Nella bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, viene sottolineato in modo netto che è necessario presentarsi a Dio con una piena consapevolezza di ciò che si è e della condizione in cui ci si trova, anche in rapporto agli altri. Dio vuole che chi entra in relazione con lui abbia piena coscienza della propria identità. Certamente la questione dell’identità solletica molti difensori della cultura cristiana di fronte all’invasione del diverso. Ma quale è la vera identità dei “figli di Abramo” a cui anche noi spiritualmente apparteniamo?
La carta d’identità è ben tracciata nel Deuteronomio, dove sono scritte le parole che l’israelita deve pronunciare davanti a Dio quando porta le primizie del suo lavoro: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore mi hai dato” (Dt 26,5-10). Sembrerebbe una classica storia a lieto fine, per cui il rapporto che si instaura attraverso il culto diventa una forma di ringraziamento per il beneficio ricevuto, dopo tante sofferenze. Ma il testo biblico va più avanti e Dio stesso dice: “Quando avrai finito di prelevare le decime e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, dirai al Signore Dio tuo: Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato… Volgi lo sguardo dalla dimora della tua santità e benedici il tuo popolo Israele e il suolo che ci hai dato come hai giurato ai nostri padri, il paese dove scorre latte e miele” (26,12-13.15).
Alla gratuità provvidente di Dio ora segue una condizione: solo nella misura in cui il popolo riconosce Dio nel volto dell’altro che è nel bisogno potrà ancora usufruire della benedizione della sua terra. L’identità della tradizione occidentale sta quindi nel riconoscersi ospiti e custodi di una terra che è casa anche di chi non ha casa, di chi è straniero o non ha sicurezze. Nel Nuovo Testamento si fa un passo ulteriore: non solo l’offerta di una decima, l’elemosina, ma la riconciliazione accogliente con l’altro: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). In che modo questo testo si riferisce anche allo straniero? Essere fratelli significa riconoscere un’origine comune; ora, l’inizio della predicazione cristiana fuori di Israele nasce con la persecuzione e la fuga e ciò manifesta quanto sia connaturale alla tradizione cristiana il motivo dell’estraneità, tanto che il nome stesso della struttura di base della chiesa, la parrocchia, richiama la condizione dello straniero (paroikos in greco significa straniero). L’accezione di “fratello” riferito allo straniero, quindi, si addice perfettamente al cristiano (“ero straniero e mi avete ospitato”, in Mt 25,35). In che senso il fratello-straniero può avere qualcosa contro di noi che ci identifichiamo come occidente con la tradizione cristiana? Il “ricordare” di cui si parla nel vangelo può essere inteso con il prendere coscienza, aprire gli occhi su quanto accade intorno a noi. Solo così ci possiamo rendere conto che le grandi migrazioni che stanno avvenendo non sono dovute al capriccio di chi si muove, ma alla sconsiderata e colpevole gestione economica mondiale, i cui centri di potere appartengono proprio alla sfera occidentale (il G8 ci dice qualcosa?). Certo, non è la religione al primo posto nei pensieri dei potenti, anche se si fa molta retorica religiosa tra i politici, ma ci deve far riflettere piuttosto l’estrema freddezza e prudenza con cui si affronta il problema dell’immigrazione da parte, ad esempio, della chiesa cattolica.
Solo due fatti: innanzitutto la diversa attenzione riservata alla cosiddetta legge per la sicurezza e al problema, invece, della pillola abortiva: per questa si sta facendo una guerra mediatica, appoggiata anche da pezzi del governo in carica; per l’immigrazione, dopo timide e sporadiche prese di posizione, si interviene con commenti rassicuranti e indulgenti per il governo; certo è legittimo e giusto dare voce a chi non ha voce e la vita nascente rientra sicuramente nella categoria biblica dell’orfano, ma è troppo semplice occuparsi in modo paternalistico solo di chi non ha coscienza, perché non c’è pericolo che possa dire la propria, mentre gli immigrati hanno un’identità spesso diversa (il cardinale Biffi, in passato, suggeriva di preferire i filippini perché cattolici), reclamano una loro autodeterminazione che mal si concilia, forse, con chi vuole un sistema uniforme di valori. L’altro fatto è l’ultima enciclica papale che tratta solo in modo evasivo dell’immigra- zione e delle sue cause che invece, viste le dimensioni enormi del fenomeno, dovrebbe essere un criterio di lettura fondamentale per un’enciclica sociale.
