Il 9 novembre del 1989 a Berlino viene aperto il primo varco del “Muro di Berlino”, autentica vergogna della politica, e cori irrefrenabili di voci festanti accompagnano le prime picconate. Il 22 dicembre dello stesso anno, dalle ore 01.00 alle ore 03.00, il muro viene letteralmente sbriciolato e le due parti della città tedesca, simbolo dell’intera Germania, vengono nuovamente riunite all’insegna di un profondo sentimento di unità nazionale che le conseguenze nefaste del II° conflitto mondiale avevano solo parzialmente messo a tacere.
Ricordiamo con profonda gioia ma anche con chiaro senso di sgomento quelle ore che hanno dato alla storia europea un nuovo corso e che hanno risolto in modo non violento né armato il problema quasi quarantennale della riunificazione della Germania. La gioia è stata intensa e comprensibile, in quanto essa delineava la conclusione di un incubo nel quale era caduto il popolo tedesco all’indomani dei trattati di pace fra i vincitori del conflitto mondiale.
Ma perché lo sgomento? Riconoscevamo nella ingloriosa fine della Repubblica Democratica Tedesca il fallimento del comunismo sovietico responsabile di tale cesura drammatica, almeno agli occhi di quei comunisti democratici occidentali per i quali la fase della dittatura del proletariato era considerata conclusa da un bel pezzo.
Infatti, la glasnost (disgelo) e la perestroika (politica di riforme democratiche dell’apparato dello Stato sovietico) di Mickail Gorbaciov – ultimo segretario generale della ex URSS – tentavano, ma invano a causa dell’opposizione interna, timorosa della dissoluzione del sistema politico comunista, e delle ingerenze delle nazioni straniere che quella disintegrazione statuale auspicavano da decenni, tentavano, dicevamo, di applicare un processo graduale di riforme.
La storia ha dato ragione ai detrattori gorbacioviani; inoltre, la condotta disincantata ed impietosa nei confronti del Parlamento russo ad opera di Boris Eltsin – i carri armati hanno bombardato l’edificio della Camera dei deputati a Mosca – ha accelerato la nascita di una nuova nazione, la Russia, in cui la democrazia appare ancora timorosa e adolescente.
Il muro di Berlino è la puntuale registrazione del conflitto ideologico ed economico fra le due parti del mondo, così come l’avevano disegnato gli accordi di Yalta, dove Roosvelt, Churchill e Stalin avevano diviso il mondo occidentale in due grosse aree geografiche, rappresentative di due differenti concezioni dello Stato e dell’economia. Da un lato la concezione liberistica dell’economia, fondata sulle teorie macroeconomiche americane ed inglesi – il libero mercato sovrano e manovratore delle regole che ne regolamentano l’ordinaria “follia” -; da un altro la concezione economica sovietica della centralità dello Stato che è il massimo e l’unico “capitalista”, ossia l’u- nico motore dell’econo- mia che si definisce socialista, perché mette al centro non il profitto del singolo imprenditore o della singola holding, ma quello dello Stato che distribuisce in maniera eguale il profitto a tutti i cittadini, ai quali la casa, il lavoro, l’assistenza sanitaria, la gratuità complessiva degli studi non vengono a mancare, anche se a detrimento delle libertà e dei diritti individuali sacrificati per il bene della collettività.
Quindi, da una parte la concezione liberalistica del “fai da te”, ossia della possibilità di affermazione che dipende pressoché unicamente dalle capacità di imprenditorialità personale, da un’altra parte il controllo dello Stato sul cittadino, che guadagna orizzontalmente in giustizia sociale ma perde dichiaratamente in libertà individuali (di movimento, di pensiero, di religione, etc.). Questi due mondi si contrastano mortalmente, si affrontano con durezza di scontri ideologici ed armati (in molte parti della Terra), guadagnano entrambi proseliti (a milioni), ma alla fine del confronto violento, doloroso e aspro hanno il sopravvento la concezione capitalistica dell’organizzazione delle comunità nazionali e quella della produzione delle merci (oggi, infatti, la globalizzazione dell’eco- nomia, sta annientando la tradizionale concezione di stato nazionale).
