mancata partenza    di Dario Carlone
1 Novembre 2012 Share

mancata partenza di Dario Carlone

 

Rapidità, innovazione, successo: tre parole, tre caratteristiche attribuibili alle moderne attività imprenditoriali in campo telematico che vengono pubblicizzate con il nome di start-up [pronuncia: start-ap].

Il verbo inglese start, per effetto di un uso consolidato nella lingua italiana, appare di facile ed immediata comprensione; nel linguaggio dello sport start corrisponde al “via”, alla “partenza”, mentre in un’automobile lo starter identifica il dispositivo di avviamento, la cosiddetta “aria”!

La locuzione che prendiamo in esame affianca al verbo la preposizione semplice up [pronuncia: ap] che di per sé ha il significato di “su, in alto”, ma che nella costruzione dei verbi denominati “frasali” non rispetta la medesima valenza semantica. L’intero termine start-up, sia come sostantivo che come verbo, traduce l’azione di avviamento, fondazione, costituzione di qualcosa.

In realtà il vocabolo ha fatto la sua comparsa nel campo dell’informatica, denotando il momento di accensione ed avvio di un programma; da qui è poi passato a indicare le fasi di avviamento di una impresa, il periodo iniziale dell’attività, i momenti di programmazione e ricerca funzionali al lavoro successivo. Come accaduto per molte altre delle denominazioni coniate per indicare agevolmente un oggetto, start-up è ora diventato, quasi per antonomasia, il nome delle imprese attive sul fronte del Web, quelle che offrono servizi informatici, quelle per le quali lo strumento principale di lavoro e di relazione è il computer collegato in rete. E proprio perché l’ambiente di lavoro diventa il Web la velocità diventa la peculiarità ed anche il grande merito di imprese del genere, capaci di mantenersi al passo coi tempi, di inseguire le aspettative dei potenziali clienti, di raggiungere notorietà, ma soprattutto conseguire i dovuti e “meritati” profitti.

Lentezza, ritardi, fallimento: tre parole per dieci lunghi anni di promesse non mantenute; tre parole che riassumono le migliaia di “vuote” parole che in tutto questo tempo si sono sprecate, insieme a tanto denaro dirottato arbitrariamente verso altri obiettivi; la fotografia impietosa di una ricostruzione che non c’è – (c’è mai stata?).

Nei dieci anni dal terremoto che ha interessato l’area del cratere, il Molise non è stato un’impresa innovativa, non si è configurato come una start-up. Eppure le premesse c’erano tutte: la tragedia – come successivamente la cronaca ci ha mostrato relativamente ad altre regioni italiane – poteva essere superata attraverso la consapevolezza di un avvio, di un nuovo inizio, come una start-up che pianifica attraverso ricerche ed indagini, che mette in conto rischi e pericoli, che si affida alla maturità e alla responsabilità dei suoi componenti, che verifica fin dalle prime battute l’andamento e la positività della direzione presa.

Ha mai abitato la parola “ricostruzione” in questa nostra terra? Abbiamo noi molisani avuto la percezione che tutto quanto fosse necessario per la sicurezza e la vivibilità dei nostri paesi è stato fatto? Non abbiamo forse abdicato alla nostra autonomia di giudizio e perpetuato l’esercizio della delega anche quando ciò riguardava i nostri bisogni primari?

Quella che avrebbe dovuto essere, e non soltanto in senso metaforico, la nostra start-up si è ormai arenata, riconducendoci ad uno stile di vita che non sembra avere risentito delle spinte della modernità; sono riemersi infatti, in questi ultimi anni soprattutto, clientele e favoritismi, promesse ed illusioni, taciute ma sempre più evidenti ingiustizie.

A decennio concluso sembra essersi aperta la porta della disperazione.☺

dario.carlone@tiscali.it

                                                                                                    

 

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