pentiti e collaboratori   di Franco Novelli
29 Settembre 2012 Share

pentiti e collaboratori di Franco Novelli

 

Il collaboratore di giustizia: quali le sue motivazioni e quale il suo ruolo?

La figura del “pentito” e la parola “pentitismo” sono espressioni che facciamo risalire alla metà degli anni Settanta e primi anni Ottanta del secolo scorso, all’epoca della lotta dello Stato contro il terrorismo. In quel periodo si considerava il termine “pentiti- smo” in chiave molto negativa, perché esso era accomunato al concetto di “delazione”, di “ruffiano”, di “traditore”; infatti, si partiva dal presupposto che se lo Stato avesse dovuto sconfiggere il terrorismo di sinistra – in quegli anni lo Stato si preoccupava molto di meno dell’eversione stragista di destra! -, avrebbe dovuto farlo senza il ricorso ad una strategia ambigua come quella della delazione. Oggi si valuta in maniera molto differente il concetto del “pentitismo” e/o della “collaborazione” con la giustizia, in quanto l’attacco frontale alle regole democratiche e alle norme costituzionali scritte nel 1948 viene sferrato dai poteri forti della finanza, da quelli delle mafie, dai loro fiancheggiatori, noti con il soprannome di “colletti bianchi”.  Di qui, oggi, una diversa lettura del fenomeno del pentitismo e delle collaborazioni con la giustizia che si giustifica soprattutto allo scopo di arginare e sconfiggere la volgare incultura e la dolorosa presenza delle mafie.

La cosiddetta Legge Cossiga del Febbraio del 1980, decreto legge nr. 625 del 15 dicembre 1979, ha introdotto le prime norme che prevedevano sensibili diminuzioni di pena per i terroristi che si dichiarassero disposti a collaborare con le forze dell’ordine e con la magistratura nelle indagini che questa riteneva indispensabili nella lotta al terrorismo. Fin dai primi vagiti della legge nr. 625/’79 i risultati sono apparsi soddisfacenti, anche perché essa apriva un grosso dibattito politico nel Paese circa l’”eticità” di norme che andavano a premiare la delazione. Poco dopo e precisamente nel maggio del 1982 veniva approvata la legge nr. 304 – la cosiddetta “legge sui pentiti” – che prevedeva una serie di casi di non punibilità per varie forme di “recesso” da associazioni terroristiche, attenuanti di pena per altri casi e benefici di vario genere come la libertà provvisoria, la sospensione condizionale della pena o la riduzione di 1/3 della pena per chi collaborava con la polizia o con la magistratura nella raccolta di prove decisive per l’individua- zione e la cattura dei colpevoli. Poi c’è stata la legge nr. 34 del 18 febbraio 1987 che ha introdotto benefici speciali per i terroristi che si dissociavano dal terrorismo. Il successo dello Stato sul terrorismo, grazie al pentitismo di quegli anni, ha potuto determinare un ampio movimento di opinione che apertamente apprezzava l’uso del “pentito” in funzione antimafia. Nel corso degli anni Ottanta, in concomitanza con i maxi processi alla mafia, il numero dei collaboratori di giustizia è cresciuto tanto da spingere il legislatore a emanare una normativa che bene cominciasse a regolare il fenomeno della collaborazione di giustizia, quindi  del pentitismo contro tutte le mafie. Di qui è scaturita la legge nr. 82 del 15 marzo 1991, voluta da Giovanni Falcone, dal Pool dei magistrati palermitani guidati da Nino Caponnetto, dalla polizia giudiziaria.

La legge nr. 82/’91 riconosce un regime di particolare favore di cui possono beneficiare i collaboratori di giustizia sotto il profilo della protezione, dell’assistenza, sotto quello processuale nonché penale e penitenziario.

Il 13 febbraio 2001 il Parlamento ha approvato una nuova legge, la nr. 45/2001 che ha tentato di razionalizzare il sistema di protezione al fine di eliminare gli inconvenienti emersi negli anni precedenti.

