La conversazione pacata sembra non appartenere più alla nostra esperienza quotidiana. Il colloquio sereno, la comunicazione che tenta di eliminare le barriere che anche involontariamente separano le persone, lo stile “democratico” di chi parla considerando degni di rispetto gli ascoltatori appaiono oggi una abitudine desueta, sostituita invece dal gusto dell’aggressione verbale, del tono accalorato, dell’imposizione del proprio ed esclusivo parere a discapito di quello degli altri. Sostenuta e a volte incentivata dai mezzi di comunicazione di massa, questa pratica si rivela vincente perché di grande richiamo per il pubblico.
Una discussione in cui gli interlocutori tentano l’uno di sopraffare l’altro ricorrendo a battute umoristiche o ad allusioni, in cui i toni di voce si alterano a manifestare aggressività o risentimento, attrae spesso l’attenzione dei più. Anche sulla carta stampata è sempre più frequente leggere opinioni o ragionamenti esposti con toni tra il veemente e l’irrispettoso, lontanissimi dallo stile delle grandi scuole di giornalismo.
Sarebbe necessario invece rivalutare e mettere in atto ciò che per gli anglosassoni è il fair play [pron. fèr plei], espressione formata da un aggettivo fair (bello, chiaro) e dal verbo play (giocare, per indicare uno dei suoi vari significati).
Fair play, uno dei princìpi del codice di etica sportiva, viene tradotto in italiano con “gioco leale” e presuppone che chiunque pratichi un’attività sportiva e si misuri con altri atleti debba tenere un comportamento corretto, rispettando sia le regole dello sport sia gli avversari. Atleti, allenatori, responsabili di gruppi sportivi sanno quindi bene quanto l’osservanza del fair play giovi al loro settore, e la pongono quale obiettivo essenziale di ogni attività, tanto da definirla come “il modo vincente: chi gioca lealmente è sempre vincitore”.
Oltre che all’ambito sportivo il concetto di fair play può essere esteso anche ad altri settori della vita associata laddove, superando il significato di semplice rispetto delle regole, diventa un modo di pensare, oltre che di comportarsi, che esclude l’imbroglio, la furbizia, la violenza, sia fisica che verbale. Fair play è la visione positiva della convivenza civile e dei rapporti tra gli individui; è considerare chi è diverso da me non come un nemico da combattere o emarginare, ma come persona degna di manifestare la propria personalità e realizzare le proprie aspettative.
Un’altra espressione inglese entrata a far parte del nostro vocabolario è politically correct, che la nostra lingua traduce letteralmente “politicamente corretto”. Si intende con essa l’uso di un linguaggio che evita termini discriminatori; nei discorsi, nei messaggi sia scritti che orali, vengono bandite quelle parole o definizioni che fanno riferimento a pregiudizi inerenti le caratteristiche fisiche o somatiche, la provenienza etnica, l’inclinazione sessuale, l’appartenenza religiosa, ecc. Si preferisce “afroamericano” al posto di “negro”, “diversamente abile” in luogo di “handicappato”, “non udente” invece che “sordo”, ecc.
Se negli anni ’30 negli Stati Uniti d’America veniva imposto questo tipo di linguaggio per fronteggiare le forti spinte razziste che in quella società stavano riemergendo, e soprattutto in ambito universitario si cercava di scoraggiare l’uso di espressioni offensive verso gli studenti di colore imponendo sanzioni e richiami a chi non rispettava il codice di condotta verbale, oggi, in una società globalizzata, l’uso convinto del linguaggio politically correct dovrebbe essere prassi abituale.
