“La disperazione è follia. La follia, la percezione dell’impossibilità di vivere: esserci, ma come non esserci”.
La disperazione è una follia possibile all’uomo, a tutti gli uomini; è anzi una prospettiva dell’uomo, si lega al suo bisogno di stare con l’altro, al fatto che da solo non si può vivere, perché la vita umana non è solitudine ma condivisione, appartenenza. L’uomo sta bene quando è e si sente accettato dall’ambiente in cui vive e in cui può esprimere se stesso, senza condizioni.
Nel momento in cui questo non accade, quando tutto quello che uno fa per essere accettato, per dare il proprio contributo alla società, va incontro a una serie di frustrazioni, ne deriva un processo di dolore, di forte sofferenza. Tutto ciò che potremmo dire per distinguere normalità e follia, esistenze integrate ed esistenze al limite della capacità di esistere, va sempre inteso alla luce di questo sforzo di “adattamento” (che non è l’adeguamento passivo e conformista, ma la partecipazione attiva che permette all’individuo di sentirsi parte dell’ambiente in cui vive). Per comprendere la follia bisogna comprendere la storia del folle, ma anche che cosa avviene nell’ambito in cui vive quel folle.
In questa nostra società l’adatta- mento si è fatto un problema estremamente complicato perché essa ci impone una quantità enorme di comportamenti a seconda dei ruoli e delle situazioni, tanto da ricordare le maschere pirandelliane. Ciascuno di noi è “molti” e “nessuno”.
Il dolore, che si pone alla base della follia, è legato fondamentalmente alla constatazione che i ripetuti tentativi di adeguamento non hanno funzionato. Non è il dolore fisico; è la sensazione di non essere in grado di vivere in questo mondo. È la consapevolezza dell’impossibilità di un tale rapporto a generare dolore. È la sensazione di una vita inutile, di una “non vita”; perché la finalità di ciascuno è quella di vivere, ma al desiderio si contrappone la percezione del non riuscire. È questo un dolore insostenibile a cui va data una risposta. E la riposta è, prima di tutto, in un’interpretazione. Si reinterpreta il mondo. Visto che nel rapporto io – mondo sperimento il dolore, ed è un dolore continuo, incomincio a configurare il mondo in modo diverso: ed ecco “l’alterato rapporto con la realtà”.
Cos’è allora la follia? L’incom- prensibilità del mondo, il tirarsene fuori. Stare ancora sul pianeta senza saperlo. Vicino agli altri senza aver bisogno dell’altro. Perdendo persino il ricordo delle parole e del loro significato, rinunciando a comunicare.
La schizofrenia ne è un esempio straordinario: quando l’Io non si sente mai accettato, non si sente parte, e di conseguenza prova dolore, incomincia a percepire gli altri in modo diverso. È come se volesse cambiare il mondo per potervisi adattare: ecco allora il delirio (di persecuzione, di grandezza etc.), le allucinazioni come meccanismo di difesa verso un mondo percepito come minaccioso e persecutorio. Il delirio va dunque considerato un’inter- pretazione coerente e continua che fa vivere; nel delirio il malato si difende, vive una vita al limite delle possibilità di vivere, ma vive. “In tal modo mi costruisco un mondo che non è reale, ma possibile, per sentirmi ancora in vita, per esserci”.
Quando il delirio si spegne lascia spazio a un’estraneità, una disaffettività, una forma di cronicità caratterizzata da uno status di incapacità a comunicare, di chiusura totale, di insensibilità agli stimoli affettivi.
Insomma, la follia ha già a che fare con la morte, anche se non nella sua rappresentazione corporea, bensì in quella psicologica, la personalità, e in quella sociale, le relazioni. Vi sono tre morti: quella del corpo, la più emblematica e assoluta, quella psicologica, che permette al corpo di essere ancora attivo e di rivestirsi persino di eleganza, e poi la morte sociale; privati di ogni dimensione, come se fossimo diventati trasparenti e, pur dentro una moltitudine, nessuno ci vedesse.
