Siamo cristiani e laici. Siamo esseri umani tanto radicati nell’esperienza di chiesa quanto radicati nella vita che condividiamo con tutti gli uomini e le donne di questo tempo. Ma come si fa a tenere il piede in due scarpe? Come vivere questa scomoda posizione di giocare una fedeltà a due mondi?
Prima di provare a capire come si abita questa duplice appartenenza facendoci guidare dalla Scrittura, è utile richiamarsi in breve – a mo’ di cartone animato – alle origini storico-culturali di questa situazione.
All’origine della vicenda cristiana c’è un mondo mediterraneo, giudaico e poi greco-romano, che ha la sua ‘cultura’, un certo modo di vivere, di capire le cose, certe convenzioni su ciò che è accettabile e ciò che va rifiutato…; la schiavitù era normale, c’era un certo modello di famiglia, e così via.
Il cristianesimo nasce in una provincia periferica di questo mondo – non certo al centro del dibattito culturale – come esperienza di alcuni, un gruppetto di persone che, incontrando questo Rabbi, facendo l’esperienza della sequela di Gesù, e poi della sua morte e resurrezione, si ritrovano a dover destrutturate e ristrutturare tutto il loro modo di vivere. Nei primissimi anni vivono come tutti gli altri. Il libro degli Atti degli Apostoli ci dice che continuano ad andare a pregare al tempio come prima. Ma, contemporaneamente, di ogni cosa cominciano a chiedersi se funziona, se è giusto, non più rispetto alla loro cultura, ma rispetto all’esperienza fatta con Gesù. Nelle lettere di Paolo troviamo persone che gli chiedono: “Si può mangiare la carne offerta agli idoli?” In fondo, se Gesù è l’unico Signore, gli idoli non sono niente, dunque la carne offerta agli idoli costa pure meno… Si può o no? C’è qualcosa di strano? È chiaro, a noi fa un po’ ridere, ma in quella cultura quella carne era una cosa sacra, non si poteva toccare. I primi cristiani cominciano a porsi il problema. Paolo dice: ok, gli idoli non sono nulla, dunque quella carne è buona come l’altra, se conviene compratela, ma… se qualcuno fra di voi ne fosse scandalizzato, piuttosto non compratela, perché il primo criterio è la carità, il rispetto di chi eventualmente non capisce. In questo lui mette un nuovo criterio.
In questo cerchio grande che era la cultura mediterranea, il piccolo puntino dei seguaci di Gesù comincia ad allargarsi e ad impregnare di sé tutto. E questo più o meno fino al millecento, milledue, all’epoca cosiddetta gregoriana, in cui tutta la cultura è rielaborata in categorie cristiane. Non c’è più una cultura mediterranea che non sia detta cristianamente – benché alcuni ci credevano, altri no, esattamente come oggi; ma il linguaggio condiviso, sociale, era automaticamente cristiano. Il tempo si contava dall’Ave Maria all’Angelus, dall’Angelus al Vespro. Nessuno di noi oggi direbbe: ci vediamo al Vespro, ma ci vediamo alle cinque, alle sette, perché noi, culturalmente, non abbiamo più una mediazione religiosa, abbiamo una mediazione nata dalla rivoluzione scientifica: precisione, una misura oggettiva. Fino al dodicesimo secolo, invece, tutto è detto in linguaggio cristiano.
