La cronaca ci mette di fronte a delitti raccapriccianti che scuotono la nostra coscienza e suscitano interrogativi inquietanti e angosciosi: che cosa spinge una persona, “malata” o “normale” a compiere atti atroci e apparentemente inspiegabili? Che cosa si impadronisce della mente dei giovanissimi che progettano, spesso insieme ad amici, lo sterminio dei propri familiari? Qual è il confine tra la volontà consapevole di compiere il male e la cieca follia? Cosa si nasconde dentro un uomo che ammazza?
Ha dominato, almeno fino alla metà degli anni ’80, il dogma dell’omi- cida come folle, che porta in sé qualche cosa di rotto, di degenerato. C’è chi li considera mostri, folli, invece sono soltanto uomini: l’omicidio non è espressione necessaria di follia, può anche appartenere alla “normalità”. La voglia di ammazzare, pur se in angoli nascosti, si può trovare in ciascuno di noi. Tutte le persone normali, tutti noi, potremmo rientrare in una storia di delitti. Può apparire una provocazione estrema. La lettura psicologica di questi crimini permette di rendere un delitto comprensibile, il che certo non significa giustificarlo ma leggerlo nel contesto dei meccanismi della mente e delle difficoltà dell’esi- stenza. Insomma, anche un assassino è un uomo e la parola “mostro” risulta inadeguata e fuorviante, più adatta al vocabolario della fiction cinematografica che a quello della realtà. È possibile invece capire perché ha ucciso o si è ucciso e perché in quelle circostanze e con quelle dinamiche. Ogni storia è speciale e difficilmente può essere assimilata alle altre. Proprio perché si tratta di vicende umane, sono costituite da relazioni o da esperienze che mantengono il carattere dell’esclusività, vale a dire che sono legate a un particolare momento della storia e della vita di ciascuno dei suoi protagonisti.
Ci sono svariati tipi di omicidio, come l’ammazzare per professione: ci sono persone che uccidono senza il minimo pathos, senza turbamenti mentali o particolari vissuti psicologici. In questo caso la vittima può non avere alcuna rilevanza per la storia personale di chi uccide. È semplicemente un obiettivo indicato e lo si deve eliminare. E qui mi riferisco non solo ai killer di professione ma anche agli omicidi di mafia, agli omicidi politici, all’ammazzare in guerra. Queste morti godono di scarsa considerazione rispetto, per esempio, al delitto di Cogne o a quello di Novi Ligure. A Cogne è stato ammazzato un bambino, e la cosa ha suscitato un’apprensio- ne che non ha nulla in comune con la freddezza con cui assistiamo alle uccisioni di bambini in guerra o nelle missioni di pace. Altrettanto insensibili rimaniamo di fronte agli “omicidi” provocati dalla fame, dalle malattie che potremmo facilmente curare. C’è poi l’ammazzare “disperato”, situazioni in cui non c’è un movente materiale o se c’è, serve solo da maschera, da finalità secondaria. L’ammazzare si inserisce qui entro un vissuto estremo, una disperazione appunto. Vi si include anche l’ammazzare per follia, perché la follia, la perdita della ragione si lega alla stessa disperazione, è già il risultato di un ammazzarsi.
L’uomo ammazza quando percepisce di essere vicino alla propria fine, quando si vive senza significato, quando si sente solo, senza nessuno, senza una via di scampo. Uccide quando si sente morto. Si ammazza quando si sente di non esserci più, di essere stati uccisi o negati dal mondo, di aver perduto ogni senso. Per questo è difficile non vedere in chi ammazza anche colui che si ammazza. Ammazzando l’altro uno ammazza, di fatto, se stesso. E a sostegno di ciò esistono i casi, numerosi, di chi uccide e poi si uccide. Una persona che viva se stessa come incapace di esistere, impossibilitata a stare nel mondo, come accade nelle gravi forme di depressione, vede attorno a sé soltanto dolore e si sente persino colpevole di tale dolore. Si convince che morire ha l’effetto di sollevare dalla sofferenza e stermina i figli e i componenti della propria famiglia e poi si suicida. Sente di non poter fare niente per aiutare gli altri e per mutare la propria storia di dolore e gli resta un solo gesto, titanico, risolutivo: ammazzare e ammazzarsi. Se il depresso si uccide è perché, sentendosi incapace di vivere, si percepisce come ostacolo, come impedimento agli altri, a chi lo circonda, e allora si autoelimina. Insomma si uccide quando si è dentro la morte. È insufficiente studiare la personalità, i caratteri; occorre analizzare le situazioni e i vissuti per convincersi che chiunque si avvicini alla percezione della propria fine drammatica e disperata può uccidere, come se vivesse l’ultimo attimo di esistenza. ☺ morenavaccaro2@virgilio.it
La cronaca ci mette di fronte a delitti raccapriccianti che scuotono la nostra coscienza e suscitano interrogativi inquietanti e angosciosi: che cosa spinge una persona, “malata” o “normale” a compiere atti atroci e apparentemente inspiegabili? Che cosa si impadronisce della mente dei giovanissimi che progettano, spesso insieme ad amici, lo sterminio dei propri familiari? Qual è il confine tra la volontà consapevole di compiere il male e la cieca follia? Cosa si nasconde dentro un uomo che ammazza?
