Notte prima degli esili
«Quando mi torna in mente la visione tristissima di quella notte, delle ultime ore che passai a Roma, quando ripenso a quella notte in cui lasciai tanti miei affetti, ancora adesso mi si riga il viso di lacrime». A raccontare la sua partenza da Roma è il celebre poeta latino Ovidio, in una delle prime elegie del suo libro Tristia (I 3, vv. 1-4, qui nella traduzione di F. Lechi, Milano, Rizzoli, 1993). Mentre era al culmine del suo successo, nell’8 d.C., giunse per lui improvvisa la condanna, da parte dell’imperatore Augusto, all’esilio a Tomi, una remota cittadina del Mar Nero, oggi in Romania. Non se ne conosce il vero motivo: forse uno scandalo di corte, in cui si trovò implicata Giulia, la nipote di Augusto, condannata in quello stesso anno all’esilio sulle Isole Tremiti.
Quell’ultima notte prima dell’esilio è rievocata nella poesia Anime in pena di Alessandro Fo, pubblicato su «la fonte» di ottobre 2023 all’interno dell’articolo dal titolo Classici e prigionia: si tratta di una sorta di resoconto in versi dell’esame di Lingua e letteratura latina sostenuto in carcere da un detenuto della casa di reclusione di Ranza-San Gimignano, studente del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Siena. Alla domanda se volesse trattare di un argomento a piacere, aveva risposto: «Sì, di Ovidio./Dei Tristia. Ho letto nell’antologia/ l’ultima notte prima dell’esilio…/ Vede… Ho vissuto anch’io la stessa cosa…/ “Quando ripenso a quella notte in cui/ lasciai tutti i miei affetti”…».
Quel detenuto, lo scorso 25 settembre, ha conseguito la laurea triennale in Studi Letterari e Filosofici, con una tesi proprio sul suo amato poeta latino, dal titolo Sulla scia dell’Ovidio dei Tristia: eco (personali e) letterarie. Tracciando dei parallelismi fra quell’antica esperienza di sradicamento e la propria reclusione, ha esaminato alcuni romanzi di scrittori moderni che hanno ricostruito in modo finzionale le sofferenze patite da Ovidio al momento di lasciare i propri cari e durante tutto l’isolamento ai confini del mondo. In un importante capitolo autobiografico, ha inoltre ripercorso le sue vicende esistenziali, insistendo sul ruolo cruciale che ha giocato per lui, durante la prigionia, la scoperta della cultura come strumento di conversione personale e di riscatto.
La particolare sensibilità del Magistrato di Sorveglianza, che ha accordato un permesso speciale al detenuto, ha fatto sì che la discussione della tesi si sia potuta svolgere fuori dalle mura del carcere, direttamente in un’aula dell’Università. Un’aula gremita per l’occasione non solo di studenti e docenti, e di dipendenti del Polo Universitario Penitenziario, ma soprattutto di tanti volontari, gli stessi che da anni animano un’attività di seminari culturali all’interno dell’Istituto di pena di Ranza-San Gimignano.
Nel 2017 la Giunta Raggi ha riabilitato Ovidio, revocando, duemila anni dopo, la condanna comminatagli dall’imperatore e riparando il torto subito dal poeta, che morì in esilio nel 17 o nel 18 d.C., senza riuscire mai più a tornare a Roma. La pena del nostro detenuto, stando alla sua scheda, è in scadenza il 31 dicembre 9999 (tecnicamente, il «fine pena mai»)… Ma abbandonando sterili recriminazioni e inutili rancori, il neolaureato ha scelto, con questa tesi, di misurarsi con il proprio passato. E durante la discussione ha regalato ai numerosi partecipanti un’incredibile quanto inattesa riflessione, che vale come un prezioso frammento di saggezza. Concludendo la sua discussione, ha infatti dichiarato che come autentica pena le Istituzioni dovrebbero imporre ai condannati di studiare: perché, come avvenuto a lui personalmente, solo lo studio può acuirne la sensibilità, consentendo di maturare una piena consapevolezza degli errori commessi in passato e di volgersi verso nuovi e positivi orizzonti.☺