Vorremmo riprendere il tema della “sofferenza” determinata o dalla mancanza di fissa dimora (i ”migrantes”), o da una condizione di vita modificatasi a causa di un accidente, come il terremoto, o dalla più complessiva crisi economica che sta facendo soffrire in questi ultimi mesi l’intera comunità internazionale.
L’angosciosa condizione degli immigrati e dei senza tetto nonché la dolorosa crisi economico-finanziaria di oggi sono in massima parte attribuibili alle teorie del “libero mercato”, considerate strumenti di funzionalità aprioristicamente eccellenti del mondo globalizzato.
In effetti, come stiamo constatando in questi mesi, l’attuale momento di preoccupante recessione economica è imputabile all’assenza di regole elementari che possano salvaguardare, nell’ambito del mercato globalizzato, alcuni principi essenziali nell’economia della produzione delle merci e dei beni e in quella della dinamica propositiva fra gli stati fautori del principio del “laisser faire”.
Siffatta condizione non sussiste e così possiamo constatare che dal principio economicistico del “fare da sé” e o della “inutilità delle regole” – che vogliono significare il rifiuto delle regole che un Parlamento nazionale potrebbe immaginare operanti – si fa derivare l’intervento dello Stato nel processo di salvataggio di banche, aziende nazionali o multinazionali, di assicurazioni, che dopo ladroneschi comportamenti ai danni del piccolo risparmiatore fanno ricorso per l’appunto all’aiuto di stato, al denaro della collettività, di conseguenza doppiamente gabbata, sia per la mancanza di regole precise sia per il ricorso al denaro di tutti attraverso imposizioni, tasse o sacrifici richiesti esclusivamente al lavoratore dipendente.
In questo bailamme caotico e confuso la gente normale, che fa fatica a trovare un lavoro stabile e dignitoso, che si affida alla classe politica con ingenuità e risente della crisi economica attuale, viene estromessa dall’ambito politico che potrebbe proporre decisioni concrete per il superamento delle sofferenze di tipo pratico ed economico.
Di qui, l’attuale fase di prepotenza ingiustificata e anticostituzionale nei confronti di quanti vivono in una condizione di terribile angoscia appartenenti sia alle fasce economicamente deboli delle comunità nazionali sia a quelle dette “migranti”, entrambe sottoposte alla beffa – tale per esempio può essere considerata la filosofia della sicurezza nazionale ed internazionale alla quale vengono sacrificate le più elementari regole della democrazia civile e del vivere consociato – o all’oltraggio – tale può considerarsi ad esempio la definizione razzista ed incivile del migrante come “scarto umano”, come “rifiuto” che nessuna “discarica” (paese ospitale) può oggi accogliere ed ospitare.
Non ci soffermiamo ora sul patimento evidente delle classi sociali medio-borghesi, proletarie o proletarizzate perché è nostra intenzione osservare il versante della “immigrazione” che ancora è tutta da ridefinire in termini di serena e civile accettazione e di “condivisione”.
Fino a qualche decennio fa la “immigrazione” trovava spazio e soluzione nei paesi occidentali, europei ed opulenti, che applicavano il principio della ospitalità e della concessione della cittadinanza a richiesta sulla base di un processo di inserimento progressivo nel proprio tessuto sociale di quanti si auguravano tale prospettiva.
La manodopera dei migranti era (e deve esserlo ancora!) considerata necessaria, utile, proficua e vantaggiosa sia in termini economici che in quelli socio-culturali, perché una nuova manodopera, più umile e duttile, e una prospettiva di integrazione inter-etnica e religiosa venivano considerate come un “bene”, una “ricchezza” per i paesi ospitanti.
Gli esempi non mancano in questi ultimi decenni: i paesi ricchi-occidentali (la Francia, l’Inghilterra, il Canada, gli Stati Uniti d’America, gli stessi paesi sudamericani come l’Argentina in cui la multietnicità è stata sempre considerata una risorsa) e quelli dell’antico blocco comunista (come la ex Jugoslavia, dove l’amministrazione centrale ha cercato di tenere unite popolazioni dalle tradizioni etniche e culturali divergenti, o come la città di Sarajevo, multietnica e multireligiosa) questi paesi, dicevo, hanno dato sempre un esempio reale e chiaramente apprezzato.
