C’è che spesso mi aggiro col naso all’insù. Non è questione di alterigia, solo l’aria mi pare più saporita della terra e poi bisogna pur divergere per sopravvivere. La gran parte mi va bene: salvataggio in corner e riprendo il controllo. Talora, però, la gabella.
Così, nel post-ferragosto campobassano, caldo che impazzava e igrometri fusi, naso all’insù scappo da una casa rovente, tacchete ed esco, la chiave nella toppa, versante interno. Ahi.
Le sette di sera. Ovvia telefonata al fratello: io lievemente frigno, lui saldamente rimbrotta, ma arriva solerte. Prima prova di scasso con lastra radiografica nell’interstizio della porta: la porta decisa resiste. Seconda telefonata, all’amico vigile del fuoco, però in ferie: arrossisco già a digitare il numero. Pronto intervento dell’amico: altrettale insistito tentativo con lastra frangiporta, altrettale niente. La mia porta sghimbescia, che a vederla verrebbe giù al sospiro di una donnina sottopeso, rivendica la sua funzione.
Ultimo inevitabile Sos: i vigili del fuoco.
Mi hanno fatto sempre simpatia i vigili: sarà che li associo al rosso dei carri-attrezzo, e il rosso è il colore della vita che pulsa; sarà che da bambina sono stata ammaliata da Grisù, il draghetto controcorrente con ambizioni da pompiere; sarà che i vigili del fuoco fuor di paradosso sono tra i pochi corpi in divisa non armati di fuoco, non armati proprio, se non di strumenti di lavoro. Mi suggeriscono operosità e attitudine al sorriso i vigili.
E mi sono piaciuti dal vero i vigili del fuoco del mio agosto 2010, mi hanno fatto pensare quanto l’agire di certi lavoratori ci sia indispensabile e quanti siano tra le varie categorie di lavoratori quelli dediti e onesti, quanti ne ho incontrati di persona, blateri pure al contrario qualche nostro ministro che gli italiani sarebbero per buona quota negletti, indi punire, tagliare, id est non pagare.
Ore otto. I vigili arrivano sotto casa col loro carro-attrezzi enorme dotato di braccio-scala arrampicatore e balconcino terminale; trovare il parcheggio è un’impresa: superata, la prima. Si procede. Fase numero uno: salgono speranzosi cinque piani di scale a piedi, provano su e giù per la porta, a turni, un’ora di su e giù, compresi quelli per i cinque piani di scale, prendi e lascia strumenti diversi, controlla il camion, avverti la centrale. Sul pianerottolo qualcosa come quaranta gradi. Erano in tre, sudavano a vista, e io con loro, vuoi il caldo vuoi la vergogna. Per spartirla, la vergogna, mi sono fatta forte del comitato di un’amica, anche lei chiamata con premura, anche lei pronta al richiamo; e meno male, perché è una persona capace di sdrammatizzare, non per superficialità, ma per dote di intelligenza. Orazio, arguto ma bonario sempre, sosteneva che ridiculum acri fortius et melius magnas plerumque secat res, che uno scherzo tronca con più forza e decisione di un tono severo le questioni più gravi. La mia amica ci riesce, alla perfezione.
I vigili intanto non un momento di fastidio manifesto, non una volgarità, non una parola fuor di luogo; fatica unicamente e garbo nel volto. Ma la porta no.
Fase numero due. Le finestre della veranda sono aperte, celate solo dalla zanzariere: si intervenga dall’esterno, dunque. Sì, proprio di quelle scene da film americano che finanche al cinema ti fanno venire le vertigini, i vigili come sospesi per aria, il braccio della gru a segnare il cielo con la sua trama di romboidi e un pieno di vuoto. Dalla paura mi si sono sciolte le ginocchia, per dirla con Omero; i vigili imperterriti. Manovre e contromanovre col carro-attrezzi, acrobazie geometriche del braccio scala rampicatore, spettatori affacciati dai balconi e pubblico sottostante in evidente visibilio: lì lì per arrivare, ma un cavo della luce ha impedito di accostarsi oltre alla mia veranda, perciò retro-front, ridiscendere. Ore dieci, fase numero tre. Si passa al trapano: un’ora di faccende al trapano i vigili, alternati l’un l’altro, per spingere la chiave così bellamente stabilitasi nel cilindretto della toppa, farla cadere e finalmente entrare. Ed è accaduto: undici di sera, tre ore dall’inizio dell’operazione.
