Non sempre le parole migrano da una lingua all’altra con il medesimo significato. Tanto più oggi quando spesso ci appropriamo di termini stranieri per indicare concetti nuovi o realtà rese ancora più complesse dai tempi che viviamo.
Una delle più belle parole della nostra lingua è senza dubbio “comunità”, il cui etimo ha dato vita ad altri significativi vocaboli, “comune, comunicare, comunione”. Di derivazione latina (communis = comune), questo termine rimanda non soltanto a quei gruppi di persone accomunati da identica etnia, nazionalità o credo religioso, fisicamente collocati in un determinato luogo al quale li vincolano legami di varia natura, ma per estensione è usato per ritrarre la società umana in generale, da quella di un singolo stato a quella di tutte le nazioni del mondo, la comunità internazionale.
Il valore semantico del vocabolo appare oggi amplificato grazie all’avanzamento delle tecnologie informatiche ed allo sviluppo della rete Internet: su di essa, infatti, sono comparse da alcuni anni le cosiddette community [pronuncia: commiuniti] o meglio virtual community [pronuncia: virtu-al commiuniti] o community online [pronuncia: commiuniti onlain]. Cosa sono?
Grazie alla possibilità di collegarsi, tramite computers, con altri utenti, è possibile costituire gruppi di persone che essendo interessate ad un determinato argomento si pongono in corrispondenza tra loro e costruiscono una “comunità” con caratteristiche abbastanza singolari. I membri di dette community, per la gran parte, non si vedono, né tantomeno si conoscono: la loro esistenza è protetta o celata da uno schermo e da sigle o nomignoli. Se si eccettua il recente e diffusissimo Facebook [pronuncia: feisbuch] (= libro dei visi (?)) che pretende il ricorso ad immagini che introducano e facciano conoscere a tutti i componenti il singolo “protagonista”, le community sono composte da membri anonimi, che in rete appaiono privi di storia e di vissuto, svincolati da alcun contatto, senza alcun coinvolgimento: spettatori marginali di un vuoto.
Come osserva Paolo Crepet, “le tecnologie virtuali hanno sì arricchito le capacità cognitive dei fruitori – memoria, velocità del pensiero, attenzione – ma parallelamente atrofizzato quelle relazionali e affettive”. E prosegue: “il problema non è criticare la comunicazione virtuale, che comunque esiste, quanto segnalare ciò che ne favorisce il dilagare, ovvero il vuoto da cui si alimenta”.
A guardare bene qualche segnale positivo c’è.
I movimenti di opinione – tanto in voga oggi – che tentano di ridare slancio ad una vita, sia politica che civile, fiacca ed appiattita, sono tra i maggiori utenti e fruitori della rete telematica. Le campagne avviate da quotidiani o associazioni hanno trovato ampia risonanza nel mondo delle community: esse costituiscono i punti di incontro e di confronto, il terreno su cui mettere alla prova idee e proposte, l’opportunità per comprendere l’orientamento generale e ridestare entusiasmo per il bene “comune”. Tutto in vista del recupero di quella socialità, del senso di appartenenza (che è un altro dei significati dell’anglofono community), del sentirsi e trovarsi bene con gli altri nella dimensione della comunità.
“Il progresso che ha caratterizzato alcune popolazioni e l’Occidente del mondo in particolare, non ha migliorato l’uomo: ne ha modificato fortemente il comportamento ma non lo ha cambiato nell’affettività che è una parte importante e che anzi sembra divenuta più fragile. Non ha modificato il principio guida della vita che si fonda necessariamente sul senso dell’uomo nel mondo e sul senso del suo esserci (Vittorino Andreoli). Una strada ancora da percorrere! ☺
dario.carlone@tiscali.it
Non sempre le parole migrano da una lingua all’altra con il medesimo significato. Tanto più oggi quando spesso ci appropriamo di termini stranieri per indicare concetti nuovi o realtà rese ancora più complesse dai tempi che viviamo.
Una delle più belle parole della nostra lingua è senza dubbio “comunità”, il cui etimo ha dato vita ad altri significativi vocaboli, “comune, comunicare, comunione”. Di derivazione latina (communis = comune), questo termine rimanda non soltanto a quei gruppi di persone accomunati da identica etnia, nazionalità o credo religioso, fisicamente collocati in un determinato luogo al quale li vincolano legami di varia natura, ma per estensione è usato per ritrarre la società umana in generale, da quella di un singolo stato a quella di tutte le nazioni del mondo, la comunità internazionale.
Il valore semantico del vocabolo appare oggi amplificato grazie all’avanzamento delle tecnologie informatiche ed allo sviluppo della rete Internet: su di essa, infatti, sono comparse da alcuni anni le cosiddette community [pronuncia: commiuniti] o meglio virtual community [pronuncia: virtu-al commiuniti] o community online [pronuncia: commiuniti onlain]. Cosa sono?
Grazie alla possibilità di collegarsi, tramite computers, con altri utenti, è possibile costituire gruppi di persone che essendo interessate ad un determinato argomento si pongono in corrispondenza tra loro e costruiscono una “comunità” con caratteristiche abbastanza singolari. I membri di dette community, per la gran parte, non si vedono, né tantomeno si conoscono: la loro esistenza è protetta o celata da uno schermo e da sigle o nomignoli. Se si eccettua il recente e diffusissimo Facebook [pronuncia: feisbuch] (= libro dei visi (?)) che pretende il ricorso ad immagini che introducano e facciano conoscere a tutti i componenti il singolo “protagonista”, le community sono composte da membri anonimi, che in rete appaiono privi di storia e di vissuto, svincolati da alcun contatto, senza alcun coinvolgimento: spettatori marginali di un vuoto.