Se limitarsi ad un linguaggio privo di epiteti offensivi può apparire una forma di ipocrisia in quanto i reali problemi di emarginazione e ghettizzazione delle persone non vengono rimossi, il suo utilizzo è tuttavia un primo passo verso il superamento delle tante barriere che si interpongono tra gli esseri umani, perché dimostra il rispetto e la volontà di dialogo. ☺
La conversazione pacata sembra non appartenere più alla nostra esperienza quotidiana. Il colloquio sereno, la comunicazione che tenta di eliminare le barriere che anche involontariamente separano le persone, lo stile “democratico” di chi parla considerando degni di rispetto gli ascoltatori appaiono oggi una abitudine desueta, sostituita invece dal gusto dell’aggressione verbale, del tono accalorato, dell’imposizione del proprio ed esclusivo parere a discapito di quello degli altri. Sostenuta e a volte incentivata dai mezzi di comunicazione di massa, questa pratica si rivela vincente perché di grande richiamo per il pubblico.
Una discussione in cui gli interlocutori tentano l’uno di sopraffare l’altro ricorrendo a battute umoristiche o ad allusioni, in cui i toni di voce si alterano a manifestare aggressività o risentimento, attrae spesso l’attenzione dei più. Anche sulla carta stampata è sempre più frequente leggere opinioni o ragionamenti esposti con toni tra il veemente e l’irrispettoso, lontanissimi dallo stile delle grandi scuole di giornalismo.
Sarebbe necessario invece rivalutare e mettere in atto ciò che per gli anglosassoni è il fair play [pron. fèr plei], espressione formata da un aggettivo fair (bello, chiaro) e dal verbo play (giocare, per indicare uno dei suoi vari significati).
Fair play, uno dei princìpi del codice di etica sportiva, viene tradotto in italiano con “gioco leale” e presuppone che chiunque pratichi un’attività sportiva e si misuri con altri atleti debba tenere un comportamento corretto, rispettando sia le regole dello sport sia gli avversari. Atleti, allenatori, responsabili di gruppi sportivi sanno quindi bene quanto l’osservanza del fair play giovi al loro settore, e la pongono quale obiettivo essenziale di ogni attività, tanto da definirla come “il modo vincente: chi gioca lealmente è sempre vincitore”.
Oltre che all’ambito sportivo il concetto di fair play può essere esteso anche ad altri settori della vita associata laddove, superando il significato di semplice rispetto delle regole, diventa un modo di pensare, oltre che di comportarsi, che esclude l’imbroglio, la furbizia, la violenza, sia fisica che verbale. Fair play è la visione positiva della convivenza civile e dei rapporti tra gli individui; è considerare chi è diverso da me non come un nemico da combattere o emarginare, ma come persona degna di manifestare la propria personalità e realizzare le proprie aspettative.
Un’altra espressione inglese entrata a far parte del nostro vocabolario è politically correct, che la nostra lingua traduce letteralmente “politicamente corretto”. Si intende con essa l’uso di un linguaggio che evita termini discriminatori; nei discorsi, nei messaggi sia scritti che orali, vengono bandite quelle parole o definizioni che fanno riferimento a pregiudizi inerenti le caratteristiche fisiche o somatiche, la provenienza etnica, l’inclinazione sessuale, l’appartenenza religiosa, ecc. Si preferisce “afroamericano” al posto di “negro”, “diversamente abile” in luogo di “handicappato”, “non udente” invece che “sordo”, ecc.
Se negli anni ’30 negli Stati Uniti d’America veniva imposto questo tipo di linguaggio per fronteggiare le forti spinte razziste che in quella società stavano riemergendo, e soprattutto in ambito universitario si cercava di scoraggiare l’uso di espressioni offensive verso gli studenti di colore imponendo sanzioni e richiami a chi non rispettava il codice di condotta verbale, oggi, in una società globalizzata, l’uso convinto del linguaggio politically correct dovrebbe essere prassi abituale.
