Nell’intervento di marzo scorso abbiamo sottolineato il valore significante del “lavoro” e cioè la sua centralità nella cultura costituzionale che è la sintesi delle culture antagonistiche ma sinergiche nel contempo emerse dalla lotta partigiana contro il fascismo che ha appunto dato il via all’età della repubblica democratica fondata sul lavoro.
Tale elemento strutturale, culturale ed ideologico insieme, emerge perfettamente anche dal c. 2, art. 41 C., dove il legislatore indica nello svolgimento del lavoro anche “imprendito- riale” un elemento di “utilità sociale” tale da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il lavoro del soggetto “dipendente” e di quello dell’imprenditore ha una funzione sociale, che deve essere fondata sul bene, la sicurezza e la dignità del lavoratore dipendente; esso così diventa frutto di una intelligente mediazione fra due culture che si sono fronteggiate fin dal momento della lotta resistenziale contro il nazi-fascismo e che poi ha determinato la nascita della Carta costituzionale.
Di qui, la Costituzione si fonda sul lavoro, sulla dignità dello stesso, sul fatto che esso deve garantire a tutti una dignità di vita universalmente riconosciuta; ciò non vuol dire che lo Stato deve dare lavoro a tutti, ma significa che esso deve consentire che tutti abbiano eguali chances per accedere al lavoro, strumento grazie al quale l’individuo afferma la propria personalità e le proprie aspirazioni, legittime ed eguali per tutti e presenti in tutti; pertanto, lo Stato deve impegnarsi perché tutti i cittadini abbiano un posto di lavoro.
Nel Titolo III della prima parte della Costituzione ci sono articoli (dal 35 al 39) dove le disposizioni costituzionali si fanno più specifiche, e tra l’altro riguardano la tutela del lavoro in tutte le sue forme, la proporzionalità della retribuzione in riferimento alla quantità e alla qualità del lavoro, il limite minimo inderogabile tale che sia sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, l’intervento assistenziale e previdenziale dello Stato in caso di infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione involontaria, la tutela del lavoratore attraverso l’organizzazione di un sindacato, la protezione e la salvaguardia della donna lavoratrice nel confronto paritario con il lavoratore maschio e la garanzia costituzionale della “sua essenziale funzione familiare”.
Di qui viene fuori che il compito della Repubblica non è un compito “passivo”, ma sostanzialmente “attivo”, volto a rendere i cittadini partecipi e tutti eguali. Anche in questo caso si segnala quel compromesso politico-culturale, di cui abbiamo parlato prima e che oggi si vuole assolutamente scardinare, sostenendo molti che la situazione culturale, politica, sociale ed economica sia cambiata, che la cultura originaria della fine degli Anni Quaranta-Cinquanta non sia più valida, che dunque vada riletta questa parte della Costituzione e vada ridefinito tutto l’impianto culturale del rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore, nella convinzione che sia il mercato, inteso come un Moloch divino e quindi come una entità aprioristica e superumana, a regolare il rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore e il raggiungimento dei fini che una società si propone di raggiungere.
È partendo da questo contesto socio-politico-culturale che appare in tutta evidenza il tema “doloroso” della cosiddetta “legge Biagi” – nr. 276/2003 -.
Il principio fondamentale che sta alla base della legge “Biagi” è quello di disciplinare il mercato del lavoro attraverso una sua maggiore flessibilizzazione e deregolamentazione, allo scopo molto chiaro di rendere più agevole l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e favorire l’inserimento dei lavoratori nel mercato produttivo. Più in generale, una parte cospicua della dottrina giuridica ha ritenuto (e tuttora ritiene) che la c.d. legge Biagi costituisca un passo (ulteriore) verso l’abrogazione della specialità del diritto del lavoro come disciplina: la dottrina, infatti, sostiene che la particolarità del lavoro sia quella di basarsi su principi diversi rispetto a quelli tipici del diritto civile, che necessitano per forza di cose di maggiore e particolare attenzione.
Il fondamento di tale peculiarità del lavoro è facilmente rinvenibile nel testo costituzionale: infatti, la Carta costituzionale considera il lavoratore – colui che offre la propria forza lavoro in cambio di un salario – come un soggetto svantaggiato nell’ambito del mercato del lavoro, perché sprovvisto del potere contrattuale, che è invece proprio del datore di lavoro. Da questa osservazione deriva, e si spiega, la maggiore presenza, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, di soggetti esterni quali lo Stato, gli Enti territoriali, le associazioni di categoria, ossia i sindacati, e le associazioni industriali e dei datori di lavoro in genere, che pongono dei “paletti” alle libere scelte delle parti contrattuali – padroni e lavoratori con i sindacati di appartenenza – .
