punti d’incontro
22 Febbraio 2010 Share

punti d’incontro

Non sempre le parole migrano da una lingua all’altra con il medesimo significato. Tanto più oggi quando spesso ci appropriamo di termini stranieri per indicare concetti nuovi o realtà rese ancora più complesse dai tempi che viviamo.

Una delle più belle parole della nostra lingua è senza dubbio “comunità”, il cui etimo ha dato vita ad altri significativi vocaboli, “comune, comunicare, comunione”. Di derivazione latina (communis = comune), questo termine rimanda non soltanto a quei gruppi di persone accomunati da identica etnia, nazionalità o credo religioso, fisicamente collocati in un determinato luogo al quale li vincolano legami di varia natura, ma per estensione è usato per ritrarre la società umana in generale, da quella di un singolo stato a quella di tutte le nazioni del mondo, la comunità internazionale.

Il valore semantico del vocabolo appare oggi amplificato grazie all’avanzamento delle tecnologie informatiche ed allo sviluppo della rete Internet: su di essa, infatti, sono comparse da alcuni anni le cosiddette community [pronuncia: commiuniti] o meglio virtual community [pronuncia: virtu-al commiuniti] o community online [pronuncia: commiuniti onlain]. Cosa sono?

Grazie alla possibilità di collegarsi, tramite computers, con altri utenti, è possibile costituire gruppi di persone che essendo interessate ad un determinato argomento si pongono in corrispondenza tra loro e costruiscono una “comunità” con caratteristiche abbastanza singolari. I membri di dette community, per la gran parte, non si vedono, né tantomeno si conoscono: la loro esistenza è protetta o celata da uno schermo e da sigle o nomignoli. Se si eccettua il recente e diffusissimo Facebook [pronuncia: feisbuch] (= libro dei visi (?)) che pretende il ricorso ad immagini che introducano e facciano conoscere a tutti i componenti il singolo “protagonista”, le community sono composte da membri anonimi, che in rete appaiono privi di storia e di vissuto, svincolati da alcun contatto, senza alcun coinvolgimento: spettatori marginali di un vuoto.

 Come osserva Paolo Crepet, “le tecnologie virtuali hanno sì arricchito le capacità cognitive dei fruitori – memoria, velocità del pensiero, attenzione – ma parallelamente atrofizzato quelle relazionali e affettive”. E prosegue: “il problema non è criticare la comunicazione virtuale, che comunque esiste, quanto segnalare ciò che ne favorisce il dilagare, ovvero il vuoto da cui si alimenta”.

A guardare bene qualche segnale positivo c’è.

I movimenti di opinione – tanto in voga oggi – che tentano di ridare slancio ad una vita, sia politica che civile, fiacca ed appiattita, sono tra i maggiori utenti e fruitori della rete telematica. Le campagne avviate da quotidiani o associazioni hanno trovato ampia risonanza nel mondo delle community: esse costituiscono i punti di incontro e di confronto, il terreno su cui mettere alla prova idee e proposte, l’opportunità per comprendere l’orientamento generale e ridestare entusiasmo per il bene “comune”. Tutto in vista del recupero di quella socialità, del senso di appartenenza (che è un altro dei significati dell’anglofono community), del sentirsi e trovarsi bene con gli altri nella dimensione della comunità.

“Il progresso che ha caratterizzato alcune popolazioni e l’Occidente del mondo in particolare, non ha migliorato l’uomo: ne ha modificato fortemente il comportamento ma non lo ha cambiato nell’affettività che è una parte importante e che anzi sembra divenuta più fragile. Non ha modificato il principio guida della vita che si fonda necessariamente sul senso dell’uomo nel mondo e sul senso del suo esserci (Vittorino Andreoli). Una strada ancora da percorrere! ☺

dario.carlone@tiscali.it

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