Coabitare
7 Gennaio 2020
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Coabitare

“Noi oggi erriamo per la dimora del mondo cui manca l’amico di casa” (Heidegger in Hebel, l’amico di casa).

Nella maggior parte delle lingue indoeuropee gli esseri umani sono detti “terrestri” perché hanno la loro dimora sulla superficie della terra, non su altri pianeti, né nelle profondità acquatiche, neanche nelle rarefatte altezze celesti. Nel racconto biblico di terra sono plasmati; così dal latino humus (terra) vengono homo e humanus. I miti nelle età più remote, pur nella varietà delle versioni, narrano la nascita degli uomini dalla Terra-Madre. Per quanto si usi parlare del presente come di un mondo “post-moderno” siamo però intrisi della mente predatrice che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo della modernità europea. Una scelta devastante compiuta dalla cultura europea fu la convinzione che gli indios non erano uomini, che i neri si potevano trarre come schiavi, che gli operai – come dirà Locke all’inizio della rivoluzione industriale – non erano in grado di ragionare meglio degli indigeni e cominciò così l’età degli imperi e dei genocidi fino a Hitler ed anche oltre. Certo ci sono stati anche salti di qualità e grandi scelte compiute dalle rivoluzioni moderne, quella americana e francese, quella del costituzionalismo postbellico e delle carte internazionali dei diritti; c’é, infine, per i cattolici nostrani la novità del Concilio Vaticano II. Nonostante tutti i salti di qualità la cultura dello scarto e il rifiuto dell’altro impera come papa Francesco denuncia. Da noi lo scontro sul cuore dello Stato si é fatto durissimo: a settant’anni dal parto in cui é nato il nostro Stato, sta venendo a galla la sfida se debba mantenere un cuore di carne o trapiantarsi un cuore di pietra. Si potrebbe definire uno scontro sull’identità: infatti porti chiusi o aperti, bambini discriminati fin dall’asilo, stranieri gettati nel gorgo perché “solo gli italiani”, decreti sicurezza, ecc. non sono un cambio della politica ma sono un cambio dell’essere. Il paese che voleva dare una lezione all’Europa, si fa lacchè dell’Europa sigillandone i confini meridionali e armandone sul mare l’apartheid.

Oggi siamo ad una scelta sapendo però che ne va della integrità o della frantumazione del mondo. La scelta primaria dell’umanità unita come soggetto politico e autore della storia; la scelta di una vera globalizzazione, non del denaro e dei traffici, ma degli uomini e delle donne di spirito e di carne, porti aperti e mura abbattute non merce verso frontiere serrate o barconi doloranti di migranti e naufraghi non più salvati per il divieto dei governi. Fin dall’antica Grecia alcuni filosofi come Diogene di Sinope si dichiararono “cittadini del mondo”, cosmopoliti dove si concentrano in unità piena polìtes e kòsmos (cittadinanza e mondo).

Ma il vero problema é il gher, lo “straniero residente” dell’antica Bibbia ebraica che varca il confine, la frontiera e la fa implodere, avvicinando “residenza” e “ospitalità” nella figura dello straniero. Non si tratta di essere proclamati “cittadini” o “cittadini del mondo”, bensì di andare oltre, in quello spazio comune dove si può coabitare; questo importa: coabitare. Chi ha subìto le sevizie della guerra, chi ha sopportato la fame, la miseria non chiede di circolare liberamente dove che sia, spera piuttosto, al termine del suo cammino, di giungere là dove il mondo possa di nuovo essere dimora comune. Non pretende di unirsi alla comunità dei “cittadini” – se vorrà lo chiederà – ma si aspetta di poter coabitare con altri. Se la paura è il vincolo che regge la comunità, l’accoglienza è impossibile. Questo è l’effetto esiziale che ha prodotto il distacco tra “ospitalità” ed “emigrazione”. Come se bastasse sbandierare la purezza etica dell’ospitalità, evitando di “contaminarsi” con la presenza dell’emigrante, dando il fianco ad ogni sorta di critica denigratoria contro l’umanismo buonista. Prossimità non voluta e coabitazione non scelta sono le precondizioni dell’esistenza politica. Si può scegliere con chi convivere, con chi condividere il proprio tetto o il proprio vicinato, ma non si può scegliere con chi coabitare. Coabitare la terra impone l’obbligo permanente e irrevocabile di coesistere con tutti coloro che, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti. Il gesto discriminatorio rivendica per sé il luogo in modo esclusivo. Riconoscere la precedenza dell’altro nel luogo in cui è dato abitare vuol dire aprirsi non solo ad un’etica della prossimità, ma anche ad una politica della coabitazione. Il “con” va inteso in senso pieno: oltre a “partecipazione” indica anche “simultanei- tà”. In un mondo attraversato da tanti esìli, coabitare significa condividere la prossimità spaziale in una convergenza temporale, dove il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro.

Si ripropone pertanto una situazione che ripete la denuncia finale della Arendt in La banalità del male “Ecco il crimine in tutta la sua abissale mostruosità: aver preteso di stabilire con chi coabitare”. Che vuol dire che chiunque con la propria esistenza mettesse a repentaglio l’omogeneità della nazione dovrebbe essere eliminato. Arendt conclude la sua personale condanna di Eichmann dichiarando: “La politica non è un gioco infantile: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare sulla terra con il popolo ebraico e varie altre nazioni (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano, desideri coabitare con te. Per questo e solo per questo, tu devi essere impiccato” (Hanna Arendt La banalità del male, pp. 183-184).☺

 

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