Il principio fondante della presenza di “paletti esterni”, che costituiscono la garanzia di difesa per il lavoratore dipendente rispetto alle posizioni talvolta unilaterali del datore di lavoro, si trova direttamente nel testo costituzionale, come nell’art. 36 della C. che prevede che il lavoratore abbia diritto alle ferie e non possa rinunciarvi, qualora si creasse un accordo fra questi e il datore di lavoro in senso contrario.
La giustificazione di questa limitazione alla libertà di contrarre delle parti trova un fondamento nel secondo comma dell’art. 3 della C., che prevede il principio di eguaglianza sostanziale in base al quale lo Stato adotta un comportamento “attivo” allo scopo di eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese. Imporre tali limitazioni alla libertà del datore di lavoro nella contrattazione fra le parti significa difendere la parte più debole (il lavoratore dipendente), ossia impedire che la parte debole sia nei fatti costretta ad accettare condizioni eccessivamente sfavorevoli, in alcuni casi tali da non garantire i diritti fondamentali.
Per fare un esempio calzante rispetto a quanto stiamo dicendo, vogliamo ricordare che l’art. 36 della C. impone una retribuzione minima sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (cosa che oggi è un vero e proprio sogno).
Questa caratteristica generale del diritto del lavoro sembra essere fortemente messa in dubbio dalla riforma “Biagi” che fa invece dell’autonomia contrattuale individuale e della diminuzione dei “paletti” (di cui prima si diceva) imposti in via eteronoma dalla legge costituzionale stessa una sua caratteristica essenziale, ingenerando in più di un caso il dubbio legittimo che il testo costituzionale del 1948 non sia più attuato attraverso questa innovazione legislativa. ☺
bar.novelli@micso.net
Nell’intervento di marzo scorso abbiamo sottolineato il valore significante del “lavoro” e cioè la sua centralità nella cultura costituzionale che è la sintesi delle culture antagonistiche ma sinergiche nel contempo emerse dalla lotta partigiana contro il fascismo che ha appunto dato il via all’età della repubblica democratica fondata sul lavoro.
Tale elemento strutturale, culturale ed ideologico insieme, emerge perfettamente anche dal c. 2, art. 41 C., dove il legislatore indica nello svolgimento del lavoro anche “imprendito- riale” un elemento di “utilità sociale” tale da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il lavoro del soggetto “dipendente” e di quello dell’imprenditore ha una funzione sociale, che deve essere fondata sul bene, la sicurezza e la dignità del lavoratore dipendente; esso così diventa frutto di una intelligente mediazione fra due culture che si sono fronteggiate fin dal momento della lotta resistenziale contro il nazi-fascismo e che poi ha determinato la nascita della Carta costituzionale.
Di qui, la Costituzione si fonda sul lavoro, sulla dignità dello stesso, sul fatto che esso deve garantire a tutti una dignità di vita universalmente riconosciuta; ciò non vuol dire che lo Stato deve dare lavoro a tutti, ma significa che esso deve consentire che tutti abbiano eguali chances per accedere al lavoro, strumento grazie al quale l’individuo afferma la propria personalità e le proprie aspirazioni, legittime ed eguali per tutti e presenti in tutti; pertanto, lo Stato deve impegnarsi perché tutti i cittadini abbiano un posto di lavoro.
Nel Titolo III della prima parte della Costituzione ci sono articoli (dal 35 al 39) dove le disposizioni costituzionali si fanno più specifiche, e tra l’altro riguardano la tutela del lavoro in tutte le sue forme, la proporzionalità della retribuzione in riferimento alla quantità e alla qualità del lavoro, il limite minimo inderogabile tale che sia sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, l’intervento assistenziale e previdenziale dello Stato in caso di infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione involontaria, la tutela del lavoratore attraverso l’organizzazione di un sindacato, la protezione e la salvaguardia della donna lavoratrice nel confronto paritario con il lavoratore maschio e la garanzia costituzionale della “sua essenziale funzione familiare”.
Di qui viene fuori che il compito della Repubblica non è un compito “passivo”, ma sostanzialmente “attivo”, volto a rendere i cittadini partecipi e tutti eguali. Anche in questo caso si segnala quel compromesso politico-culturale, di cui abbiamo parlato prima e che oggi si vuole assolutamente scardinare, sostenendo molti che la situazione culturale, politica, sociale ed economica sia cambiata, che la cultura originaria della fine degli Anni Quaranta-Cinquanta non sia più valida, che dunque vada riletta questa parte della Costituzione e vada ridefinito tutto l’impianto culturale del rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore, nella convinzione che sia il mercato, inteso come un Moloch divino e quindi come una entità aprioristica e superumana, a regolare il rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore e il raggiungimento dei fini che una società si propone di raggiungere.
È partendo da questo contesto socio-politico-culturale che appare in tutta evidenza il tema “doloroso” della cosiddetta “legge Biagi” – nr. 276/2003 -.
