La recrudescenza dei fenomeni di razzismo e il famigerato quanto impreciso concetto di “Scontro di Civiltà” pongono oggi una serie di questioni che riguardano il rapporto tra l’Occidente e la sua falsa coscienza, l’“impresa” coloniale e le mistificazioni ideologiche ad essa collegate. Non è possibile negare, infatti, che l’ imperialismo e il progetto di sfruttamento economico delle colonie siano processi da porre immediatamente a monte dei disastri cui oggi assistiamo: guerre civili, odi etnici, emigrazione selvaggia, distruzione delle risorse locali delle zone sottoposte al giogo coloniale e capitalistico.
Interessanti sono anche gli equilibrismi ideologici ed estetici da sepolcro imbiancato della borghesia progressista occidentale (non considerando – ovviamente – il razzismo gretto di tutte le destre): fintanto che l’impresa imperialistica di conquista e controllo delle risorse delle zone del mondo sfruttate viene declinata come educazione alla democrazia, i nostri cari benpensanti di sinistra sentono forte il dovere di salire in cattedra e reclamare la propria parte di responsabilità in un progetto tanto legittimo. Salvo poi – quando lo stesso progetto si dimostrerà per quello che è realmente: un tentativo di estrazione di valore attraverso la forza militare, economica e ideologica – eccole pronte, le buone coscienze dei diritti umani, a dissentire con forza, a chiedere un trattamento più consono alle popolazioni che stanno solo adesso apprendendo i rudimenti della democrazia. E giù cortei, fiaccolate, feste folcloristiche attraverso cui si cerca di estrarre il senso buono dell’alterità – altrimenti assoluta ed indomabile, dell’altro.
Non vedere la natura militare, economica e il progetto ideologico che determina gli assetti mondiali e, dunque, le nuove guerre di conquista imperialistica, è criminale, soprattutto se ciò succede a sinistra: il buon senso e la coscienza pulita dei diritti umani è un’arma spuntata contro la prepotenza della conquista e organizzazione del potere economico-militare in giro per il mondo. Il razzismo non è un atteggiamento mentale, uno stato psicologico, ma il frutto di un impianto pratico e ideologico corrispondente alle istanze del colonialismo. Afferma Frantz Fanon che “Il razzismo salta agli occhi proprio perché rientra in un unico contesto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro gruppo che ha raggiunto uno stadio di sviluppo tecnico più avanzato. […] Bisogna smetterla di considerare il razzismo come un atteggiamento mentale, come una tara psicologica” (Scritti Politici, vol.1, DeriveApprodi Edizioni). Insomma, il razzismo non può essere mitigato, e di certo non eliminato, attraverso i buoni propositi dei progressisti occidentali: l’unica strategia per affrontare la questione risiede nella considerazione del rapporto tra razzismo e impianto ideologico-economico-militare che sostiene il colonialismo imperialistico occidentale. “Ospitare un clandestino” (iniziativa buonista delle menti democratiche italiane) è un palliativo inutile, sia da un punto di vista logistico che morale; anzi, misure del genere sembrano perpetuare lo squilibrio di rapporti di forze, sancendo l’impossibilità di modificarne radicalmente gli assetti ed adattandosi ad una serie di misure meno etiche che estetiche.
Altro dispositivo interno alla logica imperialistica è quello di temperare la carica assolutamente dirompente dell’alterità attraverso la sua assimilazione controllata, grazie alla costruzione di un patrimonio folclorico che compiace e diverte l’occidentale; per citare Žižek, tendiamo ad allontanare il nucleo di Godimento dell’altro (la profonda e scabrosa verità che è contenuta nella presenza di un altro che è estremamente diverso da noi), costruendo una figura più pacificante per il nostro occhio e gusto, fatta di rituali esotici e cibi speziati. Fanon afferma che il colonialismo tende a mantenere, non spazzando via, la cultura autoctona; piuttosto, e con lungimiranza, ne svuota il senso, ne sterilizza le possibilità progressive.
Il buon progressista cede, però, di fronte alla pervicacia con cui l’altro si accanisce nella difesa della sua identità, quando – spogliato di ogni altro bene – non gli resta che quella: il democratico occidentale allora si lascia prendere dai dubbi, e inizia a valutare l’ipotesi che il colonizzato abbia davvero bisogno di una scuola di democrazia, anche a costo di qualche forzatura militare.
