il femminile nella shoah
16 Aprile 2010 Share

il femminile nella shoah

 

Perché farlo, perché unire le due prospettive, potremmo domandarci? Quali possibili rischi comporta tale impostazione, quali eccezioni è possibile sollevare?

Quali profitti, infine, ne possono derivare? Il mio desiderio, strutturato attorno a testi di scrittrici ebree contemporanee di lingua italiana, è nato in parte dal bisogno di trovare una risposta a queste domande.

Nella prospettiva di cui sopra, le testimonianze (di carattere fittizio) che donne ebree hanno rilasciato della loro vita di perseguitate e deportate hanno goduto di un’attenzione notevolmente minore rispetto a quella accordata ai testi tramandati dai loro compagni maschi. Critici e studiosi, come afferma la studiosa I. Freme, hanno avuto fino a poco fa una visione unificata dei testi in oggetto che faceva di quella maschile un’esperienza universale.

Similmente, solo di recente si è cominciato a pensare che l’Olocausto rappresenti una sfida ancora più grande per la riflessione sulla storia della letteratura, che ci inviti a ripensare alcune delle premesse fondanti la storia letteraria del Novecento.

Infine, vorrei affrontare le eventuali debolezze e insieme anticipare le accuse degli oppositori dell’approccio di genere, limitandomi alle perplessità maggiori.

Gli studi legati alla letteratura femminile sull’Olocausto, sviluppatisi soltanto all’inizio degli anni novanta del novecento, sono subito stati tacciati di banalizzazione e volgarizzazione di un’esperienza unica come la Shoah, di proiezione sul passato delle preoccupazioni di oggi, consentendo ad un’interpretazione femminista di appropriarsi dell’Olocausto.

Ricorrendo alla categoria di genere come ad una categoria che coniuga in qualche modo le narrazioni sulla Shoah, non mi pongo l’obiettivo di compiere una righettizzazione di rimando di chi ha già sofferto le conseguenze dell’emarginazio- ne, bensì quello di aggiungere qualcosa alla nostra conoscenza e comprensione. Possiamo occuparci quindi degli scritti di donne ebree come della produzione di una minoranza i cui diritti vanno tutelati, chiedendo agli oppositori dell’approccio di genere alla letteratura dell’Olocausto, d’essere consapevoli del rischio che la loro avversione possa essere percepita come volta a monopolizzare, a totalizzare quest’area di studi. È da considerare, invece, il pensiero espresso da Theodor Adorno ne La Dialettica negativa, che la letteratura dopo la Shoah necessariamente pensi contro se stessa, ammetta e pratichi la molteplicità e la contraddittorietà, sperimenti diversi e irriducibili modi e forme del raccontare, cambi di prospettiva, di ricerche di lingua. Non esiste, credo si possa essere d’accordo, un modo unico, assoluto, di rappresentare, di raccontare, di scrivere la storia soprattutto perché questo tipo di racconto, nel più dei casi, si basa sull’esperienza. Un racconto legato alla Shoah è destinato a rimanere ellittico, nebuloso, transgenerico, ibrido anche perché la Shoah non ha un’unica verità da comunicare. Vi sono molte e diverse esperienze, difficilmente esprimibili, e non è “mai legittimo limitare a una sola le possibili interpretazioni di un evento o di un racconto”.

Alla persecuzione dell’ebreo si è aggiunta la persecuzione della donna ebrea, dell’ebrea in quanto donna ovvero, in quanto potenziale madre, genitrice di altri ebrei. La biologia, infatti, risulta di principale importanza nell’ideologia nazista del genocidio, in quanto la società nell’universo nazista era strutturata proprio attorno ai poli biologici, e da questo fatto scaturisce tutta una serie di differenze e complessità. La razza e il sesso costituivano gli elementi predominanti nella demarcazione sociale del totalitarismo nazista che, come dice Anna Bravo, era “esasperatamente virilista”, per cui nelle donne ebree si vedeva, oltre al pericolo della purezza razziale, l’elemento dell’inferiorità e della contaminazione dovuto al loro genere. Come la maternità delle donne ariane era idoleggiata e favorita mediante una legislazione tesa ad incentivare l’incremento del tasso delle nascite, l’ipotesi della maternità delle donne appartenenti a ’razze inferiori’ veniva percepita come pericolo per la purezza della razza ariana, e la razza inferiore era quindi destinata allo sterminio. Se è giusto pensare che le donne ebree erano perseguitate per un motivo in più (contro la loro identità biologica e contro i ruoli sociali determinati dal loro sesso, quello di madri principalmente), non dovrebbe stupire che le donne abbiano dato vita a storie dell’Olocausto diverse, legate e condizionate dal loro genere, che raccontino un tipo di violenza maggiore (o solo diversa?) che includa anche la persecuzione sessuale, il razzismo sessista manifestantesi in stupro, aborto, infanticidio, prostituzione, ecc.

