La parola inglese rumour [pronuncia: rumor], che sentiamo utilizzare con disinvoltura da nostri connazionali, non traduce l’italiano “rumore”, come istintivamente saremmo portati a fare. Rumour è uno di quei vocaboli detti “falsi amici”: simili per suono e/o grafia alla nostra lingua, non hanno però lo stesso significato, e spesso possono creare confusione o fraintendimento.
Il largo uso del termine, specie in ambito giornalistico – carta stampata e televisione – è davanti ai nostri occhi di lettori e ancor più, in quanto ascoltatori dei media, risuona alle nostre orecchie, sollecitando qualche riflessione. Etimologicamente rumour è una parola che l’inglese ha preso dal latino (rumor-rumoris) nella sua accezione di “diceria, chiacchiera”; non ha quindi il significato di “rumore” che per gli anglosassoni è invece noise [pronuncia: nois].
Troppo spesso veniamo raggiunti da notizie che poi non vengono confermate o sono addirittura smentite perché non rispondono al vero. E sempre più il nostro spirito di fruitori dell’informazione cede alla lusinga delle chiacchiere o del pettegolezzo, invece di pretendere la corretta lettura dei fatti. È indispensabile però evitare di ridurre ogni cosa al livello di diceria: non si possono sottovalutare e liquidare come voci infondate anche quelle relative a gravi comportamenti di persone che ricoprono cariche pubbliche, per asservirsi al “potente” di turno.
Le voci messe in giro, le notizie che non hanno ancora ricevuto l’ufficialità, le dicerie che in ogni ambiente trovano ampio spazio: questi sono i rumours che il mondo dell’informazione utilizza, suscitando aspettative e servendosene per il consenso e il plauso dei lettori/ascoltatori. In una intervista lo studioso di linguistica Tullio De Mauro afferma: “Nel periodo in cui ho fatto il ministro ho verificato, direttamente, l’incuria del nostro sistema d’informazione, l’imprecisione con la quale si danno le notizie. In qualche caso era evidente un desiderio di deformazione, la voluntas nocendi [volontà di nuocere], come dicevano i latini… nella gran parte delle occasioni mi sono imbattuto in cronache approssimative e senza considerazione per i dati di fatto”. Sembra comodo ricorrere a queste “notizie approssimative”, alle chiacchiere che circolano anche immotivatamente: si riesce a catturare l’attenzione, a stupire o semplicemente a disinformare un pubblico ignaro!
Diffondere rumours, in attesa di conferma o paventando scenari allarmanti, è l’ultimo passaggio di un sistema di comunicazione che attualmente sta imperversando: controllare ciò che viene veicolato dai mezzi di informazione perché venga fornita un’immagine piuttosto che un’altra dei fatti; dirottare l’attenzione verso aspetti irrilevanti di un problema; edulcorare ciò che viene affermato in modo da non suscitare apprensione o indignazione.
Viene da chiedersi: è questa la comunicazione autentica? L’informazione, che dovrebbe esserne la diretta espressione, e che invece utilizza la prospettiva dell’approssimazione e della manipolazione delle notizie, quanto risulterà aderente alla realtà dei fatti?
Da persona di scuola confesso di aver avvertito non poche perplessità a seguito di una recente affermazione del Ministro dell’Istruzione, intenta forse più a difendere un “governo alla frutta” piuttosto che occuparsi del proprio dicastero. A suo dire, discipline quali le scienze della comunicazione – indirizzo di studio cui oggi molti studenti intendono dedicarsi – avrebbero scarso valore, anzi sarebbero del tutto inutili! Sarà stato magari un lapsus della superimpegnata Gelmini, ma avrebbe potuto esprimersi in maniera diversa, perché indipendentemente dalla valutazione che ognuno può dare del suddetto corso di laurea, credo che non si possa dimenticare che la comunicazione è fondamentale in una società!
A cosa dovrebbe servire la scuola se non a formare persone e “cittadini” capaci di vivere insieme agli altri? Come si apprendono regole, comportamenti, informazioni se non attraverso la comunicazione? Le giovani generazioni che transitano tra i banchi di scuola non dovrebbero fare altro che impossessarsi di quegli strumenti essenziali per entrare in relazione con il mondo esterno, con le altre persone, con i propri problemi esistenziali, con le culture diverse dalla propria.
