A santiago
Ho avuto il piacere di conoscere padre Fabio nella Cattedrale di Santiago, quando nel 2018 ho fatto il mio pellegrinaggio alla tomba dell’apostolo Giacomo. Partecipai alla messa degli italiani nella cappella del Cristo di Burgos ad essi riservata e lì c’era lui, romano di origine, che ad una catechesi fece seguire la celebrazione della santa messa. Non sapevo dell’esistenza di un ordine religioso di padri Guanelliani, figli spirituali di San Luigi Guanella. Fu il desiderio di contribuire alla riapertura delle tante chiese chiuse incontrate lungo il cammino francese che ne ha reso possibile una maggiore conoscenza.
Oggi, volontario presso la comunità dei padri Guanelliani in Arca, incontro Padre Fabio per una intervista sulla storia e sul senso del Cammino di Santiago.
Padre Fabio, può spiegare ai lettori del giornale le ragioni di una missione di Guanelliani in Galizia?
L’opera don Guanella era già presente in Spagna da circa 60 anni a Madrid, a Palencia, ad Aguilar de Campoo. Decidemmo di venire qui nel 2010 perché si voleva stabilire una comunità in un punto dove c’era un grande passaggio di gente e dove la presenza della chiesa era molto debole, quasi inesistente. L’Arcivescovo di Santiago ci ha accolti e ci ha affidato all’inizio le parrocchie di Arca, Bama e O Pino, in un secondo momento le parrocchie di Arzua e altre in quella zona. Ci diede il compito di seguire i pellegrini nelle ultime tappe e tenere servizio presso la Cattedrale ai pellegrini di lingua italiana, con la messa in italiano, le confessioni e una serie di attività.
L’opera don Guanella in che cosa si caratterizza in modo particolare?
L’opera don Guanella nasce soprattutto per l’attenzione alle persone che non hanno nessuno, quelli ai quali nessuno pensa, in particolare ai disabili mentali, agli anziani, alla fanciullezza abbandonata. Nasciamo per quelle situazioni per le quali non vi è una risposta, né dello Stato, né di altre istituzioni; nasciamo per prenderci cura di quelli ai quali nessuno pensa. Ecco, i pellegrini del Cammino di Santiago rientrano un po’ in questa categoria, perché, oggettivamente, qui c’è un fiume di gente che passa, a fronte di chiese chiuse, proposta spirituale minima e quindi, in qualche modo, i pellegrini sono dei nuovi poveri.
Il pellegrinaggio ha origini antiche, era praticato anche presso i pagani. Come e quando nacque il pellegrinaggio a Santiago di Compostela?
Nasce con la scoperta della tomba dell’apostolo Giacomo nell’anno 813 d.C. e, da allora, iniziano i pellegrinaggi che vengono ad inserirsi in una tradizione cristiana che già conosceva il pellegrinaggio, in particolare quello alla terra del Signore, in Terra Santa. Diverse circostanze rendevano tale pellegrinaggio pericolosissimo, non erano molti quelli che tornavano vivi. Non appena fu possibile, i cristiani optarono per due mete alternative alla Terra Santa: la tomba dell’apostolo Pietro a Roma, andando lungo la via Francigena e parte della via Romea e il Cammino a Santiago di Compostela per la tomba dell’apostolo Giacomo. Diciamo che dei dodici Apostoli del Signore le uniche due sepolture, sicure e garantite dalla storia e dell’archeologia, erano Compostela e Roma e lungo queste due arterie si svilupparono i pellegrinaggi di tutti i popoli europei, che hanno segnato in qualche modo la storia di questi ultimi dieci, dodici secoli. Il pellegrinaggio a Compostela nasce un po’ come un sostituto, se vogliamo, del pellegrinaggio in Terra Santa e chi veniva qui, veniva con l’animo di chi sarebbe andato alla terra del Signore. Non potendo andare da Gesù, andava dai suoi amici e Giacomo era quindi l’amico del Signore che lo riceveva presso la sua tomba. In questo senso il pellegrinaggio si innesta nella tradizione cristiana come una “peregrinatio ad tumbas”, dove l’oggetto del pellegrinaggio è un sepolcro e un sepolcro, che è evocativo, perché la tomba di uno ti dice perché é vissuto, perché è morto, per chi è vissuto, per chi è morto; questo aiutava il credente, il pellegrino, a capire per chi bisogna vivere, per chi bisogna morire.
Oggi tra i pellegrini si parla molto di cammino nel senso di camminata non più di pellegrinaggio. Cos’è cambiato?