Processo di secolarizzazione
Poi comincia il processo della secolarizzazione: l’economia, la politica, la filosofia, la scienza cominciano a chiedersi perché bisogna fidarsi più della Bibbia che di quello che è possibile vedere, e cominciano a volere un’autonomia, a volere una mediazione culturale che non sia religiosa. E i due cerchi rimangono, ma non sono più perfettamente sovrapposti, cominciano a slittare, e questo si chiama secolarizzazione: tutti quei pezzi di vita non hanno più una mediazione concettuale di tipo religioso. E, dall’altra parte, tutti i pezzi di “religioso” non hanno più una base di vita su cui poggiare. Ci si chiede, ad esempio, perché bisogna fare certi riti, i sette primi venerdì, i nove primi sabati…
Noi siamo alla fine di questo processo: i due cerchi sono completamente separati, non hanno più nessun punto sovrapposto. Si toccano in un punto solo: la coscienza dell’individuo. Ognuno di noi è attraversato dalla separazione del religioso e del ‘laico’. Abbiamo dunque dentro tutti e due i mondi. Da una parte, ragioniamo come uomini e donne di questo secolo sull’economia, le assicurazioni, le pensioni, i criteri per comprare una casa…, non ci verrebbe in mente che questo sia un problema religioso! E poi, dall’altra, se siamo credenti, abbiamo le cose religiose: andiamo a messa la domenica – che è un’altra cosa, passiamo da un cerchio all’altro -; abbiamo la sensazione che, per essere credenti, bisogna fare delle cose religiose: fare incontri di preghiera, leggere la Bibbia… Altrimenti faccio solo delle cose laiche.
Spero sia chiaro che questa è un’aberrazione totale, nel senso che non c’è una vita e poi il suo doppio religioso; c’è una vita sola. Quando dobbiamo mettere insieme questi due cerchi, abbiamo il problema del rapporto fede e vita e ci chiediamo: che cosa implica nel lavoro il fatto che sono credente? E cominciamo a fare tutte quelle alchimie: certo, beati i poveri, ma se io faccio il commercialista, non posso impoverire i miei clienti, non funziona così! Beati i poveri è una cosa poetica, religiosa, che fa sì che non esageri troppo, ma poi nella sostanza le regole dell’economia, sono oggettive… Sto un po’ ironizzando, ma cerco di far vedere dove sta il problema. Noi dunque abbiamo il problema della fedeltà a due città, nel senso che per noi esistono due città… e ci farebbe paura che ne esistesse una sola, perché noi chiamiamo questo teocrazia o fanatismo.
Chiesa chi sei?
L’ideale che tutto debba di nuovo passare per una mediazione religiosa non ci sembra tanto un ideale, ci sembra un passo indietro; sarebbe come tornare alla teocrazia, al papa re. L’altro ideale sarebbe che non ci fosse più il religioso, solo il laico, e che tutti siamo dispersi nel mondo delle cose? No. La questione è seria. Per questo c’è stato il Vaticano secondo che si è chiesto: ‘Chiesa chi sei?’, proprio a questo proposito. In questa situazione cosa vuol dire pensare una chiesa, che cosa deve fare una chiesa? Nella logica teocratica una chiesa è un potere come tutti gli altri e se è più forte è meglio, perché può mediare culturalmente i valori, le leggi, le abitudini culturali. Per esempio in Italia, non duecento anni fa ma negli anni sessanta, il venerdì santo la radio e la televisione trasmettevano solo musica perché c’era ancora un tale potere della chiesa, che a noi attualmente pare troppo – se uno vuol fare il venerdì santo, può anche tenerla spenta, la televisione. Dall’altra parte, che sia un giorno in cui non c’è più nessun rimando sociale a ciò che accade fa sì che metà di noi, credenti con tutte le migliori intenzioni, vanno a lavorare quel mattino del venerdì santo come tutte le altre mattine; arrivano alle sei di sera e si ricordano che era venerdì santo. Io lavoro in un’università pontificia; nel bar e nella mensa della nostra università nei venerdì di quaresima e nel venerdì santo tu trovi normalmente la carne. Non hai nessuna mediazione culturale.
