
Ossessivi-compulsivi
I recenti dati forniti dall’I.L.O. – ovvero, secondo l’acronimo inglese, l’ Organizzazione Internazionale del Lavoro – non sorprendono più di tanto: il settore è in forte crisi e quella “salariale ha colpito in modo disuguale le diverse fasce della popolazione. I lavoratori più giovani, le donne e coloro che provengono da contesti svantaggiati sono stati particolarmente colpiti”.
L’agenzia specializzata delle Nazioni Unite ha lo scopo di promuovere “il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne”. Purtroppo però assistiamo, anche nel nostro Paese, alla diffusione sempre più crescente del cosiddetto “lavo- ro povero” e ad un disastro del salario che non consente adeguate condizioni di sussistenza e che mina la coesione sociale. In tale situazione parlare di lavoro, del suo valore morale oltre che economico per ogni persona – si consideri l’articolo 1 della nostra Carta costituzionale – appare dissonante, quasi offensivo! Eppure vorrei partire da queste negative premesse per presentare alcune considerazioni sul vocabolo inglese workaholic [pro- nuncia: uorcaolic], aggettivo riferito alle persone caratterizzate da una sindrome – non saprei quanto conosciuta come tale – quella del workaholism, l’ubriacatura da lavoro.
Si tratta di un disturbo ossessivo-compulsivo: la persona che ne è affetta si presenta come troppo dedita al lavoro da porre in secondo piano la propria vita sociale e di relazione tanto da provocare danni a sé stessa e agli altri familiari. Tale comportamento patologico è stato per la prima volta diagnosticato negli anni Settanta del secolo scorso; in precedenza casi simili venivano considerati episodi isolati, non clinici, e per essi si utilizzava una terminologia differente: ‘stacanovista’.
Per accrescere la produttività nell’ Unione Sovietica degli anni Trenta (l’allora U.R.S.S.) sorse il movimento che prendeva nome da un minatore russo, Aleksej Grigor′evič Stachanov, che si produsse in un’ impresa di estrazione di carbone ‘da record’. L’obiettivo era quello di stimolare gli operai ad impegnarsi di più, attraverso incentivi o emulazione, e verificare se fosse corretta l’organizzazione del lavoro oppure vi fosse necessità di qualche modifica. Sul piano umano, specie all’epoca, un lavoratore (oppure una lavoratrice) stacanovista non era considerato/a un soggetto patologico, bensì ammirato ed elogiato per la dedizione al lavoro.
Per una persona affetta da workaholism la differenza tra luogo di lavoro e casa, quindi ambito lavorativo e vita personale, è andata perduta, per cui risulta naturale, per lui o lei, continuare a lavorare in casa, nei fine settimana o in vacanza. E il disagio riguarda anche chi vive insieme ad un uomo oppure una donna in preda a tale disturbo: preoccupazione oltre che risentimento e indebolimento di legami affettivi e relazionali.
Le attuali condizioni lavorative lasciano molte perplessità circa quest’ affezione, reale o presunta, nei confronti della fatica, siano essi/e operai/e o impiegati/e. Il lavoro sta diventando sempre più esclusivamente un mezzo di sopravvivenza, con salari e stipendi che non contrastano l’inflazione, con la conseguenza di difficoltà crescenti per famiglie e singoli/e di far fronte alle spese ordinarie. Inoltre la qualità stessa del lavoro si è impoverita quanto a stimoli, creatività e tempi.
Agli inizi del Novecento, a Londra, si costituì un circolo di intellettuali che prese il nome dal quartiere di Bloomsbury, dove si riuniva: la caratteristica di questo gruppo eterogeneo di figure del mondo dell’arte, della pittura e della letteratura fu quella di sperimentare, condividendole, idee innovative e scelte di vita comunitaria controcorrente, che si scontravano con la rigida moralità tardo ottocentesca, ancora legata ai canoni del Vittorianesimo. L’attività instancabile dei suoi componenti diviene il tratto distintivo del gruppo, assimilabile ad una sorta di workaholism del secolo scorso. “Non che fossero dei workaholic … – senza distinzioni tra maschile e femminile … – consideravano il proprio lavoro come uno strumento vitale di espressione e finanche di salvezza” (Mario Fortunato, Il giardino di Bloomsbury, Bompiani).
La visione contemporanea del lavoro è senz’altro più distante, e le prospettive si scontrano con una tenebrosa realtà. Chi mai potrebbe provare apprezzamento o piacere per un lavoro malpagato, stressante, ripetitivo! E la maggioranza delle persone, credo, si trovino in questa condizione. Lontani come siamo, non soltanto nel tempo, noi contemporanei difficilmente potremmo condividere quello che scriveva Vanessa Bell, in una sua lettera del 1939: appassionata del suo lavoro di artista e componente del gruppo di Bloomsbury – nonché sorella della più nota scrittrice Virginia Woolf – Vanessa non ha mai rinunciato ad impiegare il suo tempo con la pittura. “Ho veramente pena per chi non è innanzitutto un artista, perché è qualcuno che non trova riparo dal mondo”.☺