Il pompiere per chi non lo sa è un domatore di qualità, così scriveva Gianni Rodari in una delle sue filastrocche: vero, per esperienza; l’inno dei vigili canta portiamo soccorso a chi ci chiede aiuto, un giorno senza rischi è un giorno non vissuto: verissimo, se ripenso ai vigili stagliati nel cielo di fronte al mio balcone.
Nel catalogo delle rampogne civiche sempre possibili – e sempre facili – un fiore di soddisfazione e speranza.
Io non dimenticherò, né dimenticherò che il quattro dicembre ricorre la festa di Santa Barbara, martire cristiana e protettrice dei vigili. Gli accadimenti della vita suscitano curiosità e moltiplicano conoscenze; ho fatto le mie indagini e sono venuta a sapere che Barbara, neofita cristiana di famiglia pagana, rifiutatasi di abiurare dalla nuova fede, venne pertanto decapitata il quattro dicembre del 306 d.C. dal padre stesso, il quale, però, fu immediatamente colpito da un fulmine e morì: quasi per antifrasi, Barbara sarebbe diventata la protettrice di tutti coloro che muoiono d’improvviso o per cause legate alla presenza del fuoco, artiglieri e fuochisti, ma anche carpentieri e vigili appunto.
Ai vigili va con questo resoconto il mio grazie. E se a qualcuno sembrasse un trattamento di troppo favore, tanto commenterei: come me suone, cuscì te cant. Parola di Eugenio Cirese.☺
LucianaZingaro@libero.it
C’è che spesso mi aggiro col naso all’insù. Non è questione di alterigia, solo l’aria mi pare più saporita della terra e poi bisogna pur divergere per sopravvivere. La gran parte mi va bene: salvataggio in corner e riprendo il controllo. Talora, però, la gabella.
Così, nel post-ferragosto campobassano, caldo che impazzava e igrometri fusi, naso all’insù scappo da una casa rovente, tacchete ed esco, la chiave nella toppa, versante interno. Ahi.
Le sette di sera. Ovvia telefonata al fratello: io lievemente frigno, lui saldamente rimbrotta, ma arriva solerte. Prima prova di scasso con lastra radiografica nell’interstizio della porta: la porta decisa resiste. Seconda telefonata, all’amico vigile del fuoco, però in ferie: arrossisco già a digitare il numero. Pronto intervento dell’amico: altrettale insistito tentativo con lastra frangiporta, altrettale niente. La mia porta sghimbescia, che a vederla verrebbe giù al sospiro di una donnina sottopeso, rivendica la sua funzione.
Ultimo inevitabile Sos: i vigili del fuoco.
Mi hanno fatto sempre simpatia i vigili: sarà che li associo al rosso dei carri-attrezzo, e il rosso è il colore della vita che pulsa; sarà che da bambina sono stata ammaliata da Grisù, il draghetto controcorrente con ambizioni da pompiere; sarà che i vigili del fuoco fuor di paradosso sono tra i pochi corpi in divisa non armati di fuoco, non armati proprio, se non di strumenti di lavoro. Mi suggeriscono operosità e attitudine al sorriso i vigili.
E mi sono piaciuti dal vero i vigili del fuoco del mio agosto 2010, mi hanno fatto pensare quanto l’agire di certi lavoratori ci sia indispensabile e quanti siano tra le varie categorie di lavoratori quelli dediti e onesti, quanti ne ho incontrati di persona, blateri pure al contrario qualche nostro ministro che gli italiani sarebbero per buona quota negletti, indi punire, tagliare, id est non pagare.
Ore otto. I vigili arrivano sotto casa col loro carro-attrezzi enorme dotato di braccio-scala arrampicatore e balconcino terminale; trovare il parcheggio è un’impresa: superata, la prima. Si procede. Fase numero uno: salgono speranzosi cinque piani di scale a piedi, provano su e giù per la porta, a turni, un’ora di su e giù, compresi quelli per i cinque piani di scale, prendi e lascia strumenti diversi, controlla il camion, avverti la centrale. Sul pianerottolo qualcosa come quaranta gradi. Erano in tre, sudavano a vista, e io con loro, vuoi il caldo vuoi la vergogna. Per spartirla, la vergogna, mi sono fatta forte del comitato di un’amica, anche lei chiamata con premura, anche lei pronta al richiamo; e meno male, perché è una persona capace di sdrammatizzare, non per superficialità, ma per dote di intelligenza. Orazio, arguto ma bonario sempre, sosteneva che ridiculum acri fortius et melius magnas plerumque secat res, che uno scherzo tronca con più forza e decisione di un tono severo le questioni più gravi. La mia amica ci riesce, alla perfezione.