Inoltre, vince il concetto che l’uomo individuale ha infinite risorse grazie alle quali realizza il suo mondo di sogni personali; ha il sopravvento, infine, una visione della vita, per la quale si possono perdere gli orizzonti della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della solidarietà a vantaggio di libertà individuali, sfrenatamente egoistiche, o, come si evince dalla storia di oggi in relazione alla guerra al “terrorismo”, si frantumano conquiste sociali e sindacali in nome di una lotta al nemico – islamico? immigrato-morto di fame? -, considerato l’incarnazione del male, così come fino all’altro ieri lo sono stati i comunisti per gli occidentali.
Ma ritorniamo al tema iniziale, cioè a quello del Muro di Berlino.
Non è stato certo piacevole neppure per quelli della nostra generazione assistere impotenti al lento ma graduale sfilacciarsi dei rapporti diplomatici fra la ex Unione Sovietica e le tre potenze occidentali – USA, Francia, Inghilterra – che con l’URSS detenevano il controllo della città di Berlino. La disgregazione di tali rapporti ha provocato l’irrigidimento politico delle autorità comuniste della Repubblica Democratica Tedesca, che in questo modo hanno accelerato la crisi del sistema comunista, costruendo un muro in una sola notte, quella del 13 agosto del 1961.
Lo smarrimento e le preoccupazioni che tale mossa politica comportava non furono mai sottovalutati, almeno da una parte consistente di comunisti (e marxisti), autenticamente rivolti alla ricerca di una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto economico-ideologico. In effetti, gli avvenimenti sono precipitati negli anni (la primavera di Praga; la contestazione giovanile del ’68, che ha contrassegnato anche una convinta abiura del modello autoritario sovietico a vantaggio del mito maoista de “La Cina è vicina”; gli avvenimenti del ‘77 che hanno portato alla nascita di CARTA 77), fino ad un rigoroso e assurdo controllo sui cittadini che non poteva che concludersi così come è avvenuto il 22 dicembre del 1989.
Rimangono in noi, comunque, molte ragioni di perplessità tanto nei confronti dell’ex colosso sovietico, la cui concezione rigida, ottusa del comunismo ha portato alla implosione di quel mondo, quanto nei confronti del mondo occidentale ed in primis degli USA e l’Inghilterra che incarnano da sempre la concezione liberistica del mercato e della produzione, per la quale le regole non debbono esserci, in quanto il mercato si autoregolamenta, e, cosa ancora più grave, il profitto viene prima di tutto, al di là delle storie dei popoli e dei singoli individui (che possono anche crepare, ché a nessuno importa!).
Oggi il mondo è pervaso dalla concezione economica neoliberistica che ha in spregio il lavoratore non più considerato una persona civile, la cui umana dignità vada pienamente salvaguardata.
Ecco perché la caduta del muro di Berlino non ha dato origine ad un mondo nuovo, così come i fans delle dottrine economiche neoliberiste si pregiavano di affermare; in effetti, il mondo odierno conosce un grave arresto dei diritti elementari, naturali, sociali, etc. così come sono stati costruiti a partire dal periodo successivo al II° conflitto mondiale in Italia e nel mondo occidentale.
Infatti, alla dialettica e alla cultura della giustizia orizzontale – quella che è eguale per tutti – si è sostituito il feticcio delle libertà individuali, che valgono soltanto per gli abbienti e i ricchi, mentre i poveri, o quanti sono vittime della globalizzazione e della sua falsa ideologia, sprofondano nelle voragini della sofferenza esistenziale e sociale.
Qualsiasi muro – la muraglia cinese; il vallum Adriani; il muro di Gerusalemme – è la prova evidente del fallimento dello strumento dialettico del confronto fra gli individui e le nazioni.