Il vangelo chiede la conversione, letteralmente un voltarsi indietro, non solo dal peccato, ma anche dall’altare (forse le due conversioni, per noi cristiani che identifichiamo la fede coi riti, sono la stessa cosa!), per andare incontro, con un cambiamento radicale delle condizioni economiche, a tanti fratelli che ci rinfacciano il peccato della dimenticanza della nostra origine, cioè quella di essere emigranti perseguitati, come Israele e come i primi cristiani, e della dimenticanza della nostra condizione, non di padroni della terra, ma di fittavoli di Dio, che chiede, come unica forma di pagamento, l’attenzione allo straniero, all’orfano e alla vedova perché, ci ricorda Gesù, “quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). ☺
mike.tartaglia@virgilio.it
Nella bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, viene sottolineato in modo netto che è necessario presentarsi a Dio con una piena consapevolezza di ciò che si è e della condizione in cui ci si trova, anche in rapporto agli altri. Dio vuole che chi entra in relazione con lui abbia piena coscienza della propria identità. Certamente la questione dell’identità solletica molti difensori della cultura cristiana di fronte all’invasione del diverso. Ma quale è la vera identità dei “figli di Abramo” a cui anche noi spiritualmente apparteniamo?
La carta d’identità è ben tracciata nel Deuteronomio, dove sono scritte le parole che l’israelita deve pronunciare davanti a Dio quando porta le primizie del suo lavoro: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore mi hai dato” (Dt 26,5-10). Sembrerebbe una classica storia a lieto fine, per cui il rapporto che si instaura attraverso il culto diventa una forma di ringraziamento per il beneficio ricevuto, dopo tante sofferenze. Ma il testo biblico va più avanti e Dio stesso dice: “Quando avrai finito di prelevare le decime e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, dirai al Signore Dio tuo: Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato… Volgi lo sguardo dalla dimora della tua santità e benedici il tuo popolo Israele e il suolo che ci hai dato come hai giurato ai nostri padri, il paese dove scorre latte e miele” (26,12-13.15).
Alla gratuità provvidente di Dio ora segue una condizione: solo nella misura in cui il popolo riconosce Dio nel volto dell’altro che è nel bisogno potrà ancora usufruire della benedizione della sua terra. L’identità della tradizione occidentale sta quindi nel riconoscersi ospiti e custodi di una terra che è casa anche di chi non ha casa, di chi è straniero o non ha sicurezze. Nel Nuovo Testamento si fa un passo ulteriore: non solo l’offerta di una decima, l’elemosina, ma la riconciliazione accogliente con l’altro: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). In che modo questo testo si riferisce anche allo straniero? Essere fratelli significa riconoscere un’origine comune; ora, l’inizio della predicazione cristiana fuori di Israele nasce con la persecuzione e la fuga e ciò manifesta quanto sia connaturale alla tradizione cristiana il motivo dell’estraneità, tanto che il nome stesso della struttura di base della chiesa, la parrocchia, richiama la condizione dello straniero (paroikos in greco significa straniero). L’accezione di “fratello” riferito allo straniero, quindi, si addice perfettamente al cristiano (“ero straniero e mi avete ospitato”, in Mt 25,35). In che senso il fratello-straniero può avere qualcosa contro di noi che ci identifichiamo come occidente con la tradizione cristiana? Il “ricordare” di cui si parla nel vangelo può essere inteso con il prendere coscienza, aprire gli occhi su quanto accade intorno a noi. Solo così ci possiamo rendere conto che le grandi migrazioni che stanno avvenendo non sono dovute al capriccio di chi si muove, ma alla sconsiderata e colpevole gestione economica mondiale, i cui centri di potere appartengono proprio alla sfera occidentale (il G8 ci dice qualcosa?). Certo, non è la religione al primo posto nei pensieri dei potenti, anche se si fa molta retorica religiosa tra i politici, ma ci deve far riflettere piuttosto l’estrema freddezza e prudenza con cui si affronta il problema dell’immigrazione da parte, ad esempio, della chiesa cattolica.
