A sergio zarrilli, pediatra
14 Gennaio 2021
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A sergio zarrilli, pediatra

Caro dottore,

non so da dove cominciare. Forse dal bisogno profondo che ho di parlarle, di sentirla vicino, di avvertire che in qualche modo mi ascolta ancora e, con l’inesauribile pazienza di sempre, mi risponde anche stavolta, pacato, rassicurante, gentile.

Incredula, sgomenta, provo ad usare la scrittura in funzione terapeutica per lenire il dolore che, da domenica mattina, da quando lei si è accasciato in strada sotto gli occhi sbigottiti del passeggio domenicale in viale Elena, mi accompagna, mi tiene a lutto il cuore e mi vela di malinconia tutti I gesti che compio, le parole che dico, I pensieri che arrivano.

Mi vado chiedendo ancora se sotto quel lenzuolo ci fosse proprio lei. Se quell’ambulanza fosse là proprio per lei. O se non sia ancora possibile affidare quella scena indelebile allo scherzo di un brutto sogno, alzare semplicemente la cornetta e farle gli auguri di Natale, chiederle di uno sciroppo, di uno degli appuntamenti di “Nati per Leggere”.

Se chiudo gli occhi, la prima immagine che mi sale nel cuore risale a quattro anni fa, ad una delle prime visite di controllo cui Miriam si sottopose: poche parole, io un poco in soggezione, lei elegante (nei modi, nei toni, nei gesti), tenero, che maneggia con grazia quello scricciolo di neanche tre chili, che calma il suo pianto con l’accenno di una melodia fischiettata a bassa voce, tenendo i pugnetti ribelli nelle sue mani sicure, senza agitarsi, come invece avrei fatto io, mamma alle prime armi che neanche sa infilarle correttamente il body intimo.

Quanta pazienza, dottore caro, ha avuto con me. Un marito fuori sede era la giustificazione con cui mi perdonavo i messaggi fuori orario, la richiesta dei consigli più puntigliosi o ansiogeni sul cibo o sull’igiene, gli allarmi pandemici per un banale raffreddore. Lei c’era. Era lì. Non mancava mai. A qualunque ora, in qualunque giorno, con qualunque impegno tra le mani.

Quando donò a Miriam, a sei mesi, il suo primo libricino e le disse: “Miriam, mi dispiace, è finita la pacchia: adesso si comincia a studiare!”.

Quando accettò di venire a scuola, dai miei ragazzi, per raccontarci del “suo” Senegal, di ciò che vedeva e viveva lì, e portò con sé quelle immagini così accurate, sentite, regalandoci tutta la sua esperienza di volontario gioioso, il suo tempo, la sua testimonianza di una vita che si fa dono in silenzio, senza clamori, con amore.

Quando la vidi accovacciato sull’erba di Parco San Giovanni, quest’estate, con gli occhiali da sole la maglietta di “NpL”, beato e divertito nel leggere storie in mezzo ai piccoli, con quella voce rassicurante, benevola, che conservo nel suo ultimo messaggio vocale di qualche giorno fa. Non ho il coraggio di cancellarlo, ma neanche di risentirlo. Lo custodisco, gelosamente, in quella chat che ormai non parla più.

Quando, il 18 novembre scorso, Miriam entrò in ambulatorio e le regalò un suo disegno, per la prima volta, e lei si trovò “molto bello e magrissimo”, e la ringraziò, e passò fra voi un’intesa, una sintonia che era il lieto fine di una relazione molto complicata fino ad allora: la piccola che solitamente strillava disperata sulla soglia della sua porta, e lei che cercava di rassicurarla scomparendo dietro al suo pc, seduto alla scrivania con nonchalance, in attesa che la signorina si calmasse.

Quando ascoltava i miei messaggi vocali, sempre troppo lunghi, a volte più confidenziali di quello che una qualunque mamma seccatrice potrebbe permettersi, e accettava di darmi consigli su ogni aspetto della crescita di Miriam: “Non si preoccupi, nessun disturbo…”.

Dottore, mi mancherà, mi manca già. Da domenica, qualcosa è cambiato, un punto di riferimento essenziale è venuto meno e, un poco, barcollo. Abituarsi all’idea che lei non c’è più mi costerà, ci costerà uno sforzo di immaginazione superiore alle nostre forze. Sì, immaginazione, dottore, perché la realtà dice che lei è qui, che non se ne è andato, che non la lasceremo andare, che non se ne può andare. Lei rimane in ogni bimbo che ha amato, accudito col sorriso, coccolato, avviato alla lettura come potente strumento di crescita, di liberazione.

Lei resta, dottore, in tutto il bene che ha fatto, in tutta la serenità che ha costruito, in tutte le preoccupazioni notturne che ha lenito nelle madri insonni, nella testimonianza limpida, gioiosa di una vita spesa come dono per gli altri, l’unico modo per renderla umana, autentica.

Le ho voluto bene come si può volerne ad un familiare, ad una persona cara. Lei non è stato solo “il pediatra”. Lei non lascia un vuoto incolmabile, come di primo impatto, sotto choc, mi è sembrato. Lei lascia uno spazio pieno, vivo, ricco, che continuerà a dare frutto. Lei continua a vivere in ogni riga che ha letto sull’erba, in ogni bimbo salvato da un vaccino, in ogni scricciolo che ha messo sulla bilancia, in ogni parola buona che ha rivolto a chi, come me, la cercava come punto di riferimento essenziale, porto sicuro.

Tornerò in quell’ambulatorio, dottore, il richiamo antinfluenzale ci aspetta tra qualche giorno. Mai avrei immaginato che, il 18 novembre scorso, dopo quella punturina che ci aveva lasciati stupiti e contenti (“Miriam, ma sei stata bravissima! Ti regalo un cerottino colorato”), non l’avrei più rivista. Miriam saprà che lei è partito per un lungo viaggio, un posto bellissimo dove gioca tutto il giorno con i suoi piccoli e inventa e legge storie. Tornerò in quell’ambulatorio e mi volterò verso la sua porta, e ricorderò quante volte l’ho aperta e l’ho poi richiusa, salutandola.

“Arrivederla, dottore, e grazie, ci vediamo la prossima volta”. Stasera voglio salutarla, ancora, così.☺

 

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