È proprio su questo asse di raffronti e di competizioni aggressive che noi dovremmo riflettere, cercando di capire che molto spesso le ragioni di chi soffre o di chi viene privato dei naturali diritti alla vita sono quelle per le quali vale davvero la pena di vivere, di tentare di arginare le ingiustizie ed essere in questo solo modo importanti e necessari per gli altri. ☺
bar.novelli@micso.net
Il 9 novembre del 1989 a Berlino viene aperto il primo varco del “Muro di Berlino”, autentica vergogna della politica, e cori irrefrenabili di voci festanti accompagnano le prime picconate. Il 22 dicembre dello stesso anno, dalle ore 01.00 alle ore 03.00, il muro viene letteralmente sbriciolato e le due parti della città tedesca, simbolo dell’intera Germania, vengono nuovamente riunite all’insegna di un profondo sentimento di unità nazionale che le conseguenze nefaste del II° conflitto mondiale avevano solo parzialmente messo a tacere.
Ricordiamo con profonda gioia ma anche con chiaro senso di sgomento quelle ore che hanno dato alla storia europea un nuovo corso e che hanno risolto in modo non violento né armato il problema quasi quarantennale della riunificazione della Germania. La gioia è stata intensa e comprensibile, in quanto essa delineava la conclusione di un incubo nel quale era caduto il popolo tedesco all’indomani dei trattati di pace fra i vincitori del conflitto mondiale.
Ma perché lo sgomento? Riconoscevamo nella ingloriosa fine della Repubblica Democratica Tedesca il fallimento del comunismo sovietico responsabile di tale cesura drammatica, almeno agli occhi di quei comunisti democratici occidentali per i quali la fase della dittatura del proletariato era considerata conclusa da un bel pezzo.
Infatti, la glasnost (disgelo) e la perestroika (politica di riforme democratiche dell’apparato dello Stato sovietico) di Mickail Gorbaciov – ultimo segretario generale della ex URSS – tentavano, ma invano a causa dell’opposizione interna, timorosa della dissoluzione del sistema politico comunista, e delle ingerenze delle nazioni straniere che quella disintegrazione statuale auspicavano da decenni, tentavano, dicevamo, di applicare un processo graduale di riforme.
La storia ha dato ragione ai detrattori gorbacioviani; inoltre, la condotta disincantata ed impietosa nei confronti del Parlamento russo ad opera di Boris Eltsin – i carri armati hanno bombardato l’edificio della Camera dei deputati a Mosca – ha accelerato la nascita di una nuova nazione, la Russia, in cui la democrazia appare ancora timorosa e adolescente.
Il muro di Berlino è la puntuale registrazione del conflitto ideologico ed economico fra le due parti del mondo, così come l’avevano disegnato gli accordi di Yalta, dove Roosvelt, Churchill e Stalin avevano diviso il mondo occidentale in due grosse aree geografiche, rappresentative di due differenti concezioni dello Stato e dell’economia. Da un lato la concezione liberistica dell’economia, fondata sulle teorie macroeconomiche americane ed inglesi – il libero mercato sovrano e manovratore delle regole che ne regolamentano l’ordinaria “follia” -; da un altro la concezione economica sovietica della centralità dello Stato che è il massimo e l’unico “capitalista”, ossia l’u- nico motore dell’econo- mia che si definisce socialista, perché mette al centro non il profitto del singolo imprenditore o della singola holding, ma quello dello Stato che distribuisce in maniera eguale il profitto a tutti i cittadini, ai quali la casa, il lavoro, l’assistenza sanitaria, la gratuità complessiva degli studi non vengono a mancare, anche se a detrimento delle libertà e dei diritti individuali sacrificati per il bene della collettività.
Quindi, da una parte la concezione liberalistica del “fai da te”, ossia della possibilità di affermazione che dipende pressoché unicamente dalle capacità di imprenditorialità personale, da un’altra parte il controllo dello Stato sul cittadino, che guadagna orizzontalmente in giustizia sociale ma perde dichiaratamente in libertà individuali (di movimento, di pensiero, di religione, etc.). Questi due mondi si contrastano mortalmente, si affrontano con durezza di scontri ideologici ed armati (in molte parti della Terra), guadagnano entrambi proseliti (a milioni), ma alla fine del confronto violento, doloroso e aspro hanno il sopravvento la concezione capitalistica dell’organizzazione delle comunità nazionali e quella della produzione delle merci (oggi, infatti, la globalizzazione dell’eco- nomia, sta annientando la tradizionale concezione di stato nazionale).