Ha dominato, almeno fino alla metà degli anni ’80, il dogma dell’omi- cida come folle, che porta in sé qualche cosa di rotto, di degenerato. C’è chi li considera mostri, folli, invece sono soltanto uomini: l’omicidio non è espressione necessaria di follia, può anche appartenere alla “normalità”. La voglia di ammazzare, pur se in angoli nascosti, si può trovare in ciascuno di noi. Tutte le persone normali, tutti noi, potremmo rientrare in una storia di delitti. Può apparire una provocazione estrema. La lettura psicologica di questi crimini permette di rendere un delitto comprensibile, il che certo non significa giustificarlo ma leggerlo nel contesto dei meccanismi della mente e delle difficoltà dell’esi- stenza. Insomma, anche un assassino è un uomo e la parola “mostro” risulta inadeguata e fuorviante, più adatta al vocabolario della fiction cinematografica che a quello della realtà. È possibile invece capire perché ha ucciso o si è ucciso e perché in quelle circostanze e con quelle dinamiche. Ogni storia è speciale e difficilmente può essere assimilata alle altre. Proprio perché si tratta di vicende umane, sono costituite da relazioni o da esperienze che mantengono il carattere dell’esclusività, vale a dire che sono legate a un particolare momento della storia e della vita di ciascuno dei suoi protagonisti.
Ci sono svariati tipi di omicidio, come l’ammazzare per professione: ci sono persone che uccidono senza il minimo pathos, senza turbamenti mentali o particolari vissuti psicologici. In questo caso la vittima può non avere alcuna rilevanza per la storia personale di chi uccide. È semplicemente un obiettivo indicato e lo si deve eliminare. E qui mi riferisco non solo ai killer di professione ma anche agli omicidi di mafia, agli omicidi politici, all’ammazzare in guerra. Queste morti godono di scarsa considerazione rispetto, per esempio, al delitto di Cogne o a quello di Novi Ligure. A Cogne è stato ammazzato un bambino, e la cosa ha suscitato un’apprensio- ne che non ha nulla in comune con la freddezza con cui assistiamo alle uccisioni di bambini in guerra o nelle missioni di pace. Altrettanto insensibili rimaniamo di fronte agli “omicidi” provocati dalla fame, dalle malattie che potremmo facilmente curare. C’è poi l’ammazzare “disperato”, situazioni in cui non c’è un movente materiale o se c’è, serve solo da maschera, da finalità secondaria. L’ammazzare si inserisce qui entro un vissuto estremo, una disperazione appunto. Vi si include anche l’ammazzare per follia, perché la follia, la perdita della ragione si lega alla stessa disperazione, è già il risultato di un ammazzarsi.
L’uomo ammazza quando percepisce di essere vicino alla propria fine, quando si vive senza significato, quando si sente solo, senza nessuno, senza una via di scampo. Uccide quando si sente morto. Si ammazza quando si sente di non esserci più, di essere stati uccisi o negati dal mondo, di aver perduto ogni senso. Per questo è difficile non vedere in chi ammazza anche colui che si ammazza. Ammazzando l’altro uno ammazza, di fatto, se stesso. E a sostegno di ciò esistono i casi, numerosi, di chi uccide e poi si uccide. Una persona che viva se stessa come incapace di esistere, impossibilitata a stare nel mondo, come accade nelle gravi forme di depressione, vede attorno a sé soltanto dolore e si sente persino colpevole di tale dolore. Si convince che morire ha l’effetto di sollevare dalla sofferenza e stermina i figli e i componenti della propria famiglia e poi si suicida. Sente di non poter fare niente per aiutare gli altri e per mutare la propria storia di dolore e gli resta un solo gesto, titanico, risolutivo: ammazzare e ammazzarsi. Se il depresso si uccide è perché, sentendosi incapace di vivere, si percepisce come ostacolo, come impedimento agli altri, a chi lo circonda, e allora si autoelimina. Insomma si uccide quando si è dentro la morte. È insufficiente studiare la personalità, i caratteri; occorre analizzare le situazioni e i vissuti per convincersi che chiunque si avvicini alla percezione della propria fine drammatica e disperata può uccidere, come se vivesse l’ultimo attimo di esistenza. ☺ morenavaccaro2@virgilio.it
La cronaca ci mette di fronte a delitti raccapriccianti che scuotono la nostra coscienza e suscitano interrogativi inquietanti e angosciosi: che cosa spinge una persona, “malata” o “normale” a compiere atti atroci e apparentemente inspiegabili? Che cosa si impadronisce della mente dei giovanissimi che progettano, spesso insieme ad amici, lo sterminio dei propri familiari? Qual è il confine tra la volontà consapevole di compiere il male e la cieca follia? Cosa si nasconde dentro un uomo che ammazza?