Questo è il problema dell’essere cittadini di due città. Un bel problema, interessante, ma che nella Bibbia non c’è. Non avevano questo problema. È qualcosa che non era previsto nell’antichità. Nelle società teocratiche nell’antichità l’idea di autorità era il padre, il maschio, padre di famiglia, che rappresenta le autorità, il re e il papa, che a loro volta sono direttamente investiti da Dio; altro che laicità! Dunque noi dobbiamo fare un percorso nella Scrittura che è un po’ strano, perché dobbiamo cercare qualcosa che la Scrittura non ci offre. Ma dobbiamo cercare degli elementi che ci conducano a trovare i criteri per ciò che la nostra cultura ci offre. È la situazione più difficile per noi. E in questo è sempre in agguato una lettura ideologica della Bibbia. Cioè, se io decido che un problema si risolve facendo la scelta dei poveri e la guerra di liberazione in America Latina, troverò tutti i testi che difendono i poveri. Ma se io decido che quel problema si risolve avendo un governo che fa leggi che garantiscono i cattolici, nella Bibbia troverò tutti i testi che dicono che il re deve proteggere il suo popolo. E se io ho deciso che quello stesso problema si risolve in un altro modo ancora, troverò tutti i testi che difendono la mia ipotesi.
Nel percorso all’interno della Scrittura dobbiamo cercare dei criteri per affrontare questo problema, e non delle soluzioni, perché, ripeto, questo problema non c’è nella Scrittura. E io sto dalla parte di quelli che pensano che non sappiamo ancora quale sarà la forma possibile di questa fedeltà ai due mondi. E ritengo che guardare indietro e dire ‘com’era bello cinquant’anni fa’ non serve. Dobbiamo avere il coraggio di vincere la depressione e andare verso il futuro, sapendo che il cristianesimo negli ultimi quindici secoli non si era più trovato in una situazione così. Abbiamo quindi proprio perso memoria di come si fa, e dobbiamo avere santa pazienza. ☺
Da Adista 42/2009
Siamo cristiani e laici. Siamo esseri umani tanto radicati nell’esperienza di chiesa quanto radicati nella vita che condividiamo con tutti gli uomini e le donne di questo tempo. Ma come si fa a tenere il piede in due scarpe? Come vivere questa scomoda posizione di giocare una fedeltà a due mondi?
Prima di provare a capire come si abita questa duplice appartenenza facendoci guidare dalla Scrittura, è utile richiamarsi in breve – a mo’ di cartone animato – alle origini storico-culturali di questa situazione.
All’origine della vicenda cristiana c’è un mondo mediterraneo, giudaico e poi greco-romano, che ha la sua ‘cultura’, un certo modo di vivere, di capire le cose, certe convenzioni su ciò che è accettabile e ciò che va rifiutato…; la schiavitù era normale, c’era un certo modello di famiglia, e così via.
Il cristianesimo nasce in una provincia periferica di questo mondo – non certo al centro del dibattito culturale – come esperienza di alcuni, un gruppetto di persone che, incontrando questo Rabbi, facendo l’esperienza della sequela di Gesù, e poi della sua morte e resurrezione, si ritrovano a dover destrutturate e ristrutturare tutto il loro modo di vivere. Nei primissimi anni vivono come tutti gli altri. Il libro degli Atti degli Apostoli ci dice che continuano ad andare a pregare al tempio come prima. Ma, contemporaneamente, di ogni cosa cominciano a chiedersi se funziona, se è giusto, non più rispetto alla loro cultura, ma rispetto all’esperienza fatta con Gesù. Nelle lettere di Paolo troviamo persone che gli chiedono: “Si può mangiare la carne offerta agli idoli?” In fondo, se Gesù è l’unico Signore, gli idoli non sono niente, dunque la carne offerta agli idoli costa pure meno… Si può o no? C’è qualcosa di strano? È chiaro, a noi fa un po’ ridere, ma in quella cultura quella carne era una cosa sacra, non si poteva toccare. I primi cristiani cominciano a porsi il problema. Paolo dice: ok, gli idoli non sono nulla, dunque quella carne è buona come l’altra, se conviene compratela, ma… se qualcuno fra di voi ne fosse scandalizzato, piuttosto non compratela, perché il primo criterio è la carità, il rispetto di chi eventualmente non capisce. In questo lui mette un nuovo criterio.