Ora tutto questo non esiste quasi più, in quanto la situazione attuale del capitalismo internazionale e del mercato globalizzato sembra dare l’impressione che si siano perse tutte quelle capacità di orientamento e di civile attenzione della “diversità” degli altri, della “ricchezza” culturale e spirituale di quanti sono costretti alla immigrazione prevalentemente clandestina, cosa che li fa apparire, loro malgrado e a torto, pericolosi, indesiderati, etc.
Gli immigrati sono lo “scarto” più miserevole dei cosiddetti “rifiuti”: una volta, per parlare in termini baumaniani, le “discariche” autorizzate erano i paesi opulenti, capaci di assimilare e di “riciclare” tale “rifiuto umano”. Ora non
più alla luce della crisi economica internazionale determinata prevalentemente dalla cultura della “guerra preventiva”, ma anche dalla considerazione che i privilegi e le ricchezze del mondo occidentale non vanno messi in discussione e che non c’è nessuna possibilità di dare nemmeno gli scarti del ricco Epulone al povero, all’indigente, all’ultimo disgraziato.
Queste figure infatti sono considerati pericolosi “coinquilini” e dunque vanno tenute lontane anche dalle “discariche”, che, ricordo, sono per i poveri i paesi ricchi e capitalisticamente avanzati. Sta prevalendo anche da noi, in Italia, una cultura malthusiana che dovrebbe provvedere alla “pulizia” demografica da sé, senza interventi dello Stato nei confronti dei non abbienti: chi si ammala può anche morire crepato, perché la salute non va difesa, indipendentemente dal colore della pelle o dalla condizione sociale di partenza di ciascun individuo.
Tale disagio psicologico, sociale, economico è avvertibile dai più sensibili per i quali è motivo di grande sofferenza per esempio la legislazione razzista che si sta preparando in Italia, come il disegno di legge nr. 733 in discussione in Senato che assegna alle “ronde” dei cittadini il compito di sorvegliare il territorio della propria città, come se tale attribuzione non fosse già istituzionalmente svolta dalle forze dell’ordine!
Gli episodi di Barcellona e di Rimini, dove alcuni balordi hanno dato fuoco a due “clochards”, due barboni che coscientemente avevano scelto di vivere ai margini della società civile senza dare fastidio, barboni che consapevolmente avevano deciso di non vivere in una normale abitazione ma o nei giardini o negli angoli nascosti delle periferie delle città, questi episodi testimoniano quanto pericolosamente veloce stia facendosi strada la in-cultura della paura del diverso, la fobia claustrante del povero che richiama nelle persone presuntamente normali quelle ancestrali e irrazionali paure del diverso che si pensava o superate o addirittura oggi inesistenti.
C’è molto ancora da fare in questa direzione; c’è molta strada da percorrere lungo la quale dobbiamo sapere esprimere disponibilità all’ascolto e capacità di accoglienza e di condivisione con quanti vogliono farlo con noi.
È proprio oggi il tempo di non chiudere gli occhi ma di essere coerenti testimoni ciascuno della propria cultura, sia essa cattolica, marxista o semplicemente laica. ☺
bar.novelli@micso.net
Vorremmo riprendere il tema della “sofferenza” determinata o dalla mancanza di fissa dimora (i ”migrantes”), o da una condizione di vita modificatasi a causa di un accidente, come il terremoto, o dalla più complessiva crisi economica che sta facendo soffrire in questi ultimi mesi l’intera comunità internazionale.
L’angosciosa condizione degli immigrati e dei senza tetto nonché la dolorosa crisi economico-finanziaria di oggi sono in massima parte attribuibili alle teorie del “libero mercato”, considerate strumenti di funzionalità aprioristicamente eccellenti del mondo globalizzato.
In effetti, come stiamo constatando in questi mesi, l’attuale momento di preoccupante recessione economica è imputabile all’assenza di regole elementari che possano salvaguardare, nell’ambito del mercato globalizzato, alcuni principi essenziali nell’economia della produzione delle merci e dei beni e in quella della dinamica propositiva fra gli stati fautori del principio del “laisser faire”.
Siffatta condizione non sussiste e così possiamo constatare che dal principio economicistico del “fare da sé” e o della “inutilità delle regole” – che vogliono significare il rifiuto delle regole che un Parlamento nazionale potrebbe immaginare operanti – si fa derivare l’intervento dello Stato nel processo di salvataggio di banche, aziende nazionali o multinazionali, di assicurazioni, che dopo ladroneschi comportamenti ai danni del piccolo risparmiatore fanno ricorso per l’appunto all’aiuto di stato, al denaro della collettività, di conseguenza doppiamente gabbata, sia per la mancanza di regole precise sia per il ricorso al denaro di tutti attraverso imposizioni, tasse o sacrifici richiesti esclusivamente al lavoratore dipendente.