Ha dominato, almeno fino alla metà degli anni ’80, il dogma dell’omi- cida come folle, che porta in sé qualche cosa di rotto, di degenerato. C’è chi li considera mostri, folli, invece sono soltanto uomini: l’omicidio non è espressione necessaria di follia, può anche appartenere alla “normalità”. La voglia di ammazzare, pur se in angoli nascosti, si può trovare in ciascuno di noi. Tutte le persone normali, tutti noi, potremmo rientrare in una storia di delitti. Può apparire una provocazione estrema. La lettura psicologica di questi crimini permette di rendere un delitto comprensibile, il che certo non significa giustificarlo ma leggerlo nel contesto dei meccanismi della mente e delle difficoltà dell’esi- stenza. Insomma, anche un assassino è un uomo e la parola “mostro” risulta inadeguata e fuorviante, più adatta al vocabolario della fiction cinematografica che a quello della realtà. È possibile invece capire perché ha ucciso o si è ucciso e perché in quelle circostanze e con quelle dinamiche. Ogni storia è speciale e difficilmente può essere assimilata alle altre. Proprio perché si tratta di vicende umane, sono costituite da relazioni o da esperienze che mantengono il carattere dell’esclusività, vale a dire che sono legate a un particolare momento della storia e della vita di ciascuno dei suoi protagonisti.
Ci sono svariati tipi di omicidio, come l’ammazzare per professione: ci sono persone che uccidono senza il minimo pathos, senza turbamenti mentali o particolari vissuti psicologici. In questo caso la vittima può non avere alcuna rilevanza per la storia personale di chi uccide. È semplicemente un obiettivo indicato e lo si deve eliminare. E qui mi riferisco non solo ai killer di professione ma anche agli omicidi di mafia, agli omicidi politici, all’ammazzare in guerra. Queste morti godono di scarsa considerazione rispetto, per esempio, al delitto di Cogne o a quello di Novi Ligure. A Cogne è stato ammazzato un bambino, e la cosa ha suscitato un’apprensio- ne che non ha nulla in comune con la freddezza con cui assistiamo alle uccisioni di bambini in guerra o nelle missioni di pace. Altrettanto insensibili rimaniamo di fronte agli “omicidi” provocati dalla fame, dalle malattie che potremmo facilmente curare. C’è poi l’ammazzare “disperato”, situazioni in cui non c’è un movente materiale o se c’è, serve solo da maschera, da finalità secondaria. L’ammazzare si inserisce qui entro un vissuto estremo, una disperazione appunto. Vi si include anche l’ammazzare per follia, perché la follia, la perdita della ragione si lega alla stessa disperazione, è già il risultato di un ammazzarsi.
L’uomo ammazza quando percepisce di essere vicino alla propria fine, quando si vive senza significato, quando si sente solo, senza nessuno, senza una via di scampo. Uccide quando si sente morto. Si ammazza quando si sente di non esserci più, di essere stati uccisi o negati dal mondo, di aver perduto ogni senso. Per questo è difficile non vedere in chi ammazza anche colui che si ammazza. Ammazzando l’altro uno ammazza, di fatto, se stesso. E a sostegno di ciò esistono i casi, numerosi, di chi uccide e poi si uccide. Una persona che viva se stessa come incapace di esistere, impossibilitata a stare nel mondo, come accade nelle gravi forme di depressione, vede attorno a sé soltanto dolore e si sente persino colpevole di tale dolore. Si convince che morire ha l’effetto di sollevare dalla sofferenza e stermina i figli e i componenti della propria famiglia e poi si suicida. Sente di non poter fare niente per aiutare gli altri e per mutare la propria storia di dolore e gli resta un solo gesto, titanico, risolutivo: ammazzare e ammazzarsi. Se il depresso si uccide è perché, sentendosi incapace di vivere, si percepisce come ostacolo, come impedimento agli altri, a chi lo circonda, e allora si autoelimina. Insomma si uccide quando si è dentro la morte. È insufficiente studiare la personalità, i caratteri; occorre analizzare le situazioni e i vissuti per convincersi che chiunque si avvicini alla percezione della propria fine drammatica e disperata può uccidere, come se vivesse l’ultimo attimo di esistenza. ☺ morenavaccaro2@virgilio.it
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.