Il folle è un morto che cammina e che respira, vive senza vivere, vive da morto e, se uccide, uccide già morto. ☺
morenavaccaro2@virgilio.it
“La disperazione è follia. La follia, la percezione dell’impossibilità di vivere: esserci, ma come non esserci”.
La disperazione è una follia possibile all’uomo, a tutti gli uomini; è anzi una prospettiva dell’uomo, si lega al suo bisogno di stare con l’altro, al fatto che da solo non si può vivere, perché la vita umana non è solitudine ma condivisione, appartenenza. L’uomo sta bene quando è e si sente accettato dall’ambiente in cui vive e in cui può esprimere se stesso, senza condizioni.
Nel momento in cui questo non accade, quando tutto quello che uno fa per essere accettato, per dare il proprio contributo alla società, va incontro a una serie di frustrazioni, ne deriva un processo di dolore, di forte sofferenza. Tutto ciò che potremmo dire per distinguere normalità e follia, esistenze integrate ed esistenze al limite della capacità di esistere, va sempre inteso alla luce di questo sforzo di “adattamento” (che non è l’adeguamento passivo e conformista, ma la partecipazione attiva che permette all’individuo di sentirsi parte dell’ambiente in cui vive). Per comprendere la follia bisogna comprendere la storia del folle, ma anche che cosa avviene nell’ambito in cui vive quel folle.
In questa nostra società l’adatta- mento si è fatto un problema estremamente complicato perché essa ci impone una quantità enorme di comportamenti a seconda dei ruoli e delle situazioni, tanto da ricordare le maschere pirandelliane. Ciascuno di noi è “molti” e “nessuno”.
Il dolore, che si pone alla base della follia, è legato fondamentalmente alla constatazione che i ripetuti tentativi di adeguamento non hanno funzionato. Non è il dolore fisico; è la sensazione di non essere in grado di vivere in questo mondo. È la consapevolezza dell’impossibilità di un tale rapporto a generare dolore. È la sensazione di una vita inutile, di una “non vita”; perché la finalità di ciascuno è quella di vivere, ma al desiderio si contrappone la percezione del non riuscire. È questo un dolore insostenibile a cui va data una risposta. E la riposta è, prima di tutto, in un’interpretazione. Si reinterpreta il mondo. Visto che nel rapporto io – mondo sperimento il dolore, ed è un dolore continuo, incomincio a configurare il mondo in modo diverso: ed ecco “l’alterato rapporto con la realtà”.
Cos’è allora la follia? L’incom- prensibilità del mondo, il tirarsene fuori. Stare ancora sul pianeta senza saperlo. Vicino agli altri senza aver bisogno dell’altro. Perdendo persino il ricordo delle parole e del loro significato, rinunciando a comunicare.
La schizofrenia ne è un esempio straordinario: quando l’Io non si sente mai accettato, non si sente parte, e di conseguenza prova dolore, incomincia a percepire gli altri in modo diverso. È come se volesse cambiare il mondo per potervisi adattare: ecco allora il delirio (di persecuzione, di grandezza etc.), le allucinazioni come meccanismo di difesa verso un mondo percepito come minaccioso e persecutorio. Il delirio va dunque considerato un’inter- pretazione coerente e continua che fa vivere; nel delirio il malato si difende, vive una vita al limite delle possibilità di vivere, ma vive. “In tal modo mi costruisco un mondo che non è reale, ma possibile, per sentirmi ancora in vita, per esserci”.
Quando il delirio si spegne lascia spazio a un’estraneità, una disaffettività, una forma di cronicità caratterizzata da uno status di incapacità a comunicare, di chiusura totale, di insensibilità agli stimoli affettivi.
Insomma, la follia ha già a che fare con la morte, anche se non nella sua rappresentazione corporea, bensì in quella psicologica, la personalità, e in quella sociale, le relazioni. Vi sono tre morti: quella del corpo, la più emblematica e assoluta, quella psicologica, che permette al corpo di essere ancora attivo e di rivestirsi persino di eleganza, e poi la morte sociale; privati di ogni dimensione, come se fossimo diventati trasparenti e, pur dentro una moltitudine, nessuno ci vedesse.