La tortura, ad esempio, si colloca nello scenario delle guerre, come strumento implicitamente tollerato, a patto che lo si possa rimuovere, cancellare; come ogni netta cancellazione, però, il materiale ritorna dal Reale, trasformandosi in un incubo allucinatorio: esattamente quello che viene trasmesso, tra mille falsi pudori, dalle tv, e contenente scene di violenza su corpi senza anima. Le guerre umanitarie contengono in sé l’elemento perverso della tortura come loro profonda verità: come a dire che non c’è guerra senza tortura e violenza, né queste senza quella. Pare invece che i nostri progressisti e pacifisti dell’ultima ora credano (anime pie!) di poter depurare la guerra umanitaria dalla sua verità profonda, quella della violenza e del sopruso, dell’interesse economico che cela. Ancora con Fanon: “La tortura in Algeria non è un accidente, o un errore, o uno sbaglio. Il colonialismo non può essere compreso senza la possibilità della tortura, dello stupro, del massacro. La tortura è una modalità delle relazioni occupante-occupato”.
Oggi come ieri – quando Fanon scriveva con orgoglio da intellettuale militante – l’immigrato clandestino, il lavoratore sfruttato nei campi di frutta, il somalo trucidato da suo fratello, i raccoglitori di pomodori in lotta per i propri diritti a Rignano Garganico, rappresentano il sintomo del progetto di egemonia economica e culturale dell’occidente e, ancor di più, l’inadeguatezza attuale del pensiero progressista nel proporre una analisi ed una prassi che possano radicalmente ribaltare i rapporti di forza e non – solo e tristemente – fornire una sponda per l’organizzazione dell’ennesima, ridicola, festa folcloristica. ☺
La recrudescenza dei fenomeni di razzismo e il famigerato quanto impreciso concetto di “Scontro di Civiltà” pongono oggi una serie di questioni che riguardano il rapporto tra l’Occidente e la sua falsa coscienza, l’“impresa” coloniale e le mistificazioni ideologiche ad essa collegate. Non è possibile negare, infatti, che l’ imperialismo e il progetto di sfruttamento economico delle colonie siano processi da porre immediatamente a monte dei disastri cui oggi assistiamo: guerre civili, odi etnici, emigrazione selvaggia, distruzione delle risorse locali delle zone sottoposte al giogo coloniale e capitalistico.
Interessanti sono anche gli equilibrismi ideologici ed estetici da sepolcro imbiancato della borghesia progressista occidentale (non considerando – ovviamente – il razzismo gretto di tutte le destre): fintanto che l’impresa imperialistica di conquista e controllo delle risorse delle zone del mondo sfruttate viene declinata come educazione alla democrazia, i nostri cari benpensanti di sinistra sentono forte il dovere di salire in cattedra e reclamare la propria parte di responsabilità in un progetto tanto legittimo. Salvo poi – quando lo stesso progetto si dimostrerà per quello che è realmente: un tentativo di estrazione di valore attraverso la forza militare, economica e ideologica – eccole pronte, le buone coscienze dei diritti umani, a dissentire con forza, a chiedere un trattamento più consono alle popolazioni che stanno solo adesso apprendendo i rudimenti della democrazia. E giù cortei, fiaccolate, feste folcloristiche attraverso cui si cerca di estrarre il senso buono dell’alterità – altrimenti assoluta ed indomabile, dell’altro.
Non vedere la natura militare, economica e il progetto ideologico che determina gli assetti mondiali e, dunque, le nuove guerre di conquista imperialistica, è criminale, soprattutto se ciò succede a sinistra: il buon senso e la coscienza pulita dei diritti umani è un’arma spuntata contro la prepotenza della conquista e organizzazione del potere economico-militare in giro per il mondo. Il razzismo non è un atteggiamento mentale, uno stato psicologico, ma il frutto di un impianto pratico e ideologico corrispondente alle istanze del colonialismo. Afferma Frantz Fanon che “Il razzismo salta agli occhi proprio perché rientra in un unico contesto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro gruppo che ha raggiunto uno stadio di sviluppo tecnico più avanzato. […] Bisogna smetterla di considerare il razzismo come un atteggiamento mentale, come una tara psicologica” (Scritti Politici, vol.1, DeriveApprodi Edizioni). Insomma, il razzismo non può essere mitigato, e di certo non eliminato, attraverso i buoni propositi dei progressisti occidentali: l’unica strategia per affrontare la questione risiede nella considerazione del rapporto tra razzismo e impianto ideologico-economico-militare che sostiene il colonialismo imperialistico occidentale. “Ospitare un clandestino” (iniziativa buonista delle menti democratiche italiane) è un palliativo inutile, sia da un punto di vista logistico che morale; anzi, misure del genere sembrano perpetuare lo squilibrio di rapporti di forze, sancendo l’impossibilità di modificarne radicalmente gli assetti ed adattandosi ad una serie di misure meno etiche che estetiche.