I vigili intanto non un momento di fastidio manifesto, non una volgarità, non una parola fuor di luogo; fatica unicamente e garbo nel volto. Ma la porta no.
Fase numero due. Le finestre della veranda sono aperte, celate solo dalla zanzariere: si intervenga dall’esterno, dunque. Sì, proprio di quelle scene da film americano che finanche al cinema ti fanno venire le vertigini, i vigili come sospesi per aria, il braccio della gru a segnare il cielo con la sua trama di romboidi e un pieno di vuoto. Dalla paura mi si sono sciolte le ginocchia, per dirla con Omero; i vigili imperterriti. Manovre e contromanovre col carro-attrezzi, acrobazie geometriche del braccio scala rampicatore, spettatori affacciati dai balconi e pubblico sottostante in evidente visibilio: lì lì per arrivare, ma un cavo della luce ha impedito di accostarsi oltre alla mia veranda, perciò retro-front, ridiscendere. Ore dieci, fase numero tre. Si passa al trapano: un’ora di faccende al trapano i vigili, alternati l’un l’altro, per spingere la chiave così bellamente stabilitasi nel cilindretto della toppa, farla cadere e finalmente entrare. Ed è accaduto: undici di sera, tre ore dall’inizio dell’operazione.
Il pompiere per chi non lo sa è un domatore di qualità, così scriveva Gianni Rodari in una delle sue filastrocche: vero, per esperienza; l’inno dei vigili canta portiamo soccorso a chi ci chiede aiuto, un giorno senza rischi è un giorno non vissuto: verissimo, se ripenso ai vigili stagliati nel cielo di fronte al mio balcone.
Nel catalogo delle rampogne civiche sempre possibili – e sempre facili – un fiore di soddisfazione e speranza.
Io non dimenticherò, né dimenticherò che il quattro dicembre ricorre la festa di Santa Barbara, martire cristiana e protettrice dei vigili. Gli accadimenti della vita suscitano curiosità e moltiplicano conoscenze; ho fatto le mie indagini e sono venuta a sapere che Barbara, neofita cristiana di famiglia pagana, rifiutatasi di abiurare dalla nuova fede, venne pertanto decapitata il quattro dicembre del 306 d.C. dal padre stesso, il quale, però, fu immediatamente colpito da un fulmine e morì: quasi per antifrasi, Barbara sarebbe diventata la protettrice di tutti coloro che muoiono d’improvviso o per cause legate alla presenza del fuoco, artiglieri e fuochisti, ma anche carpentieri e vigili appunto.
Ai vigili va con questo resoconto il mio grazie. E se a qualcuno sembrasse un trattamento di troppo favore, tanto commenterei: come me suone, cuscì te cant. Parola di Eugenio Cirese.☺
C’è che spesso mi aggiro col naso all’insù. Non è questione di alterigia, solo l’aria mi pare più saporita della terra e poi bisogna pur divergere per sopravvivere. La gran parte mi va bene: salvataggio in corner e riprendo il controllo. Talora, però, la gabella.
Così, nel post-ferragosto campobassano, caldo che impazzava e igrometri fusi, naso all’insù scappo da una casa rovente, tacchete ed esco, la chiave nella toppa, versante interno. Ahi.
Le sette di sera. Ovvia telefonata al fratello: io lievemente frigno, lui saldamente rimbrotta, ma arriva solerte. Prima prova di scasso con lastra radiografica nell’interstizio della porta: la porta decisa resiste. Seconda telefonata, all’amico vigile del fuoco, però in ferie: arrossisco già a digitare il numero. Pronto intervento dell’amico: altrettale insistito tentativo con lastra frangiporta, altrettale niente. La mia porta sghimbescia, che a vederla verrebbe giù al sospiro di una donnina sottopeso, rivendica la sua funzione.
Ultimo inevitabile Sos: i vigili del fuoco.
Mi hanno fatto sempre simpatia i vigili: sarà che li associo al rosso dei carri-attrezzo, e il rosso è il colore della vita che pulsa; sarà che da bambina sono stata ammaliata da Grisù, il draghetto controcorrente con ambizioni da pompiere; sarà che i vigili del fuoco fuor di paradosso sono tra i pochi corpi in divisa non armati di fuoco, non armati proprio, se non di strumenti di lavoro. Mi suggeriscono operosità e attitudine al sorriso i vigili.