Soltanto un modo di comunicare efficace, a partire dalla condizione reale di ognuno, delle priorità e dei bisogni, offrirebbe loro le giuste opportunità di inserimento nella comunità civile. Altro che rumours!☺
dario.carlone@tiscali.it
La parola inglese rumour [pronuncia: rumor], che sentiamo utilizzare con disinvoltura da nostri connazionali, non traduce l’italiano “rumore”, come istintivamente saremmo portati a fare. Rumour è uno di quei vocaboli detti “falsi amici”: simili per suono e/o grafia alla nostra lingua, non hanno però lo stesso significato, e spesso possono creare confusione o fraintendimento.
Il largo uso del termine, specie in ambito giornalistico – carta stampata e televisione – è davanti ai nostri occhi di lettori e ancor più, in quanto ascoltatori dei media, risuona alle nostre orecchie, sollecitando qualche riflessione. Etimologicamente rumour è una parola che l’inglese ha preso dal latino (rumor-rumoris) nella sua accezione di “diceria, chiacchiera”; non ha quindi il significato di “rumore” che per gli anglosassoni è invece noise [pronuncia: nois].
Troppo spesso veniamo raggiunti da notizie che poi non vengono confermate o sono addirittura smentite perché non rispondono al vero. E sempre più il nostro spirito di fruitori dell’informazione cede alla lusinga delle chiacchiere o del pettegolezzo, invece di pretendere la corretta lettura dei fatti. È indispensabile però evitare di ridurre ogni cosa al livello di diceria: non si possono sottovalutare e liquidare come voci infondate anche quelle relative a gravi comportamenti di persone che ricoprono cariche pubbliche, per asservirsi al “potente” di turno.
Le voci messe in giro, le notizie che non hanno ancora ricevuto l’ufficialità, le dicerie che in ogni ambiente trovano ampio spazio: questi sono i rumours che il mondo dell’informazione utilizza, suscitando aspettative e servendosene per il consenso e il plauso dei lettori/ascoltatori. In una intervista lo studioso di linguistica Tullio De Mauro afferma: “Nel periodo in cui ho fatto il ministro ho verificato, direttamente, l’incuria del nostro sistema d’informazione, l’imprecisione con la quale si danno le notizie. In qualche caso era evidente un desiderio di deformazione, la voluntas nocendi [volontà di nuocere], come dicevano i latini… nella gran parte delle occasioni mi sono imbattuto in cronache approssimative e senza considerazione per i dati di fatto”. Sembra comodo ricorrere a queste “notizie approssimative”, alle chiacchiere che circolano anche immotivatamente: si riesce a catturare l’attenzione, a stupire o semplicemente a disinformare un pubblico ignaro!
Diffondere rumours, in attesa di conferma o paventando scenari allarmanti, è l’ultimo passaggio di un sistema di comunicazione che attualmente sta imperversando: controllare ciò che viene veicolato dai mezzi di informazione perché venga fornita un’immagine piuttosto che un’altra dei fatti; dirottare l’attenzione verso aspetti irrilevanti di un problema; edulcorare ciò che viene affermato in modo da non suscitare apprensione o indignazione.
Viene da chiedersi: è questa la comunicazione autentica? L’informazione, che dovrebbe esserne la diretta espressione, e che invece utilizza la prospettiva dell’approssimazione e della manipolazione delle notizie, quanto risulterà aderente alla realtà dei fatti?
Da persona di scuola confesso di aver avvertito non poche perplessità a seguito di una recente affermazione del Ministro dell’Istruzione, intenta forse più a difendere un “governo alla frutta” piuttosto che occuparsi del proprio dicastero. A suo dire, discipline quali le scienze della comunicazione – indirizzo di studio cui oggi molti studenti intendono dedicarsi – avrebbero scarso valore, anzi sarebbero del tutto inutili! Sarà stato magari un lapsus della superimpegnata Gelmini, ma avrebbe potuto esprimersi in maniera diversa, perché indipendentemente dalla valutazione che ognuno può dare del suddetto corso di laurea, credo che non si possa dimenticare che la comunicazione è fondamentale in una società!
A cosa dovrebbe servire la scuola se non a formare persone e “cittadini” capaci di vivere insieme agli altri? Come si apprendono regole, comportamenti, informazioni se non attraverso la comunicazione? Le giovani generazioni che transitano tra i banchi di scuola non dovrebbero fare altro che impossessarsi di quegli strumenti essenziali per entrare in relazione con il mondo esterno, con le altre persone, con i propri problemi esistenziali, con le culture diverse dalla propria.