In questo cerchio grande che era la cultura mediterranea, il piccolo puntino dei seguaci di Gesù comincia ad allargarsi e ad impregnare di sé tutto. E questo più o meno fino al millecento, milledue, all’epoca cosiddetta gregoriana, in cui tutta la cultura è rielaborata in categorie cristiane. Non c’è più una cultura mediterranea che non sia detta cristianamente – benché alcuni ci credevano, altri no, esattamente come oggi; ma il linguaggio condiviso, sociale, era automaticamente cristiano. Il tempo si contava dall’Ave Maria all’Angelus, dall’Angelus al Vespro. Nessuno di noi oggi direbbe: ci vediamo al Vespro, ma ci vediamo alle cinque, alle sette, perché noi, culturalmente, non abbiamo più una mediazione religiosa, abbiamo una mediazione nata dalla rivoluzione scientifica: precisione, una misura oggettiva. Fino al dodicesimo secolo, invece, tutto è detto in linguaggio cristiano.
Processo di secolarizzazione
Poi comincia il processo della secolarizzazione: l’economia, la politica, la filosofia, la scienza cominciano a chiedersi perché bisogna fidarsi più della Bibbia che di quello che è possibile vedere, e cominciano a volere un’autonomia, a volere una mediazione culturale che non sia religiosa. E i due cerchi rimangono, ma non sono più perfettamente sovrapposti, cominciano a slittare, e questo si chiama secolarizzazione: tutti quei pezzi di vita non hanno più una mediazione concettuale di tipo religioso. E, dall’altra parte, tutti i pezzi di “religioso” non hanno più una base di vita su cui poggiare. Ci si chiede, ad esempio, perché bisogna fare certi riti, i sette primi venerdì, i nove primi sabati…
Noi siamo alla fine di questo processo: i due cerchi sono completamente separati, non hanno più nessun punto sovrapposto. Si toccano in un punto solo: la coscienza dell’individuo. Ognuno di noi è attraversato dalla separazione del religioso e del ‘laico’. Abbiamo dunque dentro tutti e due i mondi. Da una parte, ragioniamo come uomini e donne di questo secolo sull’economia, le assicurazioni, le pensioni, i criteri per comprare una casa…, non ci verrebbe in mente che questo sia un problema religioso! E poi, dall’altra, se siamo credenti, abbiamo le cose religiose: andiamo a messa la domenica – che è un’altra cosa, passiamo da un cerchio all’altro -; abbiamo la sensazione che, per essere credenti, bisogna fare delle cose religiose: fare incontri di preghiera, leggere la Bibbia… Altrimenti faccio solo delle cose laiche.
Spero sia chiaro che questa è un’aberrazione totale, nel senso che non c’è una vita e poi il suo doppio religioso; c’è una vita sola. Quando dobbiamo mettere insieme questi due cerchi, abbiamo il problema del rapporto fede e vita e ci chiediamo: che cosa implica nel lavoro il fatto che sono credente? E cominciamo a fare tutte quelle alchimie: certo, beati i poveri, ma se io faccio il commercialista, non posso impoverire i miei clienti, non funziona così! Beati i poveri è una cosa poetica, religiosa, che fa sì che non esageri troppo, ma poi nella sostanza le regole dell’economia, sono oggettive… Sto un po’ ironizzando, ma cerco di far vedere dove sta il problema. Noi dunque abbiamo il problema della fedeltà a due città, nel senso che per noi esistono due città… e ci farebbe paura che ne esistesse una sola, perché noi chiamiamo questo teocrazia o fanatismo.
Chiesa chi sei?
L’ideale che tutto debba di nuovo passare per una mediazione religiosa non ci sembra tanto un ideale, ci sembra un passo indietro; sarebbe come tornare alla teocrazia, al papa re. L’altro ideale sarebbe che non ci fosse più il religioso, solo il laico, e che tutti siamo dispersi nel mondo delle cose? No. La questione è seria. Per questo c’è stato il Vaticano secondo che si è chiesto: ‘Chiesa chi sei?’, proprio a questo proposito. In questa situazione cosa vuol dire pensare una chiesa, che cosa deve fare una chiesa? Nella logica teocratica una chiesa è un potere come tutti gli altri e se è più forte è meglio, perché può mediare culturalmente i valori, le leggi, le abitudini culturali. Per esempio in Italia, non duecento anni fa ma negli anni sessanta, il venerdì santo la radio e la televisione trasmettevano solo musica perché c’era ancora un tale potere della chiesa, che a noi attualmente pare troppo – se uno vuol fare il venerdì santo, può anche tenerla spenta, la televisione. Dall’altra parte, che sia un giorno in cui non c’è più nessun rimando sociale a ciò che accade fa sì che metà di noi, credenti con tutte le migliori intenzioni, vanno a lavorare quel mattino del venerdì santo come tutte le altre mattine; arrivano alle sei di sera e si ricordano che era venerdì santo. Io lavoro in un’università pontificia; nel bar e nella mensa della nostra università nei venerdì di quaresima e nel venerdì santo tu trovi normalmente la carne. Non hai nessuna mediazione culturale.