Ricordiamo che si aprì negli anni Novanta del secolo scorso un poderoso dibattito circa la eticità o meno del “pentimento”. Il legislatore (e noi con lui), a conclusione di dibattiti pubblici molto partecipati, ha tenuto presente come essenziale per una società laica semplicemente l’aspetto civile (anche se utilitaristico) del pentimento e la ricerca nonché l’individuazione delle reali motivazioni di ordine psicologico che determinano tale scelta. Per cui il termine “pentimento” ha di fatto indicato (ed indica, comunque) l’atteggiamento di collaborazione di un imputato nei confronti della giustizia e dei problemi giudiziari che ne derivano.

A questo punto ci chiediamo quali siano i soggetti che intervengono nel  procedimento di protezione dei collaboratori di giustizia. In sintesi estrema li elenchiamo, non soffermandoci in questo ambito ad indicarne i compiti, le attribuzioni, le strutture di protezione.

Il ministro degli interni ogni sei mesi presenta una relazione al Parlamento sui programmi di protezione, sulla loro efficacia e sulle modalità di applicazione; il ministro della giustizia collabora strettamente con il ministro degli interni nell’emanazione di norme che regolamentano la gestione dei collaboratori di giustizia, detenuti nelle carceri; l’autorità giudiziaria, il capo della polizia, la commissione centrale, il servizio centrale di protezione, il procuratore nazionale antimafia.

Il servizio centrale di protezione è l’organismo operativo della commissione centrale; svolge una funzione di “schermo protettivo” del soggetto tutelato e funge da filtro tra le amministrazioni interessate e il collaboratore di giustizia per garantirne la sicurezza, attraverso l’anonimato; ha una struttura centralizzata a Roma e nuclei operativi periferici che operano sul territorio e sono i cosiddetti NOP, ossia i nuclei operativi di protezione. I NOP sono circa 450/500 in Italia e sono composti da militari che tutti i giorni si confrontano direttamente con i problemi delle persone sottoposte a protezione (dei rapporti che intercorrono fra i NOP e i soggetti sottoposti a protezione parleremo in altra occasione).

Quando un soggetto entra in un programma di protezione vede profondamente cambiata la propria vita quotidiana: infatti, deve vivere clandestino a se stesso, cambiando il nome. Inoltre, il collaboratore di giustizia viene sottoposto ad un codice di comportamento al quale deve assolutamente rimanere fedele, altrimenti mette in discussione il programma stesso. È spesso accaduto che un collaboratore di giustizia, sentendosi solo, abbandonato, con i problemi di famiglia irrisolti, abbia concesso interviste o conferenze stampa non concordate, contravvenendo al programma e mettendo  in questo modo seriamente in pericolo di vita se stesso e la sua famiglia. In genere, è la mancanza della scorta, quando egli è ai domiciliari “anonimi”, la molla che fa scattare la paura, la sensazione dell’abbandono e quindi una risoluta contrapposizione al programma condiviso e stabilito da entrambe le parti (Ministero e collaboratore di giustizia).

Oggi il numero dei collaboratori di giustizia  è visibilmente calato, perché essi avvertono che il progetto iniziale di reinserimento sociale delle persone nel tessuto produttivo della società sta conoscendo una fase di stallo e forse di crisi imprevista. La crisi economica sta letteralmente modificando le progettualità governative antimafia, sta distraendo l’esecutivo nazionale e il parlamento dall’impegno prioritario che una società civile deve poter concretare e cioè il culto della legalità.

Anche per queste ragioni la corruzione in Italia oggi ha raggiunto il suo punto più alto e con essa anche il discredito verticale della politica ha determinato un netto rallentamento delle tensioni civili verso la prassi della legalità e della lotta alle mafie. Infatti, la cosiddetta “massa grigia” costituisce una delle metastasi tumorali più pericolose per la nostra società civile e la cosa più grave è che tali metastasi appaiono allo stato attuale “incurabili”.☺

bar.novelli@micso.net

 

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