Inoltre, vince il concetto che l’uomo individuale ha infinite risorse grazie alle quali realizza il suo mondo di sogni personali; ha il sopravvento, infine, una visione della vita, per la quale si possono perdere gli orizzonti della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della solidarietà a vantaggio di libertà individuali, sfrenatamente egoistiche, o, come si evince dalla storia di oggi in relazione alla guerra al “terrorismo”, si frantumano conquiste sociali e sindacali in nome di una lotta al nemico – islamico? immigrato-morto di fame? -, considerato l’incarnazione del male, così come fino all’altro ieri lo sono stati i comunisti per gli occidentali.
Ma ritorniamo al tema iniziale, cioè a quello del Muro di Berlino.
Non è stato certo piacevole neppure per quelli della nostra generazione assistere impotenti al lento ma graduale sfilacciarsi dei rapporti diplomatici fra la ex Unione Sovietica e le tre potenze occidentali – USA, Francia, Inghilterra – che con l’URSS detenevano il controllo della città di Berlino. La disgregazione di tali rapporti ha provocato l’irrigidimento politico delle autorità comuniste della Repubblica Democratica Tedesca, che in questo modo hanno accelerato la crisi del sistema comunista, costruendo un muro in una sola notte, quella del 13 agosto del 1961.
Lo smarrimento e le preoccupazioni che tale mossa politica comportava non furono mai sottovalutati, almeno da una parte consistente di comunisti (e marxisti), autenticamente rivolti alla ricerca di una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto economico-ideologico. In effetti, gli avvenimenti sono precipitati negli anni (la primavera di Praga; la contestazione giovanile del ’68, che ha contrassegnato anche una convinta abiura del modello autoritario sovietico a vantaggio del mito maoista de “La Cina è vicina”; gli avvenimenti del ‘77 che hanno portato alla nascita di CARTA 77), fino ad un rigoroso e assurdo controllo sui cittadini che non poteva che concludersi così come è avvenuto il 22 dicembre del 1989.
Rimangono in noi, comunque, molte ragioni di perplessità tanto nei confronti dell’ex colosso sovietico, la cui concezione rigida, ottusa del comunismo ha portato alla implosione di quel mondo, quanto nei confronti del mondo occidentale ed in primis degli USA e l’Inghilterra che incarnano da sempre la concezione liberistica del mercato e della produzione, per la quale le regole non debbono esserci, in quanto il mercato si autoregolamenta, e, cosa ancora più grave, il profitto viene prima di tutto, al di là delle storie dei popoli e dei singoli individui (che possono anche crepare, ché a nessuno importa!).
Oggi il mondo è pervaso dalla concezione economica neoliberistica che ha in spregio il lavoratore non più considerato una persona civile, la cui umana dignità vada pienamente salvaguardata.
Ecco perché la caduta del muro di Berlino non ha dato origine ad un mondo nuovo, così come i fans delle dottrine economiche neoliberiste si pregiavano di affermare; in effetti, il mondo odierno conosce un grave arresto dei diritti elementari, naturali, sociali, etc. così come sono stati costruiti a partire dal periodo successivo al II° conflitto mondiale in Italia e nel mondo occidentale.
Infatti, alla dialettica e alla cultura della giustizia orizzontale – quella che è eguale per tutti – si è sostituito il feticcio delle libertà individuali, che valgono soltanto per gli abbienti e i ricchi, mentre i poveri, o quanti sono vittime della globalizzazione e della sua falsa ideologia, sprofondano nelle voragini della sofferenza esistenziale e sociale.
Qualsiasi muro – la muraglia cinese; il vallum Adriani; il muro di Gerusalemme – è la prova evidente del fallimento dello strumento dialettico del confronto fra gli individui e le nazioni.