Questo è il problema dell’essere cittadini di due città. Un bel problema, interessante, ma che nella Bibbia non c’è. Non avevano questo problema. È qualcosa che non era previsto nell’antichità. Nelle società teocratiche nell’antichità l’idea di autorità era il padre, il maschio, padre di famiglia, che rappresenta le autorità, il re e il papa, che a loro volta sono direttamente investiti da Dio; altro che laicità! Dunque noi dobbiamo fare un percorso nella Scrittura che è un po’ strano, perché dobbiamo cercare qualcosa che la Scrittura non ci offre. Ma dobbiamo cercare degli elementi che ci conducano a trovare i criteri per ciò che la nostra cultura ci offre. È la situazione più difficile per noi. E in questo è sempre in agguato una lettura ideologica della Bibbia. Cioè, se io decido che un problema si risolve facendo la scelta dei poveri e la guerra di liberazione in America Latina, troverò tutti i testi che difendono i poveri. Ma se io decido che quel problema si risolve avendo un governo che fa leggi che garantiscono i cattolici, nella Bibbia troverò tutti i testi che dicono che il re deve proteggere il suo popolo. E se io ho deciso che quello stesso problema si risolve in un altro modo ancora, troverò tutti i testi che difendono la mia ipotesi.
Nel percorso all’interno della Scrittura dobbiamo cercare dei criteri per affrontare questo problema, e non delle soluzioni, perché, ripeto, questo problema non c’è nella Scrittura. E io sto dalla parte di quelli che pensano che non sappiamo ancora quale sarà la forma possibile di questa fedeltà ai due mondi. E ritengo che guardare indietro e dire ‘com’era bello cinquant’anni fa’ non serve. Dobbiamo avere il coraggio di vincere la depressione e andare verso il futuro, sapendo che il cristianesimo negli ultimi quindici secoli non si era più trovato in una situazione così. Abbiamo quindi proprio perso memoria di come si fa, e dobbiamo avere santa pazienza. ☺
Siamo cristiani e laici. Siamo esseri umani tanto radicati nell’esperienza di chiesa quanto radicati nella vita che condividiamo con tutti gli uomini e le donne di questo tempo. Ma come si fa a tenere il piede in due scarpe? Come vivere questa scomoda posizione di giocare una fedeltà a due mondi?
Prima di provare a capire come si abita questa duplice appartenenza facendoci guidare dalla Scrittura, è utile richiamarsi in breve – a mo’ di cartone animato – alle origini storico-culturali di questa situazione.
All’origine della vicenda cristiana c’è un mondo mediterraneo, giudaico e poi greco-romano, che ha la sua ‘cultura’, un certo modo di vivere, di capire le cose, certe convenzioni su ciò che è accettabile e ciò che va rifiutato…; la schiavitù era normale, c’era un certo modello di famiglia, e così via.