E mi sono piaciuti dal vero i vigili del fuoco del mio agosto 2010, mi hanno fatto pensare quanto l’agire di certi lavoratori ci sia indispensabile e quanti siano tra le varie categorie di lavoratori quelli dediti e onesti, quanti ne ho incontrati di persona, blateri pure al contrario qualche nostro ministro che gli italiani sarebbero per buona quota negletti, indi punire, tagliare, id est non pagare.
Ore otto. I vigili arrivano sotto casa col loro carro-attrezzi enorme dotato di braccio-scala arrampicatore e balconcino terminale; trovare il parcheggio è un’impresa: superata, la prima. Si procede. Fase numero uno: salgono speranzosi cinque piani di scale a piedi, provano su e giù per la porta, a turni, un’ora di su e giù, compresi quelli per i cinque piani di scale, prendi e lascia strumenti diversi, controlla il camion, avverti la centrale. Sul pianerottolo qualcosa come quaranta gradi. Erano in tre, sudavano a vista, e io con loro, vuoi il caldo vuoi la vergogna. Per spartirla, la vergogna, mi sono fatta forte del comitato di un’amica, anche lei chiamata con premura, anche lei pronta al richiamo; e meno male, perché è una persona capace di sdrammatizzare, non per superficialità, ma per dote di intelligenza. Orazio, arguto ma bonario sempre, sosteneva che ridiculum acri fortius et melius magnas plerumque secat res, che uno scherzo tronca con più forza e decisione di un tono severo le questioni più gravi. La mia amica ci riesce, alla perfezione.
I vigili intanto non un momento di fastidio manifesto, non una volgarità, non una parola fuor di luogo; fatica unicamente e garbo nel volto. Ma la porta no.
Fase numero due. Le finestre della veranda sono aperte, celate solo dalla zanzariere: si intervenga dall’esterno, dunque. Sì, proprio di quelle scene da film americano che finanche al cinema ti fanno venire le vertigini, i vigili come sospesi per aria, il braccio della gru a segnare il cielo con la sua trama di romboidi e un pieno di vuoto. Dalla paura mi si sono sciolte le ginocchia, per dirla con Omero; i vigili imperterriti. Manovre e contromanovre col carro-attrezzi, acrobazie geometriche del braccio scala rampicatore, spettatori affacciati dai balconi e pubblico sottostante in evidente visibilio: lì lì per arrivare, ma un cavo della luce ha impedito di accostarsi oltre alla mia veranda, perciò retro-front, ridiscendere. Ore dieci, fase numero tre. Si passa al trapano: un’ora di faccende al trapano i vigili, alternati l’un l’altro, per spingere la chiave così bellamente stabilitasi nel cilindretto della toppa, farla cadere e finalmente entrare. Ed è accaduto: undici di sera, tre ore dall’inizio dell’operazione.
Il pompiere per chi non lo sa è un domatore di qualità, così scriveva Gianni Rodari in una delle sue filastrocche: vero, per esperienza; l’inno dei vigili canta portiamo soccorso a chi ci chiede aiuto, un giorno senza rischi è un giorno non vissuto: verissimo, se ripenso ai vigili stagliati nel cielo di fronte al mio balcone.
Nel catalogo delle rampogne civiche sempre possibili – e sempre facili – un fiore di soddisfazione e speranza.
Io non dimenticherò, né dimenticherò che il quattro dicembre ricorre la festa di Santa Barbara, martire cristiana e protettrice dei vigili. Gli accadimenti della vita suscitano curiosità e moltiplicano conoscenze; ho fatto le mie indagini e sono venuta a sapere che Barbara, neofita cristiana di famiglia pagana, rifiutatasi di abiurare dalla nuova fede, venne pertanto decapitata il quattro dicembre del 306 d.C. dal padre stesso, il quale, però, fu immediatamente colpito da un fulmine e morì: quasi per antifrasi, Barbara sarebbe diventata la protettrice di tutti coloro che muoiono d’improvviso o per cause legate alla presenza del fuoco, artiglieri e fuochisti, ma anche carpentieri e vigili appunto.
Ai vigili va con questo resoconto il mio grazie. E se a qualcuno sembrasse un trattamento di troppo favore, tanto commenterei: come me suone, cuscì te cant. Parola di Eugenio Cirese.☺
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