Fede e riti
18 Giugno 2020
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Fede e riti

“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Queste parole mi sono tornate spesso in mente nel periodo di lockdown, quando si discuteva sulla riapertura delle chiese perché, si diceva, è altrettanto necessario per il credente (cattolico) nutrirsi dell’eucaristia quanto fare la carità. Nelle parole di Gesù invece, nella più classica tradizione profetica, io vedo una contrapposizione tra il rivolgersi a Dio e il compiere la sua volontà. È strano che Gesù qui non faccia lo stesso ragionamento che fa paragonando alcuni precetti della Legge: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’aneto e sul cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle” (Mt 23,23). In realtà in altri momenti, citando i profeti, contrappone la pratica della parte cultuale della Legge a quella etica: “Se aveste compreso che cosa significa: misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa” (Mt 12,7). Ma il contrasto è solo apparente, perché ancora una volta Gesù oppone al culto la pratica della giustizia, ciò in cui consiste la volontà del Padre.
Alla luce di ciò che Gesù pensa del rapporto con Dio basato sul culto, possiamo forse farci un’idea dell’inutile crisi in cui la chiesa è entrata in questo periodo di pandemia: se togli il rito cosa rimane al clero e ai fedeli? Certo abbiamo in mente le parole del Concilio che dicono che l’ eucaristia è fonte e culmine dell’agire cristiano. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che questo approccio al rapporto con Dio e Gesù Cristo è frutto di una svolta nella storia cristiana iniziata quasi subito dopo l’epoca del Nuovo Testamento e cristallizzata nell’epoca in cui la chiesa, sempre più associata al potere imperiale, ha sostituito con i propri riti la religione civile dell’impero. Già Giovanni Crisostomo lamentava l’eccessiva cura del culto a scapito della carità, vero segno di identificazione del cristiano, rifacendosi proprio all’insegnamento di Gesù e degli Apostoli che non hanno mai pensato di sostituire dei riti con altri riti, bensì hanno insegnato e agito in modo tale da mostrare che il rito va sostituito dalla vita reale.
In questo tempo di digiuno forzato dai riti sarebbe stata l’occasione per ritornare alle fonti della nostra fede e ricordare ciò che dice Paolo nella lettera ai Romani: “Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto logico (fatto, cioè, secondo ragione)” (12,1). Come anche il rimprovero che fa lo stesso Paolo ai corinzi che, celebrando l’eucaristia, cioè il ricordo delle parole di Gesù all’Ultima Cena, ricordo vissuto nel contesto di un pasto domestico e non all’interno di un luogo di culto, continuano a vivere uno scisma di fatto tra i membri della comunità, scisma basato sulle differenze sociali ed economiche: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco” (1 Cor 11,20-21). Riguardo a questa divisione Paolo più avanti dice che equivale a non riconoscere il corpo del Signore (11,29) che non significa mancare di fede nella presenza reale di Gesù nelle specie eucaristiche, bensì non riconoscere di appartenere tutti a uno stesso corpo che è la chiesa, ricchi e poveri, forti e deboli: basta leggere più avanti, infatti, la descrizione metaforica della chiesa come corpo in 12,12-27. Ancora una volta emerge una critica al sistema rituale in favore dell’assunzione di responsabilità verso il prossimo nella vita concreta. Non si può insomma mettere sullo stesso piano il rito con la giustizia in quanto il rito cristiano non crea la realtà ma la rappresenta. Ecco perché si parla di sacramenti, cioè segni che rappresentano una realtà che però ci deve essere.
La mancanza di riti durante la chiusura forzata non abolisce minimamente la possibilità di continuare ad essere cristiani innanzitutto agendo responsabilmente per evitare la diffusione del contagio e poi prendendosi cura delle vittime sociali e non solo sanitarie di questa tragedia collettiva mondiale, non agognando solo al contentino di riavere la messa che rischia di anestetizzare i cosiddetti credenti solo con un approccio consolatorio alla fede. La preghiera non è la sostituzione della vita ma il luogo dove io ascolto la Parola per fare scelte corrispondenti e la si può leggere anche nel segreto della propria camera, non è necessario per forza ascoltarla durante un rito.
Chiudo con un riferimento alla lettera agli Ebrei, manifesto della deritualizzazione della fede, dove l’autore insiste sul fatto che i riti dell’Antico Testamento sono stati dichiarati aboliti dall’unico sacrificio di Gesù che non ha offerto un animale ma la sua stessa vita. I cristiani, dice la Lettera, non devono ritualizzare di nuovo la morte di Gesù (come invece è avvenuto nella liturgia cristiana) ma fare del bene: “Non dimenticatevi della beneficenza e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (13,16). Ce n’è da fare per vivere la fede senza ridurla ad un rito, soprattutto in tempo di coronavirus.☺

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