Altro dispositivo interno alla logica imperialistica è quello di temperare la carica assolutamente dirompente dell’alterità attraverso la sua assimilazione controllata, grazie alla costruzione di un patrimonio folclorico che compiace e diverte l’occidentale; per citare Žižek, tendiamo ad allontanare il nucleo di Godimento dell’altro (la profonda e scabrosa verità che è contenuta nella presenza di un altro che è estremamente diverso da noi), costruendo una figura più pacificante per il nostro occhio e gusto, fatta di rituali esotici e cibi speziati. Fanon afferma che il colonialismo tende a mantenere, non spazzando via, la cultura autoctona; piuttosto, e con lungimiranza, ne svuota il senso, ne sterilizza le possibilità progressive.
Il buon progressista cede, però, di fronte alla pervicacia con cui l’altro si accanisce nella difesa della sua identità, quando – spogliato di ogni altro bene – non gli resta che quella: il democratico occidentale allora si lascia prendere dai dubbi, e inizia a valutare l’ipotesi che il colonizzato abbia davvero bisogno di una scuola di democrazia, anche a costo di qualche forzatura militare.
La tortura, ad esempio, si colloca nello scenario delle guerre, come strumento implicitamente tollerato, a patto che lo si possa rimuovere, cancellare; come ogni netta cancellazione, però, il materiale ritorna dal Reale, trasformandosi in un incubo allucinatorio: esattamente quello che viene trasmesso, tra mille falsi pudori, dalle tv, e contenente scene di violenza su corpi senza anima. Le guerre umanitarie contengono in sé l’elemento perverso della tortura come loro profonda verità: come a dire che non c’è guerra senza tortura e violenza, né queste senza quella. Pare invece che i nostri progressisti e pacifisti dell’ultima ora credano (anime pie!) di poter depurare la guerra umanitaria dalla sua verità profonda, quella della violenza e del sopruso, dell’interesse economico che cela. Ancora con Fanon: “La tortura in Algeria non è un accidente, o un errore, o uno sbaglio. Il colonialismo non può essere compreso senza la possibilità della tortura, dello stupro, del massacro. La tortura è una modalità delle relazioni occupante-occupato”.
Oggi come ieri – quando Fanon scriveva con orgoglio da intellettuale militante – l’immigrato clandestino, il lavoratore sfruttato nei campi di frutta, il somalo trucidato da suo fratello, i raccoglitori di pomodori in lotta per i propri diritti a Rignano Garganico, rappresentano il sintomo del progetto di egemonia economica e culturale dell’occidente e, ancor di più, l’inadeguatezza attuale del pensiero progressista nel proporre una analisi ed una prassi che possano radicalmente ribaltare i rapporti di forza e non – solo e tristemente – fornire una sponda per l’organizzazione dell’ennesima, ridicola, festa folcloristica. ☺
La recrudescenza dei fenomeni di razzismo e il famigerato quanto impreciso concetto di “Scontro di Civiltà” pongono oggi una serie di questioni che riguardano il rapporto tra l’Occidente e la sua falsa coscienza, l’“impresa” coloniale e le mistificazioni ideologiche ad essa collegate.
La recrudescenza dei fenomeni di razzismo e il famigerato quanto impreciso concetto di “Scontro di Civiltà” pongono oggi una serie di questioni che riguardano il rapporto tra l’Occidente e la sua falsa coscienza, l’“impresa” coloniale e le mistificazioni ideologiche ad essa collegate. Non è possibile negare, infatti, che l’ imperialismo e il progetto di sfruttamento economico delle colonie siano processi da porre immediatamente a monte dei disastri cui oggi assistiamo: guerre civili, odi etnici, emigrazione selvaggia, distruzione delle risorse locali delle zone sottoposte al giogo coloniale e capitalistico.
Interessanti sono anche gli equilibrismi ideologici ed estetici da sepolcro imbiancato della borghesia progressista occidentale (non considerando – ovviamente – il razzismo gretto di tutte le destre): fintanto che l’impresa imperialistica di conquista e controllo delle risorse delle zone del mondo sfruttate viene declinata come educazione alla democrazia, i nostri cari benpensanti di sinistra sentono forte il dovere di salire in cattedra e reclamare la propria parte di responsabilità in un progetto tanto legittimo. Salvo poi – quando lo stesso progetto si dimostrerà per quello che è realmente: un tentativo di estrazione di valore attraverso la forza militare, economica e ideologica – eccole pronte, le buone coscienze dei diritti umani, a dissentire con forza, a chiedere un trattamento più consono alle popolazioni che stanno solo adesso apprendendo i rudimenti della democrazia. E giù cortei, fiaccolate, feste folcloristiche attraverso cui si cerca di estrarre il senso buono dell’alterità – altrimenti assoluta ed indomabile, dell’altro.
