Putin e gulag
2 Gennaio 2014 Share

Putin e gulag

Nadezhda Tolokonnikova – una delle componenti delle Pussy Riot, il gruppo femminista, il cui intervento in una chiesa ortodossa contro la campagna di Putin si è concluso con una pesantissima condanna al campo di Mordovia, lunedì 23 settembre, ha iniziato lo sciopero della fame.

È un metodo estremo, ma sono assolutamente sicura che rimane l’unica soluzione nella situazione in cui mi trovo. Tutta la mia brigata nel laboratorio di cucito lavora dalle 16 alle 17 ore quotidiane. Dalle 7.30 fino a mezzanotte e mezza. Nel migliore dei casi, rimangono quattro ore di sonno. Abbiamo un giorno di ferie ogni sei settimane. Nessuna osa disubbidire (rifiutare di scrivere una richiesta che autorizzi a lavorare di domenica, non lavorare fino all’una di notte). Una cinquantenne aveva chiesto di tornare negli edifici abitativi alle venti anziché a mezzanotte, per potersi coricare alle 22.00 e dormire otto ore, almeno una volta alla settimana. Si sentiva male, aveva problemi di pressione. In risposta, ci fu una riunione della nostra unità dove l’hanno rimproverata, l’hanno insultata ed umiliata, l’hanno chiamata parassita. “Credi di essere l’unica ad avere sonno? Bisognerebbe legarti ad un aratro, grossa vacca!”.

Per mantenere la disciplina e l’ubbidienza nel campo, esiste tutto un sistema di punizioni informali: rimanere nel cortile fino allo spegnersi delle luci (proibizione di entrare nelle baracche, che sia autunno oppure inverno – nella squadra n. 2, quella delle handicappate e delle pensionate, c’è una donna alla quale hanno amputato un piede e tutte le dita delle mani: era stata costretta a passare un’intera giornata nel cortile – piedi e mani si erano congelati), vietare l’accesso all’igiene (divieto di lavarsi e di andare in bagno), vietare l’accesso alla mensa e alla caffetteria (divieto di mangiare il proprio cibo, di consumare bibite calde).

Ossessionata dal sonno, sognando soltanto un sorso di tè, la prigioniera spossata, molestata, sporca, diventa un materiale docile alla mercé dell’amministrazione, che vede in noi soltanto una manodopera gratuita. Nel giugno del 2013, il mio stipendio era di 29 rubli (meno di un euro!).

In qualche mese alla fabbrica della colonia, ho praticamente imparato il mestiere di meccanico. Per forza e sul campo. Mi buttavo sulle macchine con il cacciavite in mano, in un tentativo disperato di aggiustarle. Poiché sei la pivellina, e vista la carenza di attrezzature di qualità nel campo, a te ovviamente tocca il peggior motore della catena. Ed ecco che il motore si guasta di nuovo, ti precipiti alla ricerca del meccanico (introvabile), le altre ti urlano contro, ti accusano di far naufragare il piano, ecc. “Se non fossi la Tolokonnikova, da molto tempo ti avremmo sistemata” – dicono le detenute in buoni rapporti con l’ amministrazione.

In un’altra unità, le sarte novelle, che non riuscivano a completare la norma, sono state costrette a svestirsi e a lavorare nude. Nessuna osa lamentarsi perché l’ amministrazione ti risponderà con un sorriso e ti rispedirà nella tua unità, dove, per aver fatto la spia, verrai riempita di botte, su ordine di quella stessa amministrazione. Nel laboratorio prevale un’atmosfera di nervosismo sempre foriera di minacce. Non molto tempo fa, una ragazza ha ricevuto una forbiciata alla tempia perché non aveva fatto passare abbastanza in fretta un pantalone. Un’altra volta, una detenuta ha provato ad aprirsi la pancia con una sega. Si è riuscite a fermarla.

Si potrebbe parlare senza fine delle condizioni di vita e di lavoro nella colonia 14. Ma il rimprovero principale che le faccio è di un altro ordine. È che l’amministrazione fa il possibile per impedire che la minima denuncia, la minima dichiarazione riguardo alla colonia 14 esca dalle sue mura. Il più grave sta nel fatto che la direzione ci costringe al silenzio. Senza fermarsi davanti ai mezzi più bassi e più subdoli. La direzione si