In questo bailamme caotico e confuso la gente normale, che fa fatica a trovare un lavoro stabile e dignitoso, che si affida alla classe politica con ingenuità e risente della crisi economica attuale, viene estromessa dall’ambito politico che potrebbe proporre decisioni concrete per il superamento delle sofferenze di tipo pratico ed economico.
Di qui, l’attuale fase di prepotenza ingiustificata e anticostituzionale nei confronti di quanti vivono in una condizione di terribile angoscia appartenenti sia alle fasce economicamente deboli delle comunità nazionali sia a quelle dette “migranti”, entrambe sottoposte alla beffa – tale per esempio può essere considerata la filosofia della sicurezza nazionale ed internazionale alla quale vengono sacrificate le più elementari regole della democrazia civile e del vivere consociato – o all’oltraggio – tale può considerarsi ad esempio la definizione razzista ed incivile del migrante come “scarto umano”, come “rifiuto” che nessuna “discarica” (paese ospitale) può oggi accogliere ed ospitare.
Non ci soffermiamo ora sul patimento evidente delle classi sociali medio-borghesi, proletarie o proletarizzate perché è nostra intenzione osservare il versante della “immigrazione” che ancora è tutta da ridefinire in termini di serena e civile accettazione e di “condivisione”.
Fino a qualche decennio fa la “immigrazione” trovava spazio e soluzione nei paesi occidentali, europei ed opulenti, che applicavano il principio della ospitalità e della concessione della cittadinanza a richiesta sulla base di un processo di inserimento progressivo nel proprio tessuto sociale di quanti si auguravano tale prospettiva.
La manodopera dei migranti era (e deve esserlo ancora!) considerata necessaria, utile, proficua e vantaggiosa sia in termini economici che in quelli socio-culturali, perché una nuova manodopera, più umile e duttile, e una prospettiva di integrazione inter-etnica e religiosa venivano considerate come un “bene”, una “ricchezza” per i paesi ospitanti.
Gli esempi non mancano in questi ultimi decenni: i paesi ricchi-occidentali (la Francia, l’Inghilterra, il Canada, gli Stati Uniti d’America, gli stessi paesi sudamericani come l’Argentina in cui la multietnicità è stata sempre considerata una risorsa) e quelli dell’antico blocco comunista (come la ex Jugoslavia, dove l’amministrazione centrale ha cercato di tenere unite popolazioni dalle tradizioni etniche e culturali divergenti, o come la città di Sarajevo, multietnica e multireligiosa) questi paesi, dicevo, hanno dato sempre un esempio reale e chiaramente apprezzato.
Ora tutto questo non esiste quasi più, in quanto la situazione attuale del capitalismo internazionale e del mercato globalizzato sembra dare l’impressione che si siano perse tutte quelle capacità di orientamento e di civile attenzione della “diversità” degli altri, della “ricchezza” culturale e spirituale di quanti sono costretti alla immigrazione prevalentemente clandestina, cosa che li fa apparire, loro malgrado e a torto, pericolosi, indesiderati, etc.
Gli immigrati sono lo “scarto” più miserevole dei cosiddetti “rifiuti”: una volta, per parlare in termini baumaniani, le “discariche” autorizzate erano i paesi opulenti, capaci di assimilare e di “riciclare” tale “rifiuto umano”. Ora non
più alla luce della crisi economica internazionale determinata prevalentemente dalla cultura della “guerra preventiva”, ma anche dalla considerazione che i privilegi e le ricchezze del mondo occidentale non vanno messi in discussione e che non c’è nessuna possibilità di dare nemmeno gli scarti del ricco Epulone al povero, all’indigente, all’ultimo disgraziato.
Queste figure infatti sono considerati pericolosi “coinquilini” e dunque vanno tenute lontane anche dalle “discariche”, che, ricordo, sono per i poveri i paesi ricchi e capitalisticamente avanzati. Sta prevalendo anche da noi, in Italia, una cultura malthusiana che dovrebbe provvedere alla “pulizia” demografica da sé, senza interventi dello Stato nei confronti dei non abbienti: chi si ammala può anche morire crepato, perché la salute non va difesa, indipendentemente dal colore della pelle o dalla condizione sociale di partenza di ciascun individuo.