Il principio fondamentale che sta alla base della legge “Biagi” è quello di disciplinare il mercato del lavoro attraverso una sua maggiore flessibilizzazione e deregolamentazione, allo scopo molto chiaro di rendere più agevole l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e favorire l’inserimento dei lavoratori nel mercato produttivo. Più in generale, una parte cospicua della dottrina giuridica ha ritenuto (e tuttora ritiene) che la c.d. legge Biagi costituisca un passo (ulteriore) verso l’abrogazione della specialità del diritto del lavoro come disciplina: la dottrina, infatti, sostiene che la particolarità del lavoro sia quella di basarsi su principi diversi rispetto a quelli tipici del diritto civile, che necessitano per forza di cose di maggiore e particolare attenzione.
Il fondamento di tale peculiarità del lavoro è facilmente rinvenibile nel testo costituzionale: infatti, la Carta costituzionale considera il lavoratore – colui che offre la propria forza lavoro in cambio di un salario – come un soggetto svantaggiato nell’ambito del mercato del lavoro, perché sprovvisto del potere contrattuale, che è invece proprio del datore di lavoro. Da questa osservazione deriva, e si spiega, la maggiore presenza, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, di soggetti esterni quali lo Stato, gli Enti territoriali, le associazioni di categoria, ossia i sindacati, e le associazioni industriali e dei datori di lavoro in genere, che pongono dei “paletti” alle libere scelte delle parti contrattuali – padroni e lavoratori con i sindacati di appartenenza – .
Il principio fondante della presenza di “paletti esterni”, che costituiscono la garanzia di difesa per il lavoratore dipendente rispetto alle posizioni talvolta unilaterali del datore di lavoro, si trova direttamente nel testo costituzionale, come nell’art. 36 della C. che prevede che il lavoratore abbia diritto alle ferie e non possa rinunciarvi, qualora si creasse un accordo fra questi e il datore di lavoro in senso contrario.
La giustificazione di questa limitazione alla libertà di contrarre delle parti trova un fondamento nel secondo comma dell’art. 3 della C., che prevede il principio di eguaglianza sostanziale in base al quale lo Stato adotta un comportamento “attivo” allo scopo di eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese. Imporre tali limitazioni alla libertà del datore di lavoro nella contrattazione fra le parti significa difendere la parte più debole (il lavoratore dipendente), ossia impedire che la parte debole sia nei fatti costretta ad accettare condizioni eccessivamente sfavorevoli, in alcuni casi tali da non garantire i diritti fondamentali.
Per fare un esempio calzante rispetto a quanto stiamo dicendo, vogliamo ricordare che l’art. 36 della C. impone una retribuzione minima sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (cosa che oggi è un vero e proprio sogno).
Questa caratteristica generale del diritto del lavoro sembra essere fortemente messa in dubbio dalla riforma “Biagi” che fa invece dell’autonomia contrattuale individuale e della diminuzione dei “paletti” (di cui prima si diceva) imposti in via eteronoma dalla legge costituzionale stessa una sua caratteristica essenziale, ingenerando in più di un caso il dubbio legittimo che il testo costituzionale del 1948 non sia più attuato attraverso questa innovazione legislativa. ☺
Nell’intervento di marzo scorso abbiamo sottolineato il valore significante del “lavoro” e cioè la sua centralità nella cultura costituzionale che è la sintesi delle culture antagonistiche ma sinergiche nel contempo emerse dalla lotta partigiana contro il fascismo che ha appunto dato il via all’età della repubblica democratica fondata sul lavoro.
Tale elemento strutturale, culturale ed ideologico insieme, emerge perfettamente anche dal c. 2, art. 41 C., dove il legislatore indica nello svolgimento del lavoro anche “imprendito- riale” un elemento di “utilità sociale” tale da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il lavoro del soggetto “dipendente” e di quello dell’imprenditore ha una funzione sociale, che deve essere fondata sul bene, la sicurezza e la dignità del lavoratore dipendente; esso così diventa frutto di una intelligente mediazione fra due culture che si sono fronteggiate fin dal momento della lotta resistenziale contro il nazi-fascismo e che poi ha determinato la nascita della Carta costituzionale.
Di qui, la Costituzione si fonda sul lavoro, sulla dignità dello stesso, sul fatto che esso deve garantire a tutti una dignità di vita universalmente riconosciuta; ciò non vuol dire che lo Stato deve dare lavoro a tutti, ma significa che esso deve consentire che tutti abbiano eguali chances per accedere al lavoro, strumento grazie al quale l’individuo afferma la propria personalità e le proprie aspirazioni, legittime ed eguali per tutti e presenti in tutti; pertanto, lo Stato deve impegnarsi perché tutti i cittadini abbiano un posto di lavoro.