Lo stupro, che è al centro della vicenda di In contumacia, da evento personale assurge a metafora di violenza e prevaricazione eterne. Lo stupro, il trauma dell’umiliazione subita, si replica quando alla liberazione un soldato americano ferma la protagonista e le strappa un bacio con la bocca impastata di vino. “Ho terrore perché capisco di essere segnata: i violenti mi vedono e mi riconoscono” (Limentani 1967, 77). E “Non c’è scampo nella liberazione” (139).

In una delle biografie romanzate di Edith Bruck, Chi ti ama così, vediamo scene di umiliazione e di molestie sessuali, tra cui quella dei tedeschi che […] si divertivano a punzecchiarci il sedere con le canne dei fucili, oppure sputavano sui nostri capezzoli e chi riusciva a colpire il bersaglio da tre o quattro metri diventava un campione. (1994, 30). Nello stesso racconto troviamo molti riferimenti alla perdita di doti estetiche causata dal deterioramento fisico, da bassissimi standard d’igiene al deterioramento corporeo riducibile all’insegna della defemminizzazione: seni inariditi, perdita delle mestruazioni (amenorrea), paura della sterilizzazione, i ‘crimini’ legati alla gravidanza, al parto, agli aborti forzati. Lo sfruttamento sessuale continua non solo per opera dei tedeschi, ma anche da parte degli americani che offrono alle donne cioccolata e pane bianco in cambio di una ‘passeggiata’. Promenade, chocolate – erano le parole più popolari a Bergen Belsen, e molte accettavano e rimanevano incinte in una promenade.

Nelle biografie romanzate di Bruck la giustizia non c’è, e questa sola constatazione dovrebbe bastare per abbattere l’irritante religiosità della madre della protagonista, forse rimasta ferma fino alla fine. Soltanto una volta, la protagonista della Bruck cerca e spera ostinatamente, ma invano, la giustizia: è Linda di Transit, vittima di un pestaggio subito senza un motivo apparente, questa volta non perché ebrea ma perché ungherese. In Clara Sereni si esalta invece la compassione, l’essere solidali con gli ‘ultimi’, per cui la narratrice si definisce ‘ultimista’: […] unico dato certo è che gli ‘ultimi’ restano fuori dalla Storia più che mai, benché – probabilmente – più che mai numerosi. Il prezzo più alto lo pagano loro, e in cambio di niente. Dicendomi ultimista provo a confrontarmi con la loro espulsione, ad assumere come punto di vista il loro. Stare dalla parte degli ultimi, provare a ragionare con la loro testa la loro pancia e la loro pelle inizialmente mi è capitato per ventura, per un pezzo di me che era ineluttabilmente in gioco più che per cultura o scelta: dichiararmi ultimista significa alla fin fine dirmi che tanto dolore non è inutile, e che a questo mondo finalmente – se non giustizia – può esserci, almeno, una scelta di campo non ambigua. (1998, 14)

Le donne ebree che si raccontano nei libri di finzione da me esaminati percepiscono il loro ebraismo, l’essere ebree, sostanzialmente come qualcosa loro imposto, può essere questione di destino condiviso, si scoprono perseguitate, sessualmente umiliate senza poter godere della ricompensa o della giustificazione che un maschio trovava nel suo essere attivista antifascista o – tutt’al più – come nel caso della Sereni, ciò è frutto della loro decisione spontanea presa a un certo punto della vita quando si solidarizzava con gli esclusi, gli ‘ultimi’. Dei valori che Amelia Rosselli indica come supremi nella tradizione e cultura ebraica (giustizia, libertà, compassione) le donne dimostrano di sviluppare e coltivare solo la compassione.

Per Marina Jarre, ci si riconosce (donne) ebree quando il riconoscimento viene dagli altri, da fuori, o è in ogni modo fatto dipendere da fatti esterni. Quando la narratrice si domanda se si sente ebrea,  lo è quando si riconosce orfana (di suo padre) “di quel numero mostruoso che non appartiene al mondo degli umani” ovvero, quando si identifica con i milioni degli scomparsi. ☺

ninive@aliceposta.it 

 

eoc

eoc