barbari
13 Aprile 2010 Share

barbari

 

Che cosa c’entri uno studio sulla politica romana imperiale in una rubrica di educazione alla mondialità, è domanda scontata. Ma scontata diventa anche la risposta se appena appena ci avviciniamo al sottotitolo di questo corposo volume di Alessandro Barbero, che dice proprio così: Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano (Laterza, 2006). Ancora dubbi? Proviamo a chiarirli.

Queste 333 pagine sono innanzitutto una chance – voce timida ma profetica di una nuova storiografia che ha dichiarato battaglia all’etnocentrismo e ai manuali di storia zeppi di vecchi stereotipi -, una chance data ad una visione interculturale della storia, in cui gli schemi mentali pregiudiziali e irrigiditi che hanno nutrito le mense di generazioni di studenti (gli amerindi ingenui e sempliciotti, il sesso forte unico protagonista della rivoluzione neolitica, e tanto altro) stanno cedendo il passo ad un esame più complesso, sfaccettato e disposto a debiti di riconoscenza nei confronti di molte categorie penalizzate da errori storici, da malafede etnocentrica, da presunta superiorità culturale dell’occidente. E, fra queste, i barbari. Appunto. Alias i rozzi, incolti e inferociti responsabili del crollo del più grande impero dell’antichità, anzi dell’Impero per antonomasia, cui tutti gli statisti, i re, i dittatori del futuro non potranno fare a meno di guardare, rubandone qualche simbolo, imitandone qualche movenza, per suggellare il proprio successo e dargli quell’aria di immortalità che Roma, solo, ha posseduto.

Bando alle ciance e torniamo a noi, alla scottante attualità che un libro siffatto porta con sé, un libro che guarda ai barbari come a uomini colti e civili, che rovescia molti luoghi comuni e ne parla come “immigrati, profughi e deportati” anziché come semplici distruttori. “Un mondo che si considera prospero e civile, segnato da diseguaglianze e squilibri al suo interno, ma forte di un’amministrazione stabile e di un’economia integrata; all’esterno, popoli costretti a sopravvivere con risorse insufficienti, minacciati dalla fame e dalla guerra, e che sempre più spesso chiedono di entrare; una frontiera militarizzata per filtrare profughi e immigrati; e autorità di governo che debbono decidere volta per volta il comportamento da tenere verso queste emergenze, con una gamma di opzioni che va dall’allontanamento forzato all’acco- glienza in massa, dalla fissazione di quote d’ingresso all’offerta di aiuti umanitari e di posti di lavoro. Potrebbe sembrare una descrizione del nostro mondo, e invece è la situazione in cui per secoli si trovò l’impero romano di fronte ai barbari, prima che si esaurisse, con conseguenze catastrofiche, la sua capacità di gestire in modo controllato la sfida dell’immigrazione”. Controllato e umano, ci viene subito da pensare, oggi e in un’Italia in cui la politica verso gli immigrati ha un retrogusto amaro, espulsivo, intollerante, che evoca pessimi ricordi; in cui un centinaio di italiani (non saranno l’Italia, ma per essere italiani lo sono abbastanza da far vergognare tutti di esserlo), in una tiepida, ottobrina domenica calcistica si sentono liberi di inneggiare a Mussolini e ostentano, esibiscono senza pudore un marziale saluto fascista; un’Italia in cui Emmanuel Bonsu racconta con un occhio pesto l’insana aggressione che gli hanno riservato dei poliziotti, e pochi giorni dopo una donna somala viene scambiata per un corriere della droga, denudata, oltraggiata e umiliata a Ciampino; e pochi giorni prima un giovane resta ucciso per aver rubacchiato una confezione di biscotti. Nero, anche lui, in quest’Italia dove… dove basta così, perché è troppo deprimente, allarmante, disgustoso snocciolare le quotidiane avvisaglie di quel pericoloso, rinascente razzismo che è stato anche al centro del recente incontro fra Benedetto XVI e Giorgio Napolitano.  

Il libro di Barbero, per quanto si configuri essenzialmente come un saggio storico, può essere piacevole anche se impegnativa lettura per quanti amino, e non si stanchino, di interrogare il passato ogni volta che ce n’è nuovamente bisogno, alla luce del presente, delle sue emergenze, delle sue pieghe storte e pericolose. È lettura illuminante per quanti hanno imparato – non per colpa loro – che Attila era un rozzo individuo vagante che emetteva suoni inarticolati e si circondava di energumeni primitivi. È lettura di riflessione per quanti credono che la storia non sia una roba polverosa, ma una miniera a cui attingere per un ripensamento proficuo di ciò che è stato e che potrà essere ancora, nonché per capire chi siamo. Historia magistra vitae? Mmm… se è così siamo dei pessimi alunni. Ma, come dice Tahar Ben Jelloun, il razzista alla fin fine è solo uno che ha paura. Paura di chi è diverso da lui, perché non lo conosce, perché non crede in se stesso in maniera libera, serena, pulita. Non abbassiamo la guardia in mezzo a questo popolo di fifoni, che dal passato non impara nulla però costruisce anche asili per i figli degli immigrati – uno, esemplare, è proprio a CastelVolturno, e non saranno molti metri dal sangue lasciato per strada dai sei amici neri caduti per mano della camorra -, che sa sfilare per Abdoul, che – speriamo – saprà resistere a qualunque prezzo a chi, dalle stanze del potere, sta cercando di sfigurare il volto della nostra democrazia e dei diritti umani. ☺

gadelis@libero.it

 

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