La solitudine
12 Febbraio 2025
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La solitudine

È come un batuffolo lieve, ma ferisce di spada L’ora di greco, romanzo della coreana Han Kang, vincitrice lo scorso anno del premio Nobel per la letteratura col suo romanzo La vegetariana.
Edito in Italia da Adelphi nel 2023, L’ora di greco è la storia semplice ma non ordinaria di due solitudini che casualmente si incontrano, si misurano con cautela, infine si incastrano l’una nell’altra, riuscendo, forse, a rimediare alla durezza e alla violenza della vita e della storia. 
I due protagonisti del romanzo, dei quali mai viene fatto il nome, sono segnati da una “mancanza”, che impedisce loro di comunicarsi e comunicare a pieno col mondo: lei ha perso l’uso del linguaggio dopo la morte della madre, la separazione dal marito, soprattutto l’allontanamento dal figlio, affidato all’ex coniuge, ma in realtà “quella cosa”, il silenzio coatto e improvviso, l’ha già colpita da ragazza, mentre per assurdo il linguaggio era stato per lei un’ossessione viva e pungente fin da bambina; lui è un professore di greco affetto da un difetto congenito della vista, sempre più incerta ed appannata, della quale egli sa per certo di dover rimanere in breve del tutto privo; anche il protagonista maschile, che a lungo ha vissuto in Germania prima di tornare nella sua Corea, ha dovuto affrontare il fallimento di un amore non fiorito e la perdita di un amico del cuore, eventi che hanno infittito quella percezione di distanza dal mondo che già il suo sguardo offeso nutriva. “C’era una spada tra di noi”: è la frase con cui si apre il libro, la frase che Borges, prima di morire, aveva espresso il desiderio venisse scritta sulla sua lapide e che, trascurando ogni altra interpretazione di carattere critico-letterario, il professore di greco intende come confessione “pacata e personale”, un’allusione alla “lama potente e affilata” della cecità che si frapponeva tra Borges e il mondo, come si frappone tra il professore di greco del romanzo e il mondo.
Sullo sfondo di una Seoul contemporanea estiva ed afosa attraversata da comparse indistinte e scossa dalle convulsioni rigide della metropoli, quasi un contrappunto sensoriale all’inabilità dei protagonisti, la donna e l’uomo si incontrano nell’aula dell’accademia privata dove il professore tiene le sue lezioni di greco antico che la donna frequenta, come se quella lingua così lontana nel tempo e nello spazio, così rigida e acerba e vera quanto a coefficiente di adesione alle cose da dire possa divenire uno strumento utile a vincere la lotta contro il mutismo che, dolorante ma ostinata, lei non smette di affrontare.
In uno strano percorso di corteggiamento fatto di silenzi e di ombre, di parole in greco scritte dal professore alla lavagna che la donna incide, quasi scava sul suo quaderno di appunti, di sorrisi appena accennati e di fughe dettate dalla vergogna della rispettiva “minori- tà”, le due solitudini, prima guardinghe, lentamente si avvicinano fino a precipitare l’una sull’ altra e a fondersi l’una nell’altra, senza potersi avvalere reciprocamente dei consueti ponti di comunicazione interumana, la vista e la parola, e recuperando per forza di cose la capacità comunicativa primigenia, autentica e trascurata di altri canali di condivisione, l’olfatto e il tatto, in particolare; ed è in questa complicità sensoriale sui generis che dalle loro perdite i due, sembrerebbe, riescono a riemergere alla vita.
L’ora di greco è un romanzo coinvolgente, che coniuga delicatezza e crudeltà e fa pensare a quanta solitudine abiti le nostre vite, a quanto sia facile rimanere intrappolati nei propri traumi senza possibilità di farli arrivare a qualcun altro, a quanto, viceversa, sia vitale rompere la trincea dietro la quale per dolore ci barrichiamo. Pur mettendo a tema l’importanza della lingua ed essendo popolato da tante lingue, dal coreano al tedesco al greco antico al Braille, a fronte della naturale usura delle lingue o comunque della loro incapacità di soddisfare in tutto le esigenze comunicative degli uomini, L’ora di greco scopre una dimensione comunicativa sensoriale che, suscitando una parola essenziale, penetrante ed evocativa insieme, una parola poetica, riabilita il linguaggio dal silenzio effettivo nel quale esso spesso si tramuta.
Lo stesso tracciato del romanzo, del resto, si svolge sotto forma di una prosa minimale che nel corso del racconto si asciuga sempre più, assumendo le fattezze di una poesia salmodica, quasi il canto di chi sa di vivere nella perdita, ma sente di poter affiorare ad una dimensione nuova, di nascere ad un’altra vita.
Sembrava che a baciarmi fosse il tempo/ Ad ogni contatto di labbra si addensava un buio desolato./
Il silenzio si ammassava come neve che cancella per sempre le tracce./ Arrivando fin sopra alle ginocchia, alla vita, al viso./
Sono le parole che il professore quasi cieco scrive, ripensando alla prima notte d’amore con la donna muta: profonde, ingenue, forti, come la poesia.☺

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