Nel Titolo III della prima parte della Costituzione ci sono articoli (dal 35 al 39) dove le disposizioni costituzionali si fanno più specifiche, e tra l’altro riguardano la tutela del lavoro in tutte le sue forme, la proporzionalità della retribuzione in riferimento alla quantità e alla qualità del lavoro, il limite minimo inderogabile tale che sia sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia, l’intervento assistenziale e previdenziale dello Stato in caso di infortunio, malattia, vecchiaia, disoccupazione involontaria, la tutela del lavoratore attraverso l’organizzazione di un sindacato, la protezione e la salvaguardia della donna lavoratrice nel confronto paritario con il lavoratore maschio e la garanzia costituzionale della “sua essenziale funzione familiare”.
Di qui viene fuori che il compito della Repubblica non è un compito “passivo”, ma sostanzialmente “attivo”, volto a rendere i cittadini partecipi e tutti eguali. Anche in questo caso si segnala quel compromesso politico-culturale, di cui abbiamo parlato prima e che oggi si vuole assolutamente scardinare, sostenendo molti che la situazione culturale, politica, sociale ed economica sia cambiata, che la cultura originaria della fine degli Anni Quaranta-Cinquanta non sia più valida, che dunque vada riletta questa parte della Costituzione e vada ridefinito tutto l’impianto culturale del rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore, nella convinzione che sia il mercato, inteso come un Moloch divino e quindi come una entità aprioristica e superumana, a regolare il rapporto fra il lavoratore e l’imprenditore e il raggiungimento dei fini che una società si propone di raggiungere.
È partendo da questo contesto socio-politico-culturale che appare in tutta evidenza il tema “doloroso” della cosiddetta “legge Biagi” – nr. 276/2003 -.
Il principio fondamentale che sta alla base della legge “Biagi” è quello di disciplinare il mercato del lavoro attraverso una sua maggiore flessibilizzazione e deregolamentazione, allo scopo molto chiaro di rendere più agevole l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e favorire l’inserimento dei lavoratori nel mercato produttivo. Più in generale, una parte cospicua della dottrina giuridica ha ritenuto (e tuttora ritiene) che la c.d. legge Biagi costituisca un passo (ulteriore) verso l’abrogazione della specialità del diritto del lavoro come disciplina: la dottrina, infatti, sostiene che la particolarità del lavoro sia quella di basarsi su principi diversi rispetto a quelli tipici del diritto civile, che necessitano per forza di cose di maggiore e particolare attenzione.
Il fondamento di tale peculiarità del lavoro è facilmente rinvenibile nel testo costituzionale: infatti, la Carta costituzionale considera il lavoratore – colui che offre la propria forza lavoro in cambio di un salario – come un soggetto svantaggiato nell’ambito del mercato del lavoro, perché sprovvisto del potere contrattuale, che è invece proprio del datore di lavoro. Da questa osservazione deriva, e si spiega, la maggiore presenza, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, di soggetti esterni quali lo Stato, gli Enti territoriali, le associazioni di categoria, ossia i sindacati, e le associazioni industriali e dei datori di lavoro in genere, che pongono dei “paletti” alle libere scelte delle parti contrattuali – padroni e lavoratori con i sindacati di appartenenza – .
Il principio fondante della presenza di “paletti esterni”, che costituiscono la garanzia di difesa per il lavoratore dipendente rispetto alle posizioni talvolta unilaterali del datore di lavoro, si trova direttamente nel testo costituzionale, come nell’art. 36 della C. che prevede che il lavoratore abbia diritto alle ferie e non possa rinunciarvi, qualora si creasse un accordo fra questi e il datore di lavoro in senso contrario.
La giustificazione di questa limitazione alla libertà di contrarre delle parti trova un fondamento nel secondo comma dell’art. 3 della C., che prevede il principio di eguaglianza sostanziale in base al quale lo Stato adotta un comportamento “attivo” allo scopo di eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della personalità umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese. Imporre tali limitazioni alla libertà del datore di lavoro nella contrattazione fra le parti significa difendere la parte più debole (il lavoratore dipendente), ossia impedire che la parte debole sia nei fatti costretta ad accettare condizioni eccessivamente sfavorevoli, in alcuni casi tali da non garantire i diritti fondamentali.
Per fare un esempio calzante rispetto a quanto stiamo dicendo, vogliamo ricordare che l’art. 36 della C. impone una retribuzione minima sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (cosa che oggi è un vero e proprio sogno).
Questa caratteristica generale del diritto del lavoro sembra essere fortemente messa in dubbio dalla riforma “Biagi” che fa invece dell’autonomia contrattuale individuale e della diminuzione dei “paletti” (di cui prima si diceva) imposti in via eteronoma dalla legge costituzionale stessa una sua caratteristica essenziale, ingenerando in più di un caso il dubbio legittimo che il testo costituzionale del 1948 non sia più attuato attraverso questa innovazione legislativa. ☺
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