È proprio su questo asse di raffronti e di competizioni aggressive che noi dovremmo riflettere, cercando di capire che molto spesso le ragioni di chi soffre o di chi viene privato dei naturali diritti alla vita sono quelle per le quali vale davvero la pena di vivere, di tentare di arginare le ingiustizie ed essere in questo solo modo importanti e necessari per gli altri. ☺
Il 9 novembre del 1989 a Berlino viene aperto il primo varco del “Muro di Berlino”, autentica vergogna della politica, e cori irrefrenabili di voci festanti accompagnano le prime picconate. Il 22 dicembre dello stesso anno, dalle ore 01.00 alle ore 03.00, il muro viene letteralmente sbriciolato e le due parti della città tedesca, simbolo dell’intera Germania, vengono nuovamente riunite all’insegna di un profondo sentimento di unità nazionale che le conseguenze nefaste del II° conflitto mondiale avevano solo parzialmente messo a tacere.
Ricordiamo con profonda gioia ma anche con chiaro senso di sgomento quelle ore che hanno dato alla storia europea un nuovo corso e che hanno risolto in modo non violento né armato il problema quasi quarantennale della riunificazione della Germania. La gioia è stata intensa e comprensibile, in quanto essa delineava la conclusione di un incubo nel quale era caduto il popolo tedesco all’indomani dei trattati di pace fra i vincitori del conflitto mondiale.
Ma perché lo sgomento? Riconoscevamo nella ingloriosa fine della Repubblica Democratica Tedesca il fallimento del comunismo sovietico responsabile di tale cesura drammatica, almeno agli occhi di quei comunisti democratici occidentali per i quali la fase della dittatura del proletariato era considerata conclusa da un bel pezzo.
Infatti, la glasnost (disgelo) e la perestroika (politica di riforme democratiche dell’apparato dello Stato sovietico) di Mickail Gorbaciov – ultimo segretario generale della ex URSS – tentavano, ma invano a causa dell’opposizione interna, timorosa della dissoluzione del sistema politico comunista, e delle ingerenze delle nazioni straniere che quella disintegrazione statuale auspicavano da decenni, tentavano, dicevamo, di applicare un processo graduale di riforme.
La storia ha dato ragione ai detrattori gorbacioviani; inoltre, la condotta disincantata ed impietosa nei confronti del Parlamento russo ad opera di Boris Eltsin – i carri armati hanno bombardato l’edificio della Camera dei deputati a Mosca – ha accelerato la nascita di una nuova nazione, la Russia, in cui la democrazia appare ancora timorosa e adolescente.
Il muro di Berlino è la puntuale registrazione del conflitto ideologico ed economico fra le due parti del mondo, così come l’avevano disegnato gli accordi di Yalta, dove Roosvelt, Churchill e Stalin avevano diviso il mondo occidentale in due grosse aree geografiche, rappresentative di due differenti concezioni dello Stato e dell’economia. Da un lato la concezione liberistica dell’economia, fondata sulle teorie macroeconomiche americane ed inglesi – il libero mercato sovrano e manovratore delle regole che ne regolamentano l’ordinaria “follia” -; da un altro la concezione economica sovietica della centralità dello Stato che è il massimo e l’unico “capitalista”, ossia l’u- nico motore dell’econo- mia che si definisce socialista, perché mette al centro non il profitto del singolo imprenditore o della singola holding, ma quello dello Stato che distribuisce in maniera eguale il profitto a tutti i cittadini, ai quali la casa, il lavoro, l’assistenza sanitaria, la gratuità complessiva degli studi non vengono a mancare, anche se a detrimento delle libertà e dei diritti individuali sacrificati per il bene della collettività.
Quindi, da una parte la concezione liberalistica del “fai da te”, ossia della possibilità di affermazione che dipende pressoché unicamente dalle capacità di imprenditorialità personale, da un’altra parte il controllo dello Stato sul cittadino, che guadagna orizzontalmente in giustizia sociale ma perde dichiaratamente in libertà individuali (di movimento, di pensiero, di religione, etc.). Questi due mondi si contrastano mortalmente, si affrontano con durezza di scontri ideologici ed armati (in molte parti della Terra), guadagnano entrambi proseliti (a milioni), ma alla fine del confronto violento, doloroso e aspro hanno il sopravvento la concezione capitalistica dell’organizzazione delle comunità nazionali e quella della produzione delle merci (oggi, infatti, la globalizzazione dell’eco- nomia, sta annientando la tradizionale concezione di stato nazionale).