Se limitarsi ad un linguaggio privo di epiteti offensivi può apparire una forma di ipocrisia in quanto i reali problemi di emarginazione e ghettizzazione delle persone non vengono rimossi, il suo utilizzo è tuttavia un primo passo verso il superamento delle tante barriere che si interpongono tra gli esseri umani, perché dimostra il rispetto e la volontà di dialogo. ☺
La conversazione pacata sembra non appartenere più alla nostra esperienza quotidiana. Il colloquio sereno, la comunicazione che tenta di eliminare le barriere che anche involontariamente separano le persone, lo stile “democratico” di chi parla considerando degni di rispetto gli ascoltatori appaiono oggi una abitudine desueta, sostituita invece dal gusto dell’aggressione verbale, del tono accalorato, dell’imposizione del proprio ed esclusivo parere a discapito di quello degli altri. Sostenuta e a volte incentivata dai mezzi di comunicazione di massa, questa pratica si rivela vincente perché di grande richiamo per il pubblico.
Una discussione in cui gli interlocutori tentano l’uno di sopraffare l’altro ricorrendo a battute umoristiche o ad allusioni, in cui i toni di voce si alterano a manifestare aggressività o risentimento, attrae spesso l’attenzione dei più. Anche sulla carta stampata è sempre più frequente leggere opinioni o ragionamenti esposti con toni tra il veemente e l’irrispettoso, lontanissimi dallo stile delle grandi scuole di giornalismo.
Sarebbe necessario invece rivalutare e mettere in atto ciò che per gli anglosassoni è il fair play [pron. fèr plei], espressione formata da un aggettivo fair (bello, chiaro) e dal verbo play (giocare, per indicare uno dei suoi vari significati).
Fair play, uno dei princìpi del codice di etica sportiva, viene tradotto in italiano con “gioco leale” e presuppone che chiunque pratichi un’attività sportiva e si misuri con altri atleti debba tenere un comportamento corretto, rispettando sia le regole dello sport sia gli avversari. Atleti, allenatori, responsabili di gruppi sportivi sanno quindi bene quanto l’osservanza del fair play giovi al loro settore, e la pongono quale obiettivo essenziale di ogni attività, tanto da definirla come “il modo vincente: chi gioca lealmente è sempre vincitore”.
Oltre che all’ambito sportivo il concetto di fair play può essere esteso anche ad altri settori della vita associata laddove, superando il significato di semplice rispetto delle regole, diventa un modo di pensare, oltre che di comportarsi, che esclude l’imbroglio, la furbizia, la violenza, sia fisica che verbale. Fair play è la visione positiva della convivenza civile e dei rapporti tra gli individui; è considerare chi è diverso da me non come un nemico da combattere o emarginare, ma come persona degna di manifestare la propria personalità e realizzare le proprie aspettative.
Un’altra espressione inglese entrata a far parte del nostro vocabolario è politically correct, che la nostra lingua traduce letteralmente “politicamente corretto”. Si intende con essa l’uso di un linguaggio che evita termini discriminatori; nei discorsi, nei messaggi sia scritti che orali, vengono bandite quelle parole o definizioni che fanno riferimento a pregiudizi inerenti le caratteristiche fisiche o somatiche, la provenienza etnica, l’inclinazione sessuale, l’appartenenza religiosa, ecc. Si preferisce “afroamericano” al posto di “negro”, “diversamente abile” in luogo di “handicappato”, “non udente” invece che “sordo”, ecc.
Se negli anni ’30 negli Stati Uniti d’America veniva imposto questo tipo di linguaggio per fronteggiare le forti spinte razziste che in quella società stavano riemergendo, e soprattutto in ambito universitario si cercava di scoraggiare l’uso di espressioni offensive verso gli studenti di colore imponendo sanzioni e richiami a chi non rispettava il codice di condotta verbale, oggi, in una società globalizzata, l’uso convinto del linguaggio politically correct dovrebbe essere prassi abituale.
Se limitarsi ad un linguaggio privo di epiteti offensivi può apparire una forma di ipocrisia in quanto i reali problemi di emarginazione e ghettizzazione delle persone non vengono rimossi, il suo utilizzo è tuttavia un primo passo verso il superamento delle tante barriere che si interpongono tra gli esseri umani, perché dimostra il rispetto e la volontà di dialogo. ☺
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