Tale disagio psicologico, sociale, economico è avvertibile dai più sensibili per i quali è motivo di grande sofferenza per esempio la legislazione razzista che si sta preparando in Italia, come il disegno di legge nr. 733 in discussione in Senato che assegna alle “ronde” dei cittadini il compito di sorvegliare il territorio della propria città, come se tale attribuzione non fosse già istituzionalmente svolta dalle forze dell’ordine!
Gli episodi di Barcellona e di Rimini, dove alcuni balordi hanno dato fuoco a due “clochards”, due barboni che coscientemente avevano scelto di vivere ai margini della società civile senza dare fastidio, barboni che consapevolmente avevano deciso di non vivere in una normale abitazione ma o nei giardini o negli angoli nascosti delle periferie delle città, questi episodi testimoniano quanto pericolosamente veloce stia facendosi strada la in-cultura della paura del diverso, la fobia claustrante del povero che richiama nelle persone presuntamente normali quelle ancestrali e irrazionali paure del diverso che si pensava o superate o addirittura oggi inesistenti.
C’è molto ancora da fare in questa direzione; c’è molta strada da percorrere lungo la quale dobbiamo sapere esprimere disponibilità all’ascolto e capacità di accoglienza e di condivisione con quanti vogliono farlo con noi.
È proprio oggi il tempo di non chiudere gli occhi ma di essere coerenti testimoni ciascuno della propria cultura, sia essa cattolica, marxista o semplicemente laica. ☺
Vorremmo riprendere il tema della “sofferenza” determinata o dalla mancanza di fissa dimora (i ”migrantes”), o da una condizione di vita modificatasi a causa di un accidente, come il terremoto, o dalla più complessiva crisi economica che sta facendo soffrire in questi ultimi mesi l’intera comunità internazionale.
L’angosciosa condizione degli immigrati e dei senza tetto nonché la dolorosa crisi economico-finanziaria di oggi sono in massima parte attribuibili alle teorie del “libero mercato”, considerate strumenti di funzionalità aprioristicamente eccellenti del mondo globalizzato.
In effetti, come stiamo constatando in questi mesi, l’attuale momento di preoccupante recessione economica è imputabile all’assenza di regole elementari che possano salvaguardare, nell’ambito del mercato globalizzato, alcuni principi essenziali nell’economia della produzione delle merci e dei beni e in quella della dinamica propositiva fra gli stati fautori del principio del “laisser faire”.
Siffatta condizione non sussiste e così possiamo constatare che dal principio economicistico del “fare da sé” e o della “inutilità delle regole” – che vogliono significare il rifiuto delle regole che un Parlamento nazionale potrebbe immaginare operanti – si fa derivare l’intervento dello Stato nel processo di salvataggio di banche, aziende nazionali o multinazionali, di assicurazioni, che dopo ladroneschi comportamenti ai danni del piccolo risparmiatore fanno ricorso per l’appunto all’aiuto di stato, al denaro della collettività, di conseguenza doppiamente gabbata, sia per la mancanza di regole precise sia per il ricorso al denaro di tutti attraverso imposizioni, tasse o sacrifici richiesti esclusivamente al lavoratore dipendente.
In questo bailamme caotico e confuso la gente normale, che fa fatica a trovare un lavoro stabile e dignitoso, che si affida alla classe politica con ingenuità e risente della crisi economica attuale, viene estromessa dall’ambito politico che potrebbe proporre decisioni concrete per il superamento delle sofferenze di tipo pratico ed economico.
Di qui, l’attuale fase di prepotenza ingiustificata e anticostituzionale nei confronti di quanti vivono in una condizione di terribile angoscia appartenenti sia alle fasce economicamente deboli delle comunità nazionali sia a quelle dette “migranti”, entrambe sottoposte alla beffa – tale per esempio può essere considerata la filosofia della sicurezza nazionale ed internazionale alla quale vengono sacrificate le più elementari regole della democrazia civile e del vivere consociato – o all’oltraggio – tale può considerarsi ad esempio la definizione razzista ed incivile del migrante come “scarto umano”, come “rifiuto” che nessuna “discarica” (paese ospitale) può oggi accogliere ed ospitare.
Non ci soffermiamo ora sul patimento evidente delle classi sociali medio-borghesi, proletarie o proletarizzate perché è nostra intenzione osservare il versante della “immigrazione” che ancora è tutta da ridefinire in termini di serena e civile accettazione e di “condivisione”.