Solo due fatti: innanzitutto la diversa attenzione riservata alla cosiddetta legge per la sicurezza e al problema, invece, della pillola abortiva: per questa si sta facendo una guerra mediatica, appoggiata anche da pezzi del governo in carica; per l’immigrazione, dopo timide e sporadiche prese di posizione, si interviene con commenti rassicuranti e indulgenti per il governo; certo è legittimo e giusto dare voce a chi non ha voce e la vita nascente rientra sicuramente nella categoria biblica dell’orfano, ma è troppo semplice occuparsi in modo paternalistico solo di chi non ha coscienza, perché non c’è pericolo che possa dire la propria, mentre gli immigrati hanno un’identità spesso diversa (il cardinale Biffi, in passato, suggeriva di preferire i filippini perché cattolici), reclamano una loro autodeterminazione che mal si concilia, forse, con chi vuole un sistema uniforme di valori. L’altro fatto è l’ultima enciclica papale che tratta solo in modo evasivo dell’immigra- zione e delle sue cause che invece, viste le dimensioni enormi del fenomeno, dovrebbe essere un criterio di lettura fondamentale per un’enciclica sociale.
Il vangelo chiede la conversione, letteralmente un voltarsi indietro, non solo dal peccato, ma anche dall’altare (forse le due conversioni, per noi cristiani che identifichiamo la fede coi riti, sono la stessa cosa!), per andare incontro, con un cambiamento radicale delle condizioni economiche, a tanti fratelli che ci rinfacciano il peccato della dimenticanza della nostra origine, cioè quella di essere emigranti perseguitati, come Israele e come i primi cristiani, e della dimenticanza della nostra condizione, non di padroni della terra, ma di fittavoli di Dio, che chiede, come unica forma di pagamento, l’attenzione allo straniero, all’orfano e alla vedova perché, ci ricorda Gesù, “quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). ☺
Nella bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, viene sottolineato in modo netto che è necessario presentarsi a Dio con una piena consapevolezza di ciò che si è e della condizione in cui ci si trova, anche in rapporto agli altri. Dio vuole che chi entra in relazione con lui abbia piena coscienza della propria identità. Certamente la questione dell’identità solletica molti difensori della cultura cristiana di fronte all’invasione del diverso. Ma quale è la vera identità dei “figli di Abramo” a cui anche noi spiritualmente apparteniamo?
La carta d’identità è ben tracciata nel Deuteronomio, dove sono scritte le parole che l’israelita deve pronunciare davanti a Dio quando porta le primizie del suo lavoro: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto, vi stette come forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, spargendo terrore e operando prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu Signore mi hai dato” (Dt 26,5-10). Sembrerebbe una classica storia a lieto fine, per cui il rapporto che si instaura attraverso il culto diventa una forma di ringraziamento per il beneficio ricevuto, dopo tante sofferenze. Ma il testo biblico va più avanti e Dio stesso dice: “Quando avrai finito di prelevare le decime e le avrai date al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e ne siano sazi, dirai al Signore Dio tuo: Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato… Volgi lo sguardo dalla dimora della tua santità e benedici il tuo popolo Israele e il suolo che ci hai dato come hai giurato ai nostri padri, il paese dove scorre latte e miele” (26,12-13.15).