Il folle è un morto che cammina e che respira, vive senza vivere, vive da morto e, se uccide, uccide già morto. ☺
“La disperazione è follia. La follia, la percezione dell’impossibilità di vivere: esserci, ma come non esserci”.
La disperazione è una follia possibile all’uomo, a tutti gli uomini; è anzi una prospettiva dell’uomo, si lega al suo bisogno di stare con l’altro, al fatto che da solo non si può vivere, perché la vita umana non è solitudine ma condivisione, appartenenza. L’uomo sta bene quando è e si sente accettato dall’ambiente in cui vive e in cui può esprimere se stesso, senza condizioni.
Nel momento in cui questo non accade, quando tutto quello che uno fa per essere accettato, per dare il proprio contributo alla società, va incontro a una serie di frustrazioni, ne deriva un processo di dolore, di forte sofferenza. Tutto ciò che potremmo dire per distinguere normalità e follia, esistenze integrate ed esistenze al limite della capacità di esistere, va sempre inteso alla luce di questo sforzo di “adattamento” (che non è l’adeguamento passivo e conformista, ma la partecipazione attiva che permette all’individuo di sentirsi parte dell’ambiente in cui vive). Per comprendere la follia bisogna comprendere la storia del folle, ma anche che cosa avviene nell’ambito in cui vive quel folle.
In questa nostra società l’adatta- mento si è fatto un problema estremamente complicato perché essa ci impone una quantità enorme di comportamenti a seconda dei ruoli e delle situazioni, tanto da ricordare le maschere pirandelliane. Ciascuno di noi è “molti” e “nessuno”.
Il dolore, che si pone alla base della follia, è legato fondamentalmente alla constatazione che i ripetuti tentativi di adeguamento non hanno funzionato. Non è il dolore fisico; è la sensazione di non essere in grado di vivere in questo mondo. È la consapevolezza dell’impossibilità di un tale rapporto a generare dolore. È la sensazione di una vita inutile, di una “non vita”; perché la finalità di ciascuno è quella di vivere, ma al desiderio si contrappone la percezione del non riuscire. È questo un dolore insostenibile a cui va data una risposta. E la riposta è, prima di tutto, in un’interpretazione. Si reinterpreta il mondo. Visto che nel rapporto io – mondo sperimento il dolore, ed è un dolore continuo, incomincio a configurare il mondo in modo diverso: ed ecco “l’alterato rapporto con la realtà”.
Cos’è allora la follia? L’incom- prensibilità del mondo, il tirarsene fuori. Stare ancora sul pianeta senza saperlo. Vicino agli altri senza aver bisogno dell’altro. Perdendo persino il ricordo delle parole e del loro significato, rinunciando a comunicare.
La schizofrenia ne è un esempio straordinario: quando l’Io non si sente mai accettato, non si sente parte, e di conseguenza prova dolore, incomincia a percepire gli altri in modo diverso. È come se volesse cambiare il mondo per potervisi adattare: ecco allora il delirio (di persecuzione, di grandezza etc.), le allucinazioni come meccanismo di difesa verso un mondo percepito come minaccioso e persecutorio. Il delirio va dunque considerato un’inter- pretazione coerente e continua che fa vivere; nel delirio il malato si difende, vive una vita al limite delle possibilità di vivere, ma vive. “In tal modo mi costruisco un mondo che non è reale, ma possibile, per sentirmi ancora in vita, per esserci”.
Quando il delirio si spegne lascia spazio a un’estraneità, una disaffettività, una forma di cronicità caratterizzata da uno status di incapacità a comunicare, di chiusura totale, di insensibilità agli stimoli affettivi.
Insomma, la follia ha già a che fare con la morte, anche se non nella sua rappresentazione corporea, bensì in quella psicologica, la personalità, e in quella sociale, le relazioni. Vi sono tre morti: quella del corpo, la più emblematica e assoluta, quella psicologica, che permette al corpo di essere ancora attivo e di rivestirsi persino di eleganza, e poi la morte sociale; privati di ogni dimensione, come se fossimo diventati trasparenti e, pur dentro una moltitudine, nessuno ci vedesse.
Il folle è un morto che cammina e che respira, vive senza vivere, vive da morto e, se uccide, uccide già morto. ☺
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