Fino a qualche decennio fa la “immigrazione” trovava spazio e soluzione nei paesi occidentali, europei ed opulenti, che applicavano il principio della ospitalità e della concessione della cittadinanza a richiesta sulla base di un processo di inserimento progressivo nel proprio tessuto sociale di quanti si auguravano tale prospettiva.
La manodopera dei migranti era (e deve esserlo ancora!) considerata necessaria, utile, proficua e vantaggiosa sia in termini economici che in quelli socio-culturali, perché una nuova manodopera, più umile e duttile, e una prospettiva di integrazione inter-etnica e religiosa venivano considerate come un “bene”, una “ricchezza” per i paesi ospitanti.
Gli esempi non mancano in questi ultimi decenni: i paesi ricchi-occidentali (la Francia, l’Inghilterra, il Canada, gli Stati Uniti d’America, gli stessi paesi sudamericani come l’Argentina in cui la multietnicità è stata sempre considerata una risorsa) e quelli dell’antico blocco comunista (come la ex Jugoslavia, dove l’amministrazione centrale ha cercato di tenere unite popolazioni dalle tradizioni etniche e culturali divergenti, o come la città di Sarajevo, multietnica e multireligiosa) questi paesi, dicevo, hanno dato sempre un esempio reale e chiaramente apprezzato.
Ora tutto questo non esiste quasi più, in quanto la situazione attuale del capitalismo internazionale e del mercato globalizzato sembra dare l’impressione che si siano perse tutte quelle capacità di orientamento e di civile attenzione della “diversità” degli altri, della “ricchezza” culturale e spirituale di quanti sono costretti alla immigrazione prevalentemente clandestina, cosa che li fa apparire, loro malgrado e a torto, pericolosi, indesiderati, etc.
Gli immigrati sono lo “scarto” più miserevole dei cosiddetti “rifiuti”: una volta, per parlare in termini baumaniani, le “discariche” autorizzate erano i paesi opulenti, capaci di assimilare e di “riciclare” tale “rifiuto umano”. Ora non
più alla luce della crisi economica internazionale determinata prevalentemente dalla cultura della “guerra preventiva”, ma anche dalla considerazione che i privilegi e le ricchezze del mondo occidentale non vanno messi in discussione e che non c’è nessuna possibilità di dare nemmeno gli scarti del ricco Epulone al povero, all’indigente, all’ultimo disgraziato.
Queste figure infatti sono considerati pericolosi “coinquilini” e dunque vanno tenute lontane anche dalle “discariche”, che, ricordo, sono per i poveri i paesi ricchi e capitalisticamente avanzati. Sta prevalendo anche da noi, in Italia, una cultura malthusiana che dovrebbe provvedere alla “pulizia” demografica da sé, senza interventi dello Stato nei confronti dei non abbienti: chi si ammala può anche morire crepato, perché la salute non va difesa, indipendentemente dal colore della pelle o dalla condizione sociale di partenza di ciascun individuo.
Tale disagio psicologico, sociale, economico è avvertibile dai più sensibili per i quali è motivo di grande sofferenza per esempio la legislazione razzista che si sta preparando in Italia, come il disegno di legge nr. 733 in discussione in Senato che assegna alle “ronde” dei cittadini il compito di sorvegliare il territorio della propria città, come se tale attribuzione non fosse già istituzionalmente svolta dalle forze dell’ordine!
Gli episodi di Barcellona e di Rimini, dove alcuni balordi hanno dato fuoco a due “clochards”, due barboni che coscientemente avevano scelto di vivere ai margini della società civile senza dare fastidio, barboni che consapevolmente avevano deciso di non vivere in una normale abitazione ma o nei giardini o negli angoli nascosti delle periferie delle città, questi episodi testimoniano quanto pericolosamente veloce stia facendosi strada la in-cultura della paura del diverso, la fobia claustrante del povero che richiama nelle persone presuntamente normali quelle ancestrali e irrazionali paure del diverso che si pensava o superate o addirittura oggi inesistenti.
C’è molto ancora da fare in questa direzione; c’è molta strada da percorrere lungo la quale dobbiamo sapere esprimere disponibilità all’ascolto e capacità di accoglienza e di condivisione con quanti vogliono farlo con noi.
È proprio oggi il tempo di non chiudere gli occhi ma di essere coerenti testimoni ciascuno della propria cultura, sia essa cattolica, marxista o semplicemente laica. ☺
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