Il cristianesimo nasce in una provincia periferica di questo mondo – non certo al centro del dibattito culturale – come esperienza di alcuni, un gruppetto di persone che, incontrando questo Rabbi, facendo l’esperienza della sequela di Gesù, e poi della sua morte e resurrezione, si ritrovano a dover destrutturate e ristrutturare tutto il loro modo di vivere. Nei primissimi anni vivono come tutti gli altri. Il libro degli Atti degli Apostoli ci dice che continuano ad andare a pregare al tempio come prima. Ma, contemporaneamente, di ogni cosa cominciano a chiedersi se funziona, se è giusto, non più rispetto alla loro cultura, ma rispetto all’esperienza fatta con Gesù. Nelle lettere di Paolo troviamo persone che gli chiedono: “Si può mangiare la carne offerta agli idoli?” In fondo, se Gesù è l’unico Signore, gli idoli non sono niente, dunque la carne offerta agli idoli costa pure meno… Si può o no? C’è qualcosa di strano? È chiaro, a noi fa un po’ ridere, ma in quella cultura quella carne era una cosa sacra, non si poteva toccare. I primi cristiani cominciano a porsi il problema. Paolo dice: ok, gli idoli non sono nulla, dunque quella carne è buona come l’altra, se conviene compratela, ma… se qualcuno fra di voi ne fosse scandalizzato, piuttosto non compratela, perché il primo criterio è la carità, il rispetto di chi eventualmente non capisce. In questo lui mette un nuovo criterio.
In questo cerchio grande che era la cultura mediterranea, il piccolo puntino dei seguaci di Gesù comincia ad allargarsi e ad impregnare di sé tutto. E questo più o meno fino al millecento, milledue, all’epoca cosiddetta gregoriana, in cui tutta la cultura è rielaborata in categorie cristiane. Non c’è più una cultura mediterranea che non sia detta cristianamente – benché alcuni ci credevano, altri no, esattamente come oggi; ma il linguaggio condiviso, sociale, era automaticamente cristiano. Il tempo si contava dall’Ave Maria all’Angelus, dall’Angelus al Vespro. Nessuno di noi oggi direbbe: ci vediamo al Vespro, ma ci vediamo alle cinque, alle sette, perché noi, culturalmente, non abbiamo più una mediazione religiosa, abbiamo una mediazione nata dalla rivoluzione scientifica: precisione, una misura oggettiva. Fino al dodicesimo secolo, invece, tutto è detto in linguaggio cristiano.
Processo di secolarizzazione
Poi comincia il processo della secolarizzazione: l’economia, la politica, la filosofia, la scienza cominciano a chiedersi perché bisogna fidarsi più della Bibbia che di quello che è possibile vedere, e cominciano a volere un’autonomia, a volere una mediazione culturale che non sia religiosa. E i due cerchi rimangono, ma non sono più perfettamente sovrapposti, cominciano a slittare, e questo si chiama secolarizzazione: tutti quei pezzi di vita non hanno più una mediazione concettuale di tipo religioso. E, dall’altra parte, tutti i pezzi di “religioso” non hanno più una base di vita su cui poggiare. Ci si chiede, ad esempio, perché bisogna fare certi riti, i sette primi venerdì, i nove primi sabati…
Noi siamo alla fine di questo processo: i due cerchi sono completamente separati, non hanno più nessun punto sovrapposto. Si toccano in un punto solo: la coscienza dell’individuo. Ognuno di noi è attraversato dalla separazione del religioso e del ‘laico’. Abbiamo dunque dentro tutti e due i mondi. Da una parte, ragioniamo come uomini e donne di questo secolo sull’economia, le assicurazioni, le pensioni, i criteri per comprare una casa…, non ci verrebbe in mente che questo sia un problema religioso! E poi, dall’altra, se siamo credenti, abbiamo le cose religiose: andiamo a messa la domenica – che è un’altra cosa, passiamo da un cerchio all’altro -; abbiamo la sensazione che, per essere credenti, bisogna fare delle cose religiose: fare incontri di preghiera, leggere la Bibbia… Altrimenti faccio solo delle cose laiche.