Come osserva Paolo Crepet, “le tecnologie virtuali hanno sì arricchito le capacità cognitive dei fruitori – memoria, velocità del pensiero, attenzione – ma parallelamente atrofizzato quelle relazionali e affettive”. E prosegue: “il problema non è criticare la comunicazione virtuale, che comunque esiste, quanto segnalare ciò che ne favorisce il dilagare, ovvero il vuoto da cui si alimenta”.
A guardare bene qualche segnale positivo c’è.
I movimenti di opinione – tanto in voga oggi – che tentano di ridare slancio ad una vita, sia politica che civile, fiacca ed appiattita, sono tra i maggiori utenti e fruitori della rete telematica. Le campagne avviate da quotidiani o associazioni hanno trovato ampia risonanza nel mondo delle community: esse costituiscono i punti di incontro e di confronto, il terreno su cui mettere alla prova idee e proposte, l’opportunità per comprendere l’orientamento generale e ridestare entusiasmo per il bene “comune”. Tutto in vista del recupero di quella socialità, del senso di appartenenza (che è un altro dei significati dell’anglofono community), del sentirsi e trovarsi bene con gli altri nella dimensione della comunità.
“Il progresso che ha caratterizzato alcune popolazioni e l’Occidente del mondo in particolare, non ha migliorato l’uomo: ne ha modificato fortemente il comportamento ma non lo ha cambiato nell’affettività che è una parte importante e che anzi sembra divenuta più fragile. Non ha modificato il principio guida della vita che si fonda necessariamente sul senso dell’uomo nel mondo e sul senso del suo esserci (Vittorino Andreoli). Una strada ancora da percorrere! ☺
Non sempre le parole migrano da una lingua all’altra con il medesimo significato. Tanto più oggi quando spesso ci appropriamo di termini stranieri per indicare concetti nuovi o realtà rese ancora più complesse dai tempi che viviamo.
Una delle più belle parole della nostra lingua è senza dubbio “comunità”, il cui etimo ha dato vita ad altri significativi vocaboli, “comune, comunicare, comunione”. Di derivazione latina (communis = comune), questo termine rimanda non soltanto a quei gruppi di persone accomunati da identica etnia, nazionalità o credo religioso, fisicamente collocati in un determinato luogo al quale li vincolano legami di varia natura, ma per estensione è usato per ritrarre la società umana in generale, da quella di un singolo stato a quella di tutte le nazioni del mondo, la comunità internazionale.
Il valore semantico del vocabolo appare oggi amplificato grazie all’avanzamento delle tecnologie informatiche ed allo sviluppo della rete Internet: su di essa, infatti, sono comparse da alcuni anni le cosiddette community [pronuncia: commiuniti] o meglio virtual community [pronuncia: virtu-al commiuniti] o community online [pronuncia: commiuniti onlain]. Cosa sono?
Grazie alla possibilità di collegarsi, tramite computers, con altri utenti, è possibile costituire gruppi di persone che essendo interessate ad un determinato argomento si pongono in corrispondenza tra loro e costruiscono una “comunità” con caratteristiche abbastanza singolari. I membri di dette community, per la gran parte, non si vedono, né tantomeno si conoscono: la loro esistenza è protetta o celata da uno schermo e da sigle o nomignoli. Se si eccettua il recente e diffusissimo Facebook [pronuncia: feisbuch] (= libro dei visi (?)) che pretende il ricorso ad immagini che introducano e facciano conoscere a tutti i componenti il singolo “protagonista”, le community sono composte da membri anonimi, che in rete appaiono privi di storia e di vissuto, svincolati da alcun contatto, senza alcun coinvolgimento: spettatori marginali di un vuoto.
Come osserva Paolo Crepet, “le tecnologie virtuali hanno sì arricchito le capacità cognitive dei fruitori – memoria, velocità del pensiero, attenzione – ma parallelamente atrofizzato quelle relazionali e affettive”. E prosegue: “il problema non è criticare la comunicazione virtuale, che comunque esiste, quanto segnalare ciò che ne favorisce il dilagare, ovvero il vuoto da cui si alimenta”.
A guardare bene qualche segnale positivo c’è.
I movimenti di opinione – tanto in voga oggi – che tentano di ridare slancio ad una vita, sia politica che civile, fiacca ed appiattita, sono tra i maggiori utenti e fruitori della rete telematica. Le campagne avviate da quotidiani o associazioni hanno trovato ampia risonanza nel mondo delle community: esse costituiscono i punti di incontro e di confronto, il terreno su cui mettere alla prova idee e proposte, l’opportunità per comprendere l’orientamento generale e ridestare entusiasmo per il bene “comune”. Tutto in vista del recupero di quella socialità, del senso di appartenenza (che è un altro dei significati dell’anglofono community), del sentirsi e trovarsi bene con gli altri nella dimensione della comunità.
“Il progresso che ha caratterizzato alcune popolazioni e l’Occidente del mondo in particolare, non ha migliorato l’uomo: ne ha modificato fortemente il comportamento ma non lo ha cambiato nell’affettività che è una parte importante e che anzi sembra divenuta più fragile. Non ha modificato il principio guida della vita che si fonda necessariamente sul senso dell’uomo nel mondo e sul senso del suo esserci (Vittorino Andreoli). Una strada ancora da percorrere! ☺
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