È un bel musical, un film il cui spirito profetico sbalordisce a guardarlo oggi, a pochi battiti di cuore dall’Obama Day, ossia dal giorno in cui – come ha ricordato Vittorio Zucconi – in quella Casa Bianca costruita nel 1800 da una squadra di schiavi neri, un nero è entrato per sedere sulla poltrona più importante. Hairspray (di Adam Shankman, 2007) sta facendo assaggiare il suo travolgente successo anche in Italia, nella versione teatrale che è andata appena in scena al Sistina con Stefano Masciarelli nei panni di John Travolta. E ne ha tutti i buoni motivi poiché è una trovata che, con garbo, fra una risata e una melodia appena retrò (deliziosa come “I can hear the bells” o scatenata come “The nicest kids in town”), offre molteplici spunti di riflessione su alcuni nodi cruciali dell’attualità e si presta, per altro, ad un’utilizzazione educativa di tutto rispetto poiché ruota tutto intorno ai temi dell’accettazione di se stessi e della diversità, intrecciati a doppio filo.
Grande l’interpretazione di John Travolta, capace di calarsi nella ritrosia e nella dolcezza di una donna che non accetta più da tempo di essere ingrassata troppo e si è chiusa in casa per non affrontare le chiacchiere delle vicine e delle ex amiche, ma si lascia poi contagiare dalla serena, determinata indole della figlia che le ridà fiducia in se stessa e voglia di rimettere piede nel mondo, un mondo che sta cambiando perché… “questo è il futuro”, come dice una frase ricorrente in bocca a vari personaggi ogni volta che si delinea la possibilità di un’integrazione fra neri e bianchi e il superamento della discriminazione razziale. Significativo il ruolo di Amber, ragazza programmata per la perfezione (ma esiste poi?) dalle aspettative di una madre ex-miss che è ossessionata dall’apparenza, dall’urgenza di veder vincere la figlia in qualunque contesto, e dalla paura che i neri possano mettere piede nella società americana con un altro passo. Già, Amber, che sembra totalmente vuota ma che, alla fine del film, quando Tracy e il futuro da lei intravisto prendono il sopravvento, griderà alla madre di smetterla una volta per tutte. Così come vuoto non è Link, uno Zac Efron che se la cava egregiamente, che da “rubacuori&brillantina” compie un percorso di maturazione fino ad innamorarsi di Tracy, del suo coraggio, dei suoi ideali. Suggestiva la scena della marcia cittadina organizzata dai neri di Baltimora (dove siamo? In America o a Castelvolturno?) e entusiasmante la sequenza iniziale, che segue Tracy mentre, di buon mattino, piena di vita, va a scuola sorridendo a tutta la città e cantando l’irresistibile “Good Morning Baltimore”: non proprio lo stesso atteggiamento dei nostri adolescenti, d’accordo, ma un impatto immediato con la solarità del personaggio e un modo per chiedersi subito… ma cos’è che la fa essere così felice? Forse si accetta per quello che è e di conseguenza non ha alcun problema ad accettare gli altri? ☺
gadelis@libero.it
È un bel musical, un film il cui spirito profetico sbalordisce a guardarlo oggi, a pochi battiti di cuore dall’Obama Day, ossia dal giorno in cui – come ha ricordato Vittorio Zucconi – in quella Casa Bianca costruita nel 1800 da una squadra di schiavi neri, un nero è entrato per sedere sulla poltrona più importante. Hairspray (di Adam Shankman, 2007) sta facendo assaggiare il suo travolgente successo anche in Italia, nella versione teatrale che è andata appena in scena al Sistina con Stefano Masciarelli nei panni di John Travolta. E ne ha tutti i buoni motivi poiché è una trovata che, con garbo, fra una risata e una melodia appena retrò (deliziosa come “I can hear the bells” o scatenata come “The nicest kids in town”), offre molteplici spunti di riflessione su alcuni nodi cruciali dell’attualità e si presta, per altro, ad un’utilizzazione educativa di tutto rispetto poiché ruota tutto intorno ai temi dell’accettazione di se stessi e della diversità, intrecciati a doppio filo.