Spero sia chiaro che questa è un’aberrazione totale, nel senso che non c’è una vita e poi il suo doppio religioso; c’è una vita sola. Quando dobbiamo mettere insieme questi due cerchi, abbiamo il problema del rapporto fede e vita e ci chiediamo: che cosa implica nel lavoro il fatto che sono credente? E cominciamo a fare tutte quelle alchimie: certo, beati i poveri, ma se io faccio il commercialista, non posso impoverire i miei clienti, non funziona così! Beati i poveri è una cosa poetica, religiosa, che fa sì che non esageri troppo, ma poi nella sostanza le regole dell’economia, sono oggettive… Sto un po’ ironizzando, ma cerco di far vedere dove sta il problema. Noi dunque abbiamo il problema della fedeltà a due città, nel senso che per noi esistono due città… e ci farebbe paura che ne esistesse una sola, perché noi chiamiamo questo teocrazia o fanatismo.
Chiesa chi sei?
L’ideale che tutto debba di nuovo passare per una mediazione religiosa non ci sembra tanto un ideale, ci sembra un passo indietro; sarebbe come tornare alla teocrazia, al papa re. L’altro ideale sarebbe che non ci fosse più il religioso, solo il laico, e che tutti siamo dispersi nel mondo delle cose? No. La questione è seria. Per questo c’è stato il Vaticano secondo che si è chiesto: ‘Chiesa chi sei?’, proprio a questo proposito. In questa situazione cosa vuol dire pensare una chiesa, che cosa deve fare una chiesa? Nella logica teocratica una chiesa è un potere come tutti gli altri e se è più forte è meglio, perché può mediare culturalmente i valori, le leggi, le abitudini culturali. Per esempio in Italia, non duecento anni fa ma negli anni sessanta, il venerdì santo la radio e la televisione trasmettevano solo musica perché c’era ancora un tale potere della chiesa, che a noi attualmente pare troppo – se uno vuol fare il venerdì santo, può anche tenerla spenta, la televisione. Dall’altra parte, che sia un giorno in cui non c’è più nessun rimando sociale a ciò che accade fa sì che metà di noi, credenti con tutte le migliori intenzioni, vanno a lavorare quel mattino del venerdì santo come tutte le altre mattine; arrivano alle sei di sera e si ricordano che era venerdì santo. Io lavoro in un’università pontificia; nel bar e nella mensa della nostra università nei venerdì di quaresima e nel venerdì santo tu trovi normalmente la carne. Non hai nessuna mediazione culturale.
Questo è il problema dell’essere cittadini di due città. Un bel problema, interessante, ma che nella Bibbia non c’è. Non avevano questo problema. È qualcosa che non era previsto nell’antichità. Nelle società teocratiche nell’antichità l’idea di autorità era il padre, il maschio, padre di famiglia, che rappresenta le autorità, il re e il papa, che a loro volta sono direttamente investiti da Dio; altro che laicità! Dunque noi dobbiamo fare un percorso nella Scrittura che è un po’ strano, perché dobbiamo cercare qualcosa che la Scrittura non ci offre. Ma dobbiamo cercare degli elementi che ci conducano a trovare i criteri per ciò che la nostra cultura ci offre. È la situazione più difficile per noi. E in questo è sempre in agguato una lettura ideologica della Bibbia. Cioè, se io decido che un problema si risolve facendo la scelta dei poveri e la guerra di liberazione in America Latina, troverò tutti i testi che difendono i poveri. Ma se io decido che quel problema si risolve avendo un governo che fa leggi che garantiscono i cattolici, nella Bibbia troverò tutti i testi che dicono che il re deve proteggere il suo popolo. E se io ho deciso che quello stesso problema si risolve in un altro modo ancora, troverò tutti i testi che difendono la mia ipotesi.
Nel percorso all’interno della Scrittura dobbiamo cercare dei criteri per affrontare questo problema, e non delle soluzioni, perché, ripeto, questo problema non c’è nella Scrittura. E io sto dalla parte di quelli che pensano che non sappiamo ancora quale sarà la forma possibile di questa fedeltà ai due mondi. E ritengo che guardare indietro e dire ‘com’era bello cinquant’anni fa’ non serve. Dobbiamo avere il coraggio di vincere la depressione e andare verso il futuro, sapendo che il cristianesimo negli ultimi quindici secoli non si era più trovato in una situazione così. Abbiamo quindi proprio perso memoria di come si fa, e dobbiamo avere santa pazienza. ☺
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.