Soltanto un modo di comunicare efficace, a partire dalla condizione reale di ognuno, delle priorità e dei bisogni, offrirebbe loro le giuste opportunità di inserimento nella comunità civile. Altro che rumours!☺
La parola inglese rumour [pronuncia: rumor], che sentiamo utilizzare con disinvoltura da nostri connazionali, non traduce l’italiano “rumore”, come istintivamente saremmo portati a fare. Rumour è uno di quei vocaboli detti “falsi amici”: simili per suono e/o grafia alla nostra lingua, non hanno però lo stesso significato, e spesso possono creare confusione o fraintendimento.
Il largo uso del termine, specie in ambito giornalistico – carta stampata e televisione – è davanti ai nostri occhi di lettori e ancor più, in quanto ascoltatori dei media, risuona alle nostre orecchie, sollecitando qualche riflessione. Etimologicamente rumour è una parola che l’inglese ha preso dal latino (rumor-rumoris) nella sua accezione di “diceria, chiacchiera”; non ha quindi il significato di “rumore” che per gli anglosassoni è invece noise [pronuncia: nois].
Troppo spesso veniamo raggiunti da notizie che poi non vengono confermate o sono addirittura smentite perché non rispondono al vero. E sempre più il nostro spirito di fruitori dell’informazione cede alla lusinga delle chiacchiere o del pettegolezzo, invece di pretendere la corretta lettura dei fatti. È indispensabile però evitare di ridurre ogni cosa al livello di diceria: non si possono sottovalutare e liquidare come voci infondate anche quelle relative a gravi comportamenti di persone che ricoprono cariche pubbliche, per asservirsi al “potente” di turno.
Le voci messe in giro, le notizie che non hanno ancora ricevuto l’ufficialità, le dicerie che in ogni ambiente trovano ampio spazio: questi sono i rumours che il mondo dell’informazione utilizza, suscitando aspettative e servendosene per il consenso e il plauso dei lettori/ascoltatori. In una intervista lo studioso di linguistica Tullio De Mauro afferma: “Nel periodo in cui ho fatto il ministro ho verificato, direttamente, l’incuria del nostro sistema d’informazione, l’imprecisione con la quale si danno le notizie. In qualche caso era evidente un desiderio di deformazione, la voluntas nocendi [volontà di nuocere], come dicevano i latini… nella gran parte delle occasioni mi sono imbattuto in cronache approssimative e senza considerazione per i dati di fatto”. Sembra comodo ricorrere a queste “notizie approssimative”, alle chiacchiere che circolano anche immotivatamente: si riesce a catturare l’attenzione, a stupire o semplicemente a disinformare un pubblico ignaro!
Diffondere rumours, in attesa di conferma o paventando scenari allarmanti, è l’ultimo passaggio di un sistema di comunicazione che attualmente sta imperversando: controllare ciò che viene veicolato dai mezzi di informazione perché venga fornita un’immagine piuttosto che un’altra dei fatti; dirottare l’attenzione verso aspetti irrilevanti di un problema; edulcorare ciò che viene affermato in modo da non suscitare apprensione o indignazione.
Viene da chiedersi: è questa la comunicazione autentica? L’informazione, che dovrebbe esserne la diretta espressione, e che invece utilizza la prospettiva dell’approssimazione e della manipolazione delle notizie, quanto risulterà aderente alla realtà dei fatti?
Da persona di scuola confesso di aver avvertito non poche perplessità a seguito di una recente affermazione del Ministro dell’Istruzione, intenta forse più a difendere un “governo alla frutta” piuttosto che occuparsi del proprio dicastero. A suo dire, discipline quali le scienze della comunicazione – indirizzo di studio cui oggi molti studenti intendono dedicarsi – avrebbero scarso valore, anzi sarebbero del tutto inutili! Sarà stato magari un lapsus della superimpegnata Gelmini, ma avrebbe potuto esprimersi in maniera diversa, perché indipendentemente dalla valutazione che ognuno può dare del suddetto corso di laurea, credo che non si possa dimenticare che la comunicazione è fondamentale in una società!
A cosa dovrebbe servire la scuola se non a formare persone e “cittadini” capaci di vivere insieme agli altri? Come si apprendono regole, comportamenti, informazioni se non attraverso la comunicazione? Le giovani generazioni che transitano tra i banchi di scuola non dovrebbero fare altro che impossessarsi di quegli strumenti essenziali per entrare in relazione con il mondo esterno, con le altre persone, con i propri problemi esistenziali, con le culture diverse dalla propria.
Soltanto un modo di comunicare efficace, a partire dalla condizione reale di ognuno, delle priorità e dei bisogni, offrirebbe loro le giuste opportunità di inserimento nella comunità civile. Altro che rumours!☺
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