Grande l’interpretazione di John Travolta, capace di calarsi nella ritrosia e nella dolcezza di una donna che non accetta più da tempo di essere ingrassata troppo e si è chiusa in casa per non affrontare le chiacchiere delle vicine e delle ex amiche, ma si lascia poi contagiare dalla serena, determinata indole della figlia che le ridà fiducia in se stessa e voglia di rimettere piede nel mondo, un mondo che sta cambiando perché… “questo è il futuro”, come dice una frase ricorrente in bocca a vari personaggi ogni volta che si delinea la possibilità di un’integrazione fra neri e bianchi e il superamento della discriminazione razziale. Significativo il ruolo di Amber, ragazza programmata per la perfezione (ma esiste poi?) dalle aspettative di una madre ex-miss che è ossessionata dall’apparenza, dall’urgenza di veder vincere la figlia in qualunque contesto, e dalla paura che i neri possano mettere piede nella società americana con un altro passo. Già, Amber, che sembra totalmente vuota ma che, alla fine del film, quando Tracy e il futuro da lei intravisto prendono il sopravvento, griderà alla madre di smetterla una volta per tutte. Così come vuoto non è Link, uno Zac Efron che se la cava egregiamente, che da “rubacuori&brillantina” compie un percorso di maturazione fino ad innamorarsi di Tracy, del suo coraggio, dei suoi ideali. Suggestiva la scena della marcia cittadina organizzata dai neri di Baltimora (dove siamo? In America o a Castelvolturno?) e entusiasmante la sequenza iniziale, che segue Tracy mentre, di buon mattino, piena di vita, va a scuola sorridendo a tutta la città e cantando l’irresistibile “Good Morning Baltimore”: non proprio lo stesso atteggiamento dei nostri adolescenti, d’accordo, ma un impatto immediato con la solarità del personaggio e un modo per chiedersi subito… ma cos’è che la fa essere così felice? Forse si accetta per quello che è e di conseguenza non ha alcun problema ad accettare gli altri? ☺
È un bel musical, un film il cui spirito profetico sbalordisce a guardarlo oggi, a pochi battiti di cuore dall’Obama Day, ossia dal giorno in cui – come ha ricordato Vittorio Zucconi – in quella Casa Bianca costruita nel 1800 da una squadra di schiavi neri, un nero è entrato per sedere sulla poltrona più importante. Hairspray (di Adam Shankman, 2007) sta facendo assaggiare il suo travolgente successo anche in Italia, nella versione teatrale che è andata appena in scena al Sistina con Stefano Masciarelli nei panni di John Travolta. E ne ha tutti i buoni motivi poiché è una trovata che, con garbo, fra una risata e una melodia appena retrò (deliziosa come “I can hear the bells” o scatenata come “The nicest kids in town”), offre molteplici spunti di riflessione su alcuni nodi cruciali dell’attualità e si presta, per altro, ad un’utilizzazione educativa di tutto rispetto poiché ruota tutto intorno ai temi dell’accettazione di se stessi e della diversità, intrecciati a doppio filo.
Grande l’interpretazione di John Travolta, capace di calarsi nella ritrosia e nella dolcezza di una donna che non accetta più da tempo di essere ingrassata troppo e si è chiusa in casa per non affrontare le chiacchiere delle vicine e delle ex amiche, ma si lascia poi contagiare dalla serena, determinata indole della figlia che le ridà fiducia in se stessa e voglia di rimettere piede nel mondo, un mondo che sta cambiando perché… “questo è il futuro”, come dice una frase ricorrente in bocca a vari personaggi ogni volta che si delinea la possibilità di un’integrazione fra neri e bianchi e il superamento della discriminazione razziale. Significativo il ruolo di Amber, ragazza programmata per la perfezione (ma esiste poi?) dalle aspettative di una madre ex-miss che è ossessionata dall’apparenza, dall’urgenza di veder vincere la figlia in qualunque contesto, e dalla paura che i neri possano mettere piede nella società americana con un altro passo. Già, Amber, che sembra totalmente vuota ma che, alla fine del film, quando Tracy e il futuro da lei intravisto prendono il sopravvento, griderà alla madre di smetterla una volta per tutte. Così come vuoto non è Link, uno Zac Efron che se la cava egregiamente, che da “rubacuori&brillantina” compie un percorso di maturazione fino ad innamorarsi di Tracy, del suo coraggio, dei suoi ideali. Suggestiva la scena della marcia cittadina organizzata dai neri di Baltimora (dove siamo? In America o a Castelvolturno?) e entusiasmante la sequenza iniziale, che segue Tracy mentre, di buon mattino, piena di vita, va a scuola sorridendo a tutta la città e cantando l’irresistibile “Good Morning Baltimore”: non proprio lo stesso atteggiamento dei nostri adolescenti, d’accordo, ma un impatto immediato con la solarità del personaggio e un modo per chiedersi subito… ma cos’è che la fa essere così felice? Forse si accetta per quello che è e di conseguenza non ha alcun problema ad accettare gli altri? ☺
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