la mafia madre
16 Aprile 2010 Share

la mafia madre

 

Caro Don Antonio,

le ho espresso la mia gioia nel dare una sbirciata alla realtà della chiesa che è in Termoli. Sono stato colpito dalla semplicità dei tratti di tutti voi, dall’apertura ai problemi del nostro tempo, dalle molteplici iniziative, dalla “voglia di regno”. Una nota grigia in tutto questa scoperta era data dalla percezione che vi sentite nel Molise quasi assediati dalla mafia, un po’ come una fortezza attorno alla quale si stanno preparando losche truppe di assalto. Ed io che vivo in questa realtà già invasa dalla mafia, già fin troppo violenta (in mille modi) e fin troppo collusa con poteri di qualsiasi tipo, comprendo bene questa paura e vorrei stare dalla parte della vostra speranza, della vostra determinazione a resistere. Forse avete ancora un margine di manovra perché la gente rifiuti questa oscena colonizzazione, questa conversione all’abbrutimento.

Dovremmo essere noi preti gli specialisti dell’antimafia, perché abbiamo in mano tutti i mezzi per contrastare quella “mafia-madre” che genera la “mafia-figlia”, cioè la stessa concreta organizzazione malavitosa. Al fondo di tutto (se proprio voglio guardare la storia della mia gente) sa cosa c’è? Il persistere, nonostante due millenni di era cristiana, che il vero uomo non è l’uomo comune, ma il “signore”, colui che dispone della vita degli altri, che non lavora, ma vive su quella specie di subumani nati per permettere a pochi “signori”, appunto, una vita nell’ozio e nella festa perpetua. Gli stati, quelli moderni almeno, nascono per contrastare questo strapotere che, anche grazie al cristianesimo, veniva sempre più contestato, ma, proprio per questo, veniva esercitato con sempre maggiore virulenza e barbaro arbitrio. Nella mia Terra lo Stato è stato sempre assente. Il potere dei “signori” si è sempre alleato con altri poteri. E la gente si è ribellata a questa schiavitù millenaria ed ha cominciato a pensare che “uomini di onore” (un nuovo tipo di “signori”) potevano diventarlo tutti quelli che avevano fegato e nulla da perdere, “se non le catene” – direbbe qualcuno… Ecco, si reagisce allo strapotere creandone un altro. Si vive la stessa logica che Isaia descrive in quella lapidaria frase attribuita a Babilonia: “Io, e fuori di me nessuno”. Disumano il potere dei “signori”, disumano quello degli “uomini di onore”. Ingiuste le ricchezze dei “signori”, grondano sangue quelle dei mafiosi. Ad un clan di eletti si oppone un altro clan. E se il fine del dominio e della ricchezza smodata giustifica i “signori” nelle loro imprese, dove a pagare sono sempre i poveri, lo stesso fine giustifica i signori della lupara. La sola differenza: mezzi poveri, furbizia, clandestinità, segreto, corruzione, contro mezzi ricchi, efficienti, leggi imposte nell’interesse dei padroni di sempre, armi di stato, parlamenti, tribunali… E come i “signori” credono di potere agire secondo il vangelo, perché l’ordine imposto da loro sarebbe voluto da Dio, così anche nelle case dei mafiosi abbondano bibbie e santini a supporto della presunta riscossa dei povericristi contro l’umiliazione inflitta dai ricchi. Comunque una sorta di connaturalità di fini spiega la facilità con cui i due “poteri” – se necessario – si alleano, il “rispetto” che anche da uomini sedicenti cristiani viene tributato ad un capocosca, ad un uomo della “cupola”.

Ai giovani

Forse si sta chiedendo, Don Antonio, perché le sto dicendo queste cose. Ecco, vorrei supplicarla di parlare ai giovani e di dire loro che la resistenza morale e cristiana all’invasione mafiosa del Molise parte da lontano o è inutile. Parte dal rifiuto della “mafia-madre”, cioè dal non sentirsi “esseri assoluti” (“Io, e nessuno fuori di me!”), dallo scoprire che nessun “potere” dell’uomo sull’uomo è umano, tanto meno cristiano (unico potere voluto dal “Figlio dell’uomo” è quello di servire, di stare dalla parte della vita e della gioia di chi abbiamo di fronte), dal convincersi che non abbiamo bisogno di nulla per sentirci unici, non intercambiabili, preziosi, perché ci basta la nostra umanità fatta di amore, tenerezza, voglia di bello di vero e di bene, dal rendersi conto che essi, proprio i giovani, hanno in mano il futuro umano della loro Terra o la barbarie e l’orrore della paura quotidiana, delle strade intrise di sangue, della giustizia venduta ai potenti.

Dovrei aggiungere forse che devono guardarsi come dalla peste dalla voglia di farsi raccomandare, dal venire a patti con la loro coscienza, dal bullismo, dalla droga che immette in un mondo dove la mafia prospera e dal cui smercio trae capitali per soffocare ogni iniziativa di imprenditori onesti e di piccoli commercianti che osano affacciarsi ad una vita dignitosa? Certo che dovrei, ma è inutile. Questi atteggiamenti sono difficili per i giovani proprio perché si sono guardati troppo poco dal farsi infettare dalla “mafia-madre”. Un vescovo siciliano, collegato per parentela ad una famiglia mafiosa, asserì decenni fa che “la chiesa non è contro nessuno, non è antimafia, ma pro vangelo”. Potrei essere d’accordo con lui se non sapessi che “la luce splende nelle tenebre, ma queste fanno di tutto per spegnerla” – dice il vangelo di Giovanni. Allora la luce è o non è contro le tenebre? Ma una cosa è certa. La mafia non sarebbe dovuta mai nascere in terra cristiana perché avrebbe dovuto essere chiaro a tutti i cristiani che non esistono “signori” ma fratelli, non esistono sottouomini ma figli di Dio redenti dal Cristo, che la ricchezza, se esorbita la necessità della vita è “iniqua”, cioè furto, che ogni uomo è così prezioso da venire sempre prima delle cose, prima dei capricci dell’individuo, che il nostro vero destino è l’essere ciascuno “uomo-per- gli- altri”; dunque una società dove legge “nuova” è la pace e la condivisione di ciò che abbiamo e di ciò che siamo. Se questa è utopia del “poeta” Gesù, se tutto ciò è “sogno”, tentino questi ragazzi di dire addio al loro cristianesimo e di essere meno ipocriti. E si preparino ad essere “uomini di onore”. Ma so che per quanti Lei avvicina Gesù non è un illuso infiocchettatore delle nostre catene, ma un liberatore dalle nostre paure, un “redentore” delle nostre nefandezze, l’unica speranza data agli uomini per vivere da umani.

 Forse, Don Antonio, senza quasi volerlo, ho espresso i miei auguri per Lei, i sacerdoti incontrati, Il padre Vescovo, quella bella realtà che ho avuto la possibilità di intravedere.   

 

Con fraterni saluti

 

*Gesuita, vive e lavora a Messina

 

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