morti sul lavoro
19 Aprile 2010 Share

morti sul lavoro

 

Ma perché continuano a chiamarle “morti bianche”? Come se le morti sul lavoro fossero solo una tragica fatalità… morti più “pulite” delle altre, come se avvenissero senza sangue. Ed, invece, si tratta di morti ancor più intollerabili ed ingiuste. A lavorare si va per guadagnarsi il pane e per realizzare la propria personalità, per sentirsi uomini e cittadini. Non per perdere la vita.

E il dolore è lacerante se si pensa che sovente la morte arriva a causa dell’incuria e dell’indifferenza di chi avrebbe dovuto tutelare i lavoratori sul luogo di lavoro, applicando le norme poste a protezione della sicurezza (D. Lgs. 626/1994 e successive modificazioni e integrazioni, con corollario di decreti ministeriali applicativi e specificativi fino a giungere agli ultimi interventi dell’attuale Governo in materia di sicurezza nei cantieri).

Non solo. La giurisprudenza, chiamata più volte a pronunciarsi sul punto, sostiene che il datore di lavoro e i preposti delegati ad occuparsi della sicurezza dei dipendenti debbano adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno. Tale idoneità, enunciano i giudici, va valutata in relazione allo stato attuale della scienza e della tecnica, anche se, in ipotesi, le misure in concreto suggerite dalla moderna tecnica non fossero previste da precise disposizioni legislative.

E’ cronaca di questi giorni l’immane tragedia avvenuta in un oleificio umbro, nel quale hanno perso la vita, dilaniati e bruciati, quattro uomini, dipendenti di una ditta esterna che aveva avuto in appalto da una potente multinazionale – titolare dell’oleificio – la manutenzione della struttura. Si attribuisce il grave incidente alle scintille provocate da una saldatrice o allo scoppio di una caldaia: lo stabiliranno i periti. Quello che sembra certo, già dalle prime indagini nonché dalle dinamica dell’accaduto, è che non si tratti di una tragica fatalità, ma di fatti che potevano essere evitati. “Un attimo e i miei compagni non c’erano più, ho visto i loro corpi volare e ricadere a terra a pezzi”, sono le parole dell’operaio sopravvissuto.

Chi scrive ha vissuto indirettamente il dramma della morte sul lavoro, allorquando, patrocinando una causa per un lavoratore e telefonando a casa sua per avere chiarimenti ai fini della redazione di un ricorso, abbiamo saputo da un familiare che Antonio era morto cadendo dalla tettoia di una fornace, mentre lavorava. E questo è accaduto in Molise, dove le morti sul lavoro sono all’ordine del giorno.

La trascuratezza degli imprenditori è sicuramente una delle cause. Tuttavia essa va considerata unitamente alle carenze del servizio ispettivo istituzionalmente deputato alla vigilanza sulla sicurezza nelle aziende. Per tali ragioni tanti lavoratori, tra i quali molti giovani, come si evince da recenti statistiche, cadono sul luogo di lavoro. Spesso si tratta di clandestini, e la loro morte è ancora più anonima.

Qui non si vogliono fornire ricette sulla soluzione del problema della sicurezza, che va affrontato con forza e va combattuto su più fronti, come ha promesso di fare il Governo Prodi anche in via d’urgenza, ma si vuole richiamare l’attenzione sulla centralità che l’uomo deve riacquisire nella nostra società. Quel che ci vuole è un mutamento culturale, verso una sorta di nuovo umanesimo che, quando si parla di lavoro, riporti il lavoratore al centro, per far sì che non se ne parli più, in particolare nel freddo gergo aziendalista, come di una mera “risorsa umana” e che non impari sulla propria pelle “che l’inferno è sulla terra”. ☺

 

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