C’è una differenza abissale tra cammino e pellegrinaggio. Il pellegrinaggio ha sempre una meta, anche nell’antichità precristiana vi erano pellegrinaggi ai fiumi e alle montagne, al tramonto del sole, ogni pellegrinaggio aveva una destinazione finale, dei luoghi, un oggetto ben preciso. Non era un girovagare, non era un camminare a zonzo, a vuoto, o a casaccio. Il cammino può essere un cammino che non ha meta: sulla spiaggia, in città, sulla sabbia, nel deserto, nel bosco, e in realtà, il cammino può essere un esercizio fisico, può essere un esercizio della mente. Un pellegrinaggio è proprio il raggiungimento di una meta, che non sempre include il senso di un percorso chilometrico. Purtroppo, oggi, una delle derive del Cammino di Santiago è che viene confuso con l’espletamento di un cammino e un certo numero di chilometri. Questa è una menzogna perché l’antico pellegrino non aveva l’affanno di fare dei chilometri e, se poteva, lungo il cammino veniva con un asino, saliva su una carrozza; se camminando incontrava un carro che trasportava merci ci saliva su e faceva ottanta, novanta, cento chilometri, non aveva la preoccupazione, l’esigenza di fare dei chilometri, nessuno avrebbe controllato quanti chilometri avrebbe fatto a piedi, o quanti a cavallo. È nata oggi questa ansia del chilometro, questa ansia del cammino a piedi, perché siamo in una cultura che sottolinea e valorizza molto il camminare in quanto camminare. Ne è riprova quest’anno di Covid il fatto che molti degli abituali Pellergini di Santiago hanno optato per il Cammino degli Dei, dei Brignati, degli Abati: in pratica quello che conta è camminare, non da chi vai. Camminare è un valore importante, è bello, per il corpo e per la mente, ma con il Cammino di Santiago non c’entra nulla. Il Cammino di Santiago non ha nulla a che vedere con l’esercizio fisico e l’esercizio fisico è l’ultimo dei valori in gioco.
Il mondo intero lotta contro il Covid-19 e la Spagna ancora oggi è coinvolta nella lotta contro questo malefico virus. Con la riapertura delle frontiere, il Cammino di Santiago ha subìto delle ripercussioni?
Gravissime. A livello numerico io credo che non siamo neanche al 5% degli abituali numeri degli ultimi anni. E pensare che nel passato, ogni anno presentava un incremento di presenze e, come tutti i Cammini, era solo in crescita. Il problema è che tutto si è bloccato, si è arenato anche per una certa pubblicità. In tutta la stampa, per esempio italiana, si continua a demonizzare la Spagna come ‘il luogo’ del coronavirus, però questo non ha toccato la Galizia. Si pensi che a tutt’oggi in Galizia c’è un solo ricoverato in terapia intensiva, uno solo in tutta la Galizia. La situazione è del tutto sotto controllo. Chi fa il Cammino, ha forse il disagio di camminare con la mascherina, di osservare le precauzioni, ha la difficoltà di molti ostelli, luoghi da mangiare. Ma un anno così, quanto a sicurezza e igiene forse non si ripeterà più. Certo il coronavirus ci ha messo un po’ in ginocchio; ha messo in crisi l’economia di queste arterie, evidenziando come non si può vivere solo di Cammino. Qui, molta gente ha dovuto chiudere e noi abbiamo dovuto, con i soldi della caritas parrocchiale, aiutare tante famiglie in difficoltà, famiglie che prima aiutavano la parrocchia.
In termini percentuali come si distribuisce la disponibilità a fare il pellegrinaggio rispetto al camminare, ci sono delle statistiche fatte?
No. La mia esperienza personale dice che, forse, non arrivano neanche al 10%, quelli che hanno la consapevolezza di che cos’è il Cammino di Santiago e quindi sanno che vanno alla tomba dell’Apostolo di Gesù. Il 90% ignora totalmente le ragioni per cui si fa il Cammino di Santiago e prende per obiettivi i suoi stati personali: una malattia in famiglia, un lutto, un incidente, una povertà, una crisi, la rottura matrimoniale, la difficoltà di dialogo, una amicizia in frantumi, un momento depressivo, il bisogno di ricominciare, la voglia di trovare amicizie, una fuga dalla propria realtà. Tutte situazioni interessanti e utili, anche dolorose insomma, che vanno rispettate, però oggettivamente con il Cammino di Santiago non c’entrano molto. Bisognerebbe aiutare le persone a non confondere il punto di partenza con l’obiettivo. Si parta da dove si vuole, da qualunque situazione, però sarebbe bene che chi si mette in cammino sappia dove va e cosa è storicamente questa esperienza. Altrimenti sarebbe come scoprire le Catacombe e ritenerle buone per conservarci vini, salumi e formaggi; certo, un ottimo luogo di conservazione, ma perdono la loro natura e il loro scopo. Un grande ruolo dovrebbero giocarlo coloro che in Italia distribuiscono le credenziali. Il Cammino di Santiago non è un cammino per la felicità, non è un cammino per ritrovare se stessi e tutte queste stupidaggini che continuiamo a leggere nella letteratura sul Cammino, esse non hanno nessun fondamento né storico e né realistico.
Per concludere, vuole dire qualcosa sui pellegrini italiani?
Gli italiani a Compostela sono la seconda forza del Cammino dopo gli spagnoli. Per ragioni storiche e circostanziali il 76% dei pellegrini italiani sono lombardi. Oltre alle regioni Piemonte, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, stiamo avendo grandi numeri anche dal Veneto, dalla Campania, dalla Sardegna, dalla Puglia. Quasi del tutto assenti altre regioni. Siamo stati nominati dall’arcivescovo di Santiago cappellani dei pellegrini italiani e, mentre siamo parroci per tutti e assistiamo tutti, dobbiamo inventarci delle forme di attenzione particolare per il pellegrino italiano. Ecco la ragione della santa messa in italiano, la cura nella catechesi, le confessioni e poi un lavoro di sensibilizzazione che facciamo in Italia, nelle grandi piazze italiane.
Un gruppo di pellegrini italiani interrompe la chiacchierata e chiede di padre Fabio che, salutandomi, si allontana. È l’ora della catechesi. Il ritrovo è un vecchio fienile ristrutturato.☺

