del progresso della sua comunità, dove la politica diventi servizio e non commiserazione per la faticosa dignità degli esclusi, dove venga messa da parte la frenesia mondana degli egocentrici e dei narcisisti che esalta unicamente il desiderio di apparire.
Soltanto un secolo fa, in uno scenario che poneva le premesse di due guerre mondiali, passeggeri privilegiati di un transatlantico esibito come meraviglioso prodotto della tecnica moderna si abbandonavano a una festa che immaginavano senza fine. Vogliamo assomigliare alla folla gaudente del Titanic o fronteggiare con responsabilità un presente per molti versi inquietante?
Il passato vagheggiato deve divenire storia, memoria su cui fondarsi, non rimpianto o nostalgia. ☺
Ogni volta che il corpo sociale si ammala e con esso valori giudicati fino a ieri non negoziabili, è forte la tentazione di rifugiarsi nello spazio atemporale del sogno. Il tempo cupo della Storia si dissolve per far posto alla luminosità e alla trasparenza di luoghi che si aprono verso l’infinito, spettacolari e surreali. Il passato si deforma e in esso riconosciamo ciò che manca all’oggi; ritenendolo migliore del tempo che viviamo, il tempo che fu diventa la proiezione dei nostri desideri. Assomigliamo a quegli anziani che rimpiangono la giovinezza, dimenticandone le fatiche e le privazioni.
La gabbia dorata del passato rassicura, consente la fuga in un’età che non è più, ma che viene ricordata come la migliore possibile.
Quest’abitudine al rimpianto ed alla nostalgia ha origini antiche e nasce in ambito letterario come risposta ad un disagio esistenziale profondamente avvertito. A noi europei giunge attraverso la cultura greca e la tradizione mitologica che l’accompagna con l’immagine di età dell’oro: un’epoca di felicità totale che risparmiava agli esseri viventi qualsiasi affanno e dolore e garantiva loro una perfetta armonia con il mondo naturale. Un paradiso perduto! Un giardino di pace, di serenità, di piacere.
A questa mitica età si sostituì la Storia e con essa la consapevolezza che le azioni umane hanno un peso rilevante: causa e conseguenza strettamente collegate, rischio e pericolo continuamente in agguato, paura e sofferenza sostituite all’allegria e alla licenza. Si fece strada l’idea di responsabilità, di servizio, di mutuo soccorso, si avvertì che la propria felicità è orrore quando qualcun altro ne paga il prezzo.
Anche la nostra quotidianità ci pone dinanzi paradiso e inferno, vita e morte, il disorientamento di un’epoca che scivola inesorabilmente verso l’edonismo e l’oblio. La stanchezza per i soprusi di un sistema basato sulla sopraffazione affiora però nei discorsi quotidiani della gente, stanca di una società opulenta che vorrebbe vedere perpetuata l’età dell’oro solo per pochi.
Schiacciati dalla logica aziendale dei nostri anni spietati assistiamo indifesi al fatto che potere politico, economico e culturale concentrino ogni decisione in poche mani, condizionando l’informazione, la politica, la vita del singolo. Spaventa l’estraneità della politica alla vita dei cittadini e sebbene tutto sembri svolgersi alla luce del sole, si fa strada la certezza di un potere che trama nella clandestinità. Ciò che sembra pioverci addosso dall’alto non è più l’atmosfera idillica e incontaminata del mito, ma la nube tossica del progresso ad ogni costo.
Anche per il Molise è ormai al tramonto il mito dell’isola felice, laddove si idealizzava una campagna e il suo piccolo proprietario, sempre soddisfatto di ciò che la terra gli offriva e interiormente sereno. Oggi come non mai il nostro territorio, dissestato e colpito duramente da calamità geologiche, conserva ben poco di idillico e di bucolico; forse è scomparso il mulo, ma non del tutto il fangoso tracciato viario delle strade interpoderali; per non parlare della viabilità dissestata della maggioranza delle strade statali, dei servizi pubblici negati o ridotti, dello scempio del paesaggio perpetrato ad opera del proliferare di impianti eolici, della presenza di insediamenti industriali nocivi alla salute pubblica, dello sperpero insensato di un bene prezioso come l’acqua.
E se ci riappropriassimo di quel paradiso perduto? Per costruire una civiltà laboriosa e pacifica in cui ognuno si curi del benessere proprio come del progresso della sua comunità, dove la politica diventi servizio e non commiserazione per la faticosa dignità degli esclusi, dove venga messa da parte la frenesia mondana degli egocentrici e dei narcisisti che esalta unicamente il desiderio di apparire.
Soltanto un secolo fa, in uno scenario che poneva le premesse di due guerre mondiali, passeggeri privilegiati di un transatlantico esibito come meraviglioso prodotto della tecnica moderna si abbandonavano a una festa che immaginavano senza fine. Vogliamo assomigliare alla folla gaudente del Titanic o fronteggiare con responsabilità un presente per molti versi inquietante?
Il passato vagheggiato deve divenire storia, memoria su cui fondarsi, non rimpianto o nostalgia. ☺
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