
Non in nome dell’ebraismo
Questo mese lascio la parola alla riflessione del gruppo di studi ebraici di Torino, a testimonianza del fatto, qualora ce ne fosse bisogno, che l’ebraismo è più grande di chi lo offende uccidendo in suo nome vittime innocenti.
Lo scorso novembre, il ministro israeliano dell’edilizia abitativa e delle costruzioni Goldknopf ha visitato le zone al confine con la Striscia di Gaza accompagnato nel suo tour dalla pasionaria dei coloni, Daniella Weiss, leader di un’ organizzazione estremista che promuove la colonizzazione della Cisgiordania, la quale da mesi fomenta per un reinsediamento ebraico nella Striscia, sostenendo che i palestinesi che vi abitano debbano essere cacciati perché “quella non è la loro terra”. Poche ore dopo, su X, Goldknopf ha affermato che “l’insediamento ebraico a Gaza è la risposta al terribile massacro del 7 ottobre e ai mandati di arresto della Corte penale internazionale dell’Aia contro Netanyahu e l’ex ministro della difesa Gallant”. A molti di coloro che osservano sui media la distruzione e la catastrofe umanitaria che ha luogo a Gaza viene naturale chiedersi come qualcuno, oltre ad essere insensibile o indifferente su quanto accade, possa pensare che questa tragedia – unita a quella del 7 ottobre – sia un’occasione propizia per riconquistare un luogo ripulendolo dei suoi abitanti, causando così ulteriore sofferenza e odio. Ma ancora di più, sconvolge che tutto questo venga avanzato in nome dell’ebraismo e di una supposta identità ebraica. I proclami della Weiss sono purtroppo soltanto una goccia nel mare in merito al distacco che, soprattutto negli ultimi mesi, abbiamo percepito tra i valori ebraici con i quali siamo cresciute/i, ammantati di umanesimo, rispetto all’ebraismo di certi individui, dove l’etno-nazionalismo, il fanatismo, la xenofobia e il militarismo prendono il sopravvento su tutto il resto. Per quanto siano emerse anche in Israele personalità ortodosse che hanno espresso preoccupazione o condanna per gli eventi in corso, continuiamo ad assistere a scene di coloni abbigliati con kippah e frange rituali che estirpano olivi, vessano famiglie e bruciano abitazioni in Cisgiordania o a vedere come, dall’inizio delle operazioni militari a Gaza, sia rabbini che soldati religiosi non abbiano scorto un evidente conflitto tra la loro fede e l’innumerevole perdita di civili che questa guerra sta causando. Ma anzi, molto più spesso hanno usato il proprio ebraismo o il pretesto della difesa del popolo ebraico a giustificazione delle loro azioni.
Il monito di fare attenzione a “non scatenare l’odio delle altre nazioni” sembra non preoccupare più, il governo israeliano in primis. Come sappiamo, sono presenti vari episodi nella Torah o nei Profeti, legati soprattutto alla conquista di Canaan o alle successive battaglie dei regni giudaici, talvolta interpretati come legittimazione all’uso della violenza e alla punizione collettiva nei confronti di altri popoli. Ad esempio, in Numeri 31, quando viene raccontata la guerra contro i madianiti: per vendicarsi dei madianiti che avevano provato a corrompere gli israeliti per condurli a praticare culti idolatrici, Mosé, nella guerra che ne conseguì, ordinò di ucciderli tutti, senza risparmiare né donne né bambini e di saccheggiare le loro città. Non a caso, gli eventi bellici contro i cananei o gli amaleciti sono stati presi sovente a pretesto dai gruppi fondamentalisti ebraici per giustificare le azioni violente di uccisione o espulsione nei confronti degli arabi. Questi sarebbero, secondo tale narrativa, i moderni eredi di suddetti popoli, considerati “nemici inconciliabili degli ebrei” per i quali non ci sarebbe altra alternativa che l’uso della forza per espellerli dalla terra promessa. Questi episodi nell’ermeneutica rabbinica e mistica posteriore sono stati però più spesso riletti in chiave allegorica e simbolica, per cui tali popoli biblici simboleggerebbero piuttosto tentazioni presenti all’interno dell’individuo per sedurlo e allontanarlo dalla fede monoteistica, una sorta di jihad interiore.
Non di meno, è onnipresente all’ interno della Bibbia l’impegno a perseguire la giustizia, a proteggere lo straniero, ad amare il prossimo (“non fare agli altri, ciò che è odioso per te: questa è tutta la Torah” come affermava Hillel il vecchio), all’essere “luce delle nazioni” come in Isaia, un popolo quindi di “sacerdoti modello per gli altri popoli”. È esplicativa la dura critica all’ interno del Talmud nei confronti degli zeloti e dei sicari, i quali sono persino accusati di aver contribuito alla distruzione di Gerusalemme e alla caduta del secondo Tempio. Essi, insieme alla legge mosaica, seguivano un militarismo e patriottismo cieco: difficile non intravedere in loro degli antesignani degli attuali nazionalisti-religiosi. Negli Avoth de-Rabbi Nathan è scritto “chi causa la morte di un solo uomo dev’essere considerato come se avesse causato la distruzione del mondo intero”. Maimonide affermava che “è meglio e più soddisfacente assolvere mille persone colpevoli che mettere a morte una sola innocente”, e il Maharal di Praga continuava sostenendo che “la legge ebraica vieta l’ uccisione di persone innocenti, anche nel corso di un legittimo impegno militare”. Il codice morale di Tsahal (Forza di difesa israeliana) si basa in parte anche sugli insegnamenti dell’etica ebraica, richiedendo esplicitamente ai soldati di “mante- nere la propria umanità anche in combattimento e di non danneggiare i non combattenti”. Tuttavia, nella guerra in corso soprattutto, questo principio sembra essere stato ulteriormente abbandonato, come dimostrerebbero le numerose testimonianze di crimini di guerra e uccisioni deliberate di civili. Secondo l’ex ministro Moshe Ya’alon l’esercito israeliano è impegnato in azioni di pulizia etnica nel nord della Striscia.
Tutte le culture religiose, anche quelle apparentemente più universaliste e lontane da un messaggio violento, non sono state in realtà immuni dal far nascere al loro interno fanatismo e disprezzo per l’altro. Molto spesso ciò è appunto legato a un problema di ermeneutica e di interpretazione più o meno letterale dei testi, ma a questo si accompagnano ovviamente anche la psicologia, la mentalità e la storia umana, i conflitti e i drammi vissuti da ciascun popolo. Se una lettura più sciovinista dei testi sacri è diventata oggi preponderante rispetto a un’altra più umanistica, ciò è quindi anche a causa dello spirito di questi tempi, della direzione che ha preso o sta prendendo l’umanità. L’essere umano cerca di trovare nei testi religiosi sempre qualcosa che giustifichi la propria condotta morale o i propri scopi mondani e politici. Friedrich Nietzsche scriveva in Al di là del bene e del male (1886) “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare lui stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te”. Una massima sempre degli Avoth gli fa eco “In un luogo dove non ci sono umani, sforzati di essere umano”, questo forse è ciò che davvero può distinguere l’ebrea/o in quest’epoca, attingendo alla propria eredità di popolo perseguitato e più volte escluso.
Estratto dalla Prima Pagina di Ha Keillah (La comunità), organo del Gruppo di Studi Ebraici di Torino, Dic. 2024.☺