Alla gratuità provvidente di Dio ora segue una condizione: solo nella misura in cui il popolo riconosce Dio nel volto dell’altro che è nel bisogno potrà ancora usufruire della benedizione della sua terra. L’identità della tradizione occidentale sta quindi nel riconoscersi ospiti e custodi di una terra che è casa anche di chi non ha casa, di chi è straniero o non ha sicurezze. Nel Nuovo Testamento si fa un passo ulteriore: non solo l’offerta di una decima, l’elemosina, ma la riconciliazione accogliente con l’altro: “Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). In che modo questo testo si riferisce anche allo straniero? Essere fratelli significa riconoscere un’origine comune; ora, l’inizio della predicazione cristiana fuori di Israele nasce con la persecuzione e la fuga e ciò manifesta quanto sia connaturale alla tradizione cristiana il motivo dell’estraneità, tanto che il nome stesso della struttura di base della chiesa, la parrocchia, richiama la condizione dello straniero (paroikos in greco significa straniero). L’accezione di “fratello” riferito allo straniero, quindi, si addice perfettamente al cristiano (“ero straniero e mi avete ospitato”, in Mt 25,35). In che senso il fratello-straniero può avere qualcosa contro di noi che ci identifichiamo come occidente con la tradizione cristiana? Il “ricordare” di cui si parla nel vangelo può essere inteso con il prendere coscienza, aprire gli occhi su quanto accade intorno a noi. Solo così ci possiamo rendere conto che le grandi migrazioni che stanno avvenendo non sono dovute al capriccio di chi si muove, ma alla sconsiderata e colpevole gestione economica mondiale, i cui centri di potere appartengono proprio alla sfera occidentale (il G8 ci dice qualcosa?). Certo, non è la religione al primo posto nei pensieri dei potenti, anche se si fa molta retorica religiosa tra i politici, ma ci deve far riflettere piuttosto l’estrema freddezza e prudenza con cui si affronta il problema dell’immigrazione da parte, ad esempio, della chiesa cattolica.
Solo due fatti: innanzitutto la diversa attenzione riservata alla cosiddetta legge per la sicurezza e al problema, invece, della pillola abortiva: per questa si sta facendo una guerra mediatica, appoggiata anche da pezzi del governo in carica; per l’immigrazione, dopo timide e sporadiche prese di posizione, si interviene con commenti rassicuranti e indulgenti per il governo; certo è legittimo e giusto dare voce a chi non ha voce e la vita nascente rientra sicuramente nella categoria biblica dell’orfano, ma è troppo semplice occuparsi in modo paternalistico solo di chi non ha coscienza, perché non c’è pericolo che possa dire la propria, mentre gli immigrati hanno un’identità spesso diversa (il cardinale Biffi, in passato, suggeriva di preferire i filippini perché cattolici), reclamano una loro autodeterminazione che mal si concilia, forse, con chi vuole un sistema uniforme di valori. L’altro fatto è l’ultima enciclica papale che tratta solo in modo evasivo dell’immigra- zione e delle sue cause che invece, viste le dimensioni enormi del fenomeno, dovrebbe essere un criterio di lettura fondamentale per un’enciclica sociale.
Il vangelo chiede la conversione, letteralmente un voltarsi indietro, non solo dal peccato, ma anche dall’altare (forse le due conversioni, per noi cristiani che identifichiamo la fede coi riti, sono la stessa cosa!), per andare incontro, con un cambiamento radicale delle condizioni economiche, a tanti fratelli che ci rinfacciano il peccato della dimenticanza della nostra origine, cioè quella di essere emigranti perseguitati, come Israele e come i primi cristiani, e della dimenticanza della nostra condizione, non di padroni della terra, ma di fittavoli di Dio, che chiede, come unica forma di pagamento, l’attenzione allo straniero, all’orfano e alla vedova perché, ci ricorda Gesù, “quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). ☺
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