C’è posto
13 Febbraio 2023
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C’è posto

Il ‘900 è stato a livello mondiale un secolo di crescente urbanizzazione, tanto che nel 2009 la popolazione delle città ha superato quella rurale. Anche in Italia il processo di concentrazione urbana ha generato spopolamento delle aree rurali, accentuato dalla conformazione della penisola, prevalentemente collinare e montuosa e da un modello di sviluppo polarizzante in termini di attività produttive e servizi, basato prima sull’industrializzazione e poi sulla terziarizzazione dell’economia e dell’occupazione, trascurando l’agricoltura e le altre attività legate al territorio e alla natura. Ciò ha generato squilibri e disuguaglianze, delle quali ci siamo occupati in tanti articoli de la fonte.

C’è stato un tempo (specialmente gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso) in cui la popolazione italiana totale aumentava, mentre gran parte del Paese – quello delle campagne e dei paesi – si spopolava. Così è stato grosso modo fino al 1980. Oggi, invece, diminuiscono entrambe: la popolazione urbana e quella rurale. Nel complesso l’Italia può mantenere il suo livello demografico solo grazie all’immigrazione, altrimenti il declino sarebbe ancora più pronunciato.

Ma lo squilibrio resta. Abbiano città fitte e aree metropolitane densamente abitate, mentre sulla maggioranza del territorio ci sono campagne e paesi svuotati, come si fossero allontanati perfino dallo sguardo, alle prese con la rarefazione delle opportunità e la perdita dei servizi essenziali, comuni che in 70 anni hanno visto dimezzare e a volte decimare i propri abitanti: non uno sterminio, ma un processo graduale di logoramento, una lunga agonia e in qualche caso la morte. Potremmo fare molti esempi, dalla Sicilia alla Liguria seguendo la dorsale appenninica, dal Piemonte al Friuli nelle valli più appartate dell’arco alpino, dalla Sardegna alla Toscana nelle colline più interne e perfino nelle poche pianure, nel corpo profondo della Padania o della Puglia, con il Molise che appare l’esempio più classico di questa dinamica ormai quasi secolare.

Qui il tema principale è diventato lo spopolamento. Eppure, il declino demografico non sarebbe automaticamente un dato negativo, se fosse stato accompagnato da politiche adeguate. Esso diventa, come in effetti è diventato, un problema grave se continuiamo a togliere servizi e opportunità dove si resta in pochi. E, purtroppo, è quello che è successo: quando in un paese diminuiscono gli abitanti, invece di rafforzare i servizi e incentivare il lavoro, si sono cominciate a chiudere le scuole, a cancellare i trasporti, a sottrarre ambulatori, uffici postali, negozi e attività artigianali. Con il risultato del tutto prevedibile che lo spopolamento è continuato e anzi si è accelerato. Sono state le disuguaglianze a spingere via le persone, ad alimentare l’abbandono delle campagne e a disabitare i mille e mille paesi d’Italia. L’ esodo non ci sarebbe stato se le politiche avessero rispettato il principio dell’uguaglianza, peraltro sancito a chiare lettere dalla nostra Costituzione. Uguaglianza nei diritti – a partire dal lavoro, dalla salute, dall’istruzione, dalla mobilità – e nelle condizioni di vita delle persone, dai giovani agli anziani.

Ci sono state politiche mancate e/o politiche sbagliate, succubi dell’economia e del mito ormai tramontato della crescita, sorde ai valori ambientali e territoriali, ancorate a parametri economici e quantitativi anziché al benessere sociale, alla coesione territoriale e al bene comune. Timidamente, nell’ultimo decennio si è provato a invertire la rotta con la Strategia aree interne (SNAI), con la legge a favore dei piccoli comuni e poco altro (il PNRR no, quello non servirà a ridurre le disuguaglianze, anzi rischia di aumentarle). Ma siamo ancora in tempo? Sicuramente è tardi, ma non è mai troppo tardi.

L’altra domanda è: possiamo, tramite politiche finalmente adeguate, far diventare lo spopolamento un’occasione, anziché un limite? Si possono adottare varie griglie di lettura per osservare la geografia delle disuguaglianze. Una di questa è la densità demografica, strettamente correlata alla disponibilità di spazio: dagli oltre 7.000 abitanti per chilometro quadrato di Milano o di Napoli ai 10 o 20 di molti comuni delle aree interne, da quelli alpini del Piemonte o della Lombardia a quelli appenninici del Centro Sud e delle Isole, ma anche a zone collinari diffuse, come quelle del Molise, dell’Abruzzo o della Basilicata. In taluni Comuni la densità scende addirittura al di sotto dei 10 ab./kmq., come a Provvidenti (Cb), a Montelapiano (Ch) o a San Paolo Albanese (Pz), tanto per fare alcuni esempi (dati ISTAT 2021). È ovvio che c’è più spazio a Casacalenda che a Roma, a Montieri piuttosto che a Firenze, tanto per fare altri esempi. Lo spazio è una risorsa utile alla qualità della vita, rara nelle città, abbondante nell’Italia rurale. Ma lo spazio pro-capite non è un indicatore considerato per le classifiche tanto care al modello economico dominante, dunque neanche nelle politiche. Eppure, quello spazio non è il vuoto, il niente, come potrebbe indurci a pensare la narrazione corrente della società dei consumi e dei media. Dare valore allo spazio e ai connessi stili di vita possibili nelle aree interne, al rapporto con la natura, al protagonismo individuale e comunitario, al di fuori dei modelli omologanti del tutto e subito: è questa la via per affrontare anche il problema delle disuguaglianze e per riabitare i luoghi con consapevolezza e soddisfazione. Ma per farlo occorre riportare servizi (cioè diritti), restituire il maltolto, uscire da una logica solo commerciale e/o numerica. Come diceva Aldo Fabrizi in un vecchio film anticipatore del neorealismo, potremmo lanciare un bel programma intitolato: Avanti, c’è posto!☺

 

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