Non vedere la natura militare, economica e il progetto ideologico che determina gli assetti mondiali e, dunque, le nuove guerre di conquista imperialistica, è criminale, soprattutto se ciò succede a sinistra: il buon senso e la coscienza pulita dei diritti umani è un’arma spuntata contro la prepotenza della conquista e organizzazione del potere economico-militare in giro per il mondo. Il razzismo non è un atteggiamento mentale, uno stato psicologico, ma il frutto di un impianto pratico e ideologico corrispondente alle istanze del colonialismo. Afferma Frantz Fanon che “Il razzismo salta agli occhi proprio perché rientra in un unico contesto: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro gruppo che ha raggiunto uno stadio di sviluppo tecnico più avanzato. […] Bisogna smetterla di considerare il razzismo come un atteggiamento mentale, come una tara psicologica” (Scritti Politici, vol.1, DeriveApprodi Edizioni). Insomma, il razzismo non può essere mitigato, e di certo non eliminato, attraverso i buoni propositi dei progressisti occidentali: l’unica strategia per affrontare la questione risiede nella considerazione del rapporto tra razzismo e impianto ideologico-economico-militare che sostiene il colonialismo imperialistico occidentale. “Ospitare un clandestino” (iniziativa buonista delle menti democratiche italiane) è un palliativo inutile, sia da un punto di vista logistico che morale; anzi, misure del genere sembrano perpetuare lo squilibrio di rapporti di forze, sancendo l’impossibilità di modificarne radicalmente gli assetti ed adattandosi ad una serie di misure meno etiche che estetiche.
Altro dispositivo interno alla logica imperialistica è quello di temperare la carica assolutamente dirompente dell’alterità attraverso la sua assimilazione controllata, grazie alla costruzione di un patrimonio folclorico che compiace e diverte l’occidentale; per citare Žižek, tendiamo ad allontanare il nucleo di Godimento dell’altro (la profonda e scabrosa verità che è contenuta nella presenza di un altro che è estremamente diverso da noi), costruendo una figura più pacificante per il nostro occhio e gusto, fatta di rituali esotici e cibi speziati. Fanon afferma che il colonialismo tende a mantenere, non spazzando via, la cultura autoctona; piuttosto, e con lungimiranza, ne svuota il senso, ne sterilizza le possibilità progressive.
Il buon progressista cede, però, di fronte alla pervicacia con cui l’altro si accanisce nella difesa della sua identità, quando – spogliato di ogni altro bene – non gli resta che quella: il democratico occidentale allora si lascia prendere dai dubbi, e inizia a valutare l’ipotesi che il colonizzato abbia davvero bisogno di una scuola di democrazia, anche a costo di qualche forzatura militare.
La tortura, ad esempio, si colloca nello scenario delle guerre, come strumento implicitamente tollerato, a patto che lo si possa rimuovere, cancellare; come ogni netta cancellazione, però, il materiale ritorna dal Reale, trasformandosi in un incubo allucinatorio: esattamente quello che viene trasmesso, tra mille falsi pudori, dalle tv, e contenente scene di violenza su corpi senza anima. Le guerre umanitarie contengono in sé l’elemento perverso della tortura come loro profonda verità: come a dire che non c’è guerra senza tortura e violenza, né queste senza quella. Pare invece che i nostri progressisti e pacifisti dell’ultima ora credano (anime pie!) di poter depurare la guerra umanitaria dalla sua verità profonda, quella della violenza e del sopruso, dell’interesse economico che cela. Ancora con Fanon: “La tortura in Algeria non è un accidente, o un errore, o uno sbaglio. Il colonialismo non può essere compreso senza la possibilità della tortura, dello stupro, del massacro. La tortura è una modalità delle relazioni occupante-occupato”.
Oggi come ieri – quando Fanon scriveva con orgoglio da intellettuale militante – l’immigrato clandestino, il lavoratore sfruttato nei campi di frutta, il somalo trucidato da suo fratello, i raccoglitori di pomodori in lotta per i propri diritti a Rignano Garganico, rappresentano il sintomo del progetto di egemonia economica e culturale dell’occidente e, ancor di più, l’inadeguatezza attuale del pensiero progressista nel proporre una analisi ed una prassi che possano radicalmente ribaltare i rapporti di forza e non – solo e tristemente – fornire una sponda per l’organizzazione dell’ennesima, ridicola, festa folcloristica. ☺
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