Inoltre, vince il concetto che l’uomo individuale ha infinite risorse grazie alle quali realizza il suo mondo di sogni personali; ha il sopravvento, infine, una visione della vita, per la quale si possono perdere gli orizzonti della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della solidarietà a vantaggio di libertà individuali, sfrenatamente egoistiche, o, come si evince dalla storia di oggi in relazione alla guerra al “terrorismo”, si frantumano conquiste sociali e sindacali in nome di una lotta al nemico – islamico? immigrato-morto di fame? -, considerato l’incarnazione del male, così come fino all’altro ieri lo sono stati i comunisti per gli occidentali.
Ma ritorniamo al tema iniziale, cioè a quello del Muro di Berlino.
Non è stato certo piacevole neppure per quelli della nostra generazione assistere impotenti al lento ma graduale sfilacciarsi dei rapporti diplomatici fra la ex Unione Sovietica e le tre potenze occidentali – USA, Francia, Inghilterra – che con l’URSS detenevano il controllo della città di Berlino. La disgregazione di tali rapporti ha provocato l’irrigidimento politico delle autorità comuniste della Repubblica Democratica Tedesca, che in questo modo hanno accelerato la crisi del sistema comunista, costruendo un muro in una sola notte, quella del 13 agosto del 1961.
Lo smarrimento e le preoccupazioni che tale mossa politica comportava non furono mai sottovalutati, almeno da una parte consistente di comunisti (e marxisti), autenticamente rivolti alla ricerca di una soluzione pacifica e diplomatica del conflitto economico-ideologico. In effetti, gli avvenimenti sono precipitati negli anni (la primavera di Praga; la contestazione giovanile del ’68, che ha contrassegnato anche una convinta abiura del modello autoritario sovietico a vantaggio del mito maoista de “La Cina è vicina”; gli avvenimenti del ‘77 che hanno portato alla nascita di CARTA 77), fino ad un rigoroso e assurdo controllo sui cittadini che non poteva che concludersi così come è avvenuto il 22 dicembre del 1989.
Rimangono in noi, comunque, molte ragioni di perplessità tanto nei confronti dell’ex colosso sovietico, la cui concezione rigida, ottusa del comunismo ha portato alla implosione di quel mondo, quanto nei confronti del mondo occidentale ed in primis degli USA e l’Inghilterra che incarnano da sempre la concezione liberistica del mercato e della produzione, per la quale le regole non debbono esserci, in quanto il mercato si autoregolamenta, e, cosa ancora più grave, il profitto viene prima di tutto, al di là delle storie dei popoli e dei singoli individui (che possono anche crepare, ché a nessuno importa!).
Oggi il mondo è pervaso dalla concezione economica neoliberistica che ha in spregio il lavoratore non più considerato una persona civile, la cui umana dignità vada pienamente salvaguardata.
Ecco perché la caduta del muro di Berlino non ha dato origine ad un mondo nuovo, così come i fans delle dottrine economiche neoliberiste si pregiavano di affermare; in effetti, il mondo odierno conosce un grave arresto dei diritti elementari, naturali, sociali, etc. così come sono stati costruiti a partire dal periodo successivo al II° conflitto mondiale in Italia e nel mondo occidentale.
Infatti, alla dialettica e alla cultura della giustizia orizzontale – quella che è eguale per tutti – si è sostituito il feticcio delle libertà individuali, che valgono soltanto per gli abbienti e i ricchi, mentre i poveri, o quanti sono vittime della globalizzazione e della sua falsa ideologia, sprofondano nelle voragini della sofferenza esistenziale e sociale.
Qualsiasi muro – la muraglia cinese; il vallum Adriani; il muro di Gerusalemme – è la prova evidente del fallimento dello strumento dialettico del confronto fra gli individui e le nazioni.
È proprio su questo asse di raffronti e di competizioni aggressive che noi dovremmo riflettere, cercando di capire che molto spesso le ragioni di chi soffre o di chi viene privato dei naturali diritti alla vita sono quelle per le quali vale davvero la pena di vivere, di tentare di arginare le ingiustizie ed essere in questo solo modo importanti e necessari per gli altri. ☺
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