Il perdono solidale
3 Febbraio 2015 Share

Il perdono solidale

“Voi avete tramato per farmi del male, ma Dio ha tramato per trarne del bene” (Gen 50,20): con queste parole dell’ultimo incontro raccontato dalla bibbia con i fratelli, Giuseppe coglie l’essenza delle vicende narrate in precedenza (Gen 37-50) e in un certo senso di tutta la Genesi, anzi di tutta la bibbia, se la leggiamo come il continuo tentativo dell’uomo di distruggere l’opera di Dio (che vide che tutto era buono, come dice Gen 1) e la continua opera di Dio di porre rimedio, di riparare i danni, di portare ad uno sviluppo positivo le vicende dell’umanità. La riflessione di Giuseppe non viene da una rivelazione particolare da parte di Dio, né il narratore spiega mai in precedenza che Dio ha predisposto che le cose andassero in un certo modo, come ha fatto nel caso di Giacobbe ed Esaù (Gen 25,23); è la sua capacità di aver fatto i conti con la propria storia che gli mostra un senso, un significato superiore che va oltre le meschinità dell’uomo.

Nella Genesi si parte da un interventismo continuo di Dio che parla ai personaggi ad una totale assenza nelle vicende di Giuseppe, ed è affidata all’uomo la capacità di leggere nelle pieghe della storia l’opera di Dio quando il bene vince sul male. In tal senso la storia di Giuseppe rappresenta il compimento del cammino verso la desacralizzazione di Dio, che non è più incontrato con la mediazione del rito, bensì la sua opera viene a coincidere con l’ostinazione di chi, nonostante tutto, continua a credere nel bene, a porlo in essere con le sue scelte. È con queste pagine che la bibbia, sia nella prospettiva ebraica che cristiana, costituisce un autentico manifesto per l’affermazione della vera laicità, che non consiste nell’opporsi al mistero di Dio, quanto piuttosto nel comprendere che quando l’uomo agisce bene, Dio c’è e tra Dio e uomo non c’è concorrenza.

Le vicende di Giuseppe e dei suoi fratelli partono da una situazione di conflitto (Gen 37), determinata anche dalla colpa del padre Giacobbe, che crea il dissidio quando manifesta la sua preferenza per Giuseppe. Le sue sofferenze per la perdita del figlio e la temuta perdita dell’ultimo, Beniamino, che ha riempito il vuoto lasciato da Giuseppe, sono forse inconsapevolmente (anche per l’autore) un modo di espiare l’aver causato questa spaccatura (e se pensiamo alle sofferenze attuali dell’Occidente timoroso degli altri, che ha attuato la politica del divide et impera sia nel colonialismo che nel neocolonialismo tuttora in atto, forse comprendiamo anche perché si possa e si debba parlare di espiazione). A quel tempo Giuseppe non faceva molto per superare questa divisione, forte della preferenza del padre; la reazione prima di invidia e poi omicida dei fratelli, può essere spiegata proprio partendo da questo. Il narratore però non dà loro ragione, in quanto anche in ciò essi non smettono di essere uomini capaci di far decantare l’istinto omicida, come già Dio aveva detto a Caino. Essi però fanno “morire” il fratello vendendolo come schiavo, non ascoltando la sua angoscia e mentendo al padre. Con un solo atto hanno trasgredito quasi tutti i comandamenti (onora il padre, non uccidere, non rapire, non dire falsa testimonianza, non desiderare i beni del prossimo), diventando così campioni di immoralità.

Eppure, da una situazione in cui tutti sono in qualche modo colpevoli (tutti hanno peccato, direbbe san Paolo), si passa ad una serie di eventi che danno a tutti la possibilità di rimettersi in discussione: Giuda, protagonista nella vendita del fratello, capisce cosa significa per un padre perdere un figlio quando perderà due figli e avrà paura di perdere anche l’ultimo rimasto (Gen 38); Giuseppe capirà attraverso l’esperienza della prigione che la sua condizione di preferito era determinata dalla scelta di altri e non da una sua prerogativa intrinseca (Gen 39-40); la sua salita al potere non sarà  vissuta, quindi, come un recupero dei privilegi ma come un’occasione per fare del bene alla collettività: la condizione di benessere non è un modo per separarsi dagli altri, ma per sentirsene responsabili. I fratelli, sperimentando una prigione ingiusta, si ricorderanno dell’angoscia di Giuseppe nel pozzo e si assumeranno la responsabilità per il male fatto (Gen 42,21). Giacobbe, quando finalmente vedrà tutti i suoi figli riuniti, si congederà da essi dando a ciascuno una sua benedizione, non valutandoli più in base alle sue preferenze, ma guardando alle loro reali qualità (Gen 49). Ma la vera svolta in questa vicenda avviene quando proprio Giuda, quello che ha pensato di vendere Giuseppe come schiavo, si offre al posto di Beniamino per essere schiavo di Giuseppe, mettendo inconsapevolmente riparo al danno che aveva causato al fratello e facendo proprio il dolore del padre per Beniamino, che ora viene accettato da Giuda nella sua condizione di preferito del padre (Gen 44,32-33).

La storia di Giuseppe e dei fratelli è un capolavoro assoluto che supera i limiti della religione, universalizzando quei valori che sono stati trasmessi anche attraverso le religioni ma sono patrimonio innato dell’umanità a cui questa storia dice che, se essa vuole vivere senza distruggersi, deve riconoscere che è necessario dare sempre nuove possibilità gli uni agli altri, assumendosi la responsabilità di riconoscere ciascuno le proprie colpe per saper accogliere il punto di vista dell’altro e superare i conflitti attraverso il perdono solidale. Quando questo avviene Dio è all’opera e non c’è bisogno di avere prove della sua esistenza perché lo riconosciamo nel volto dell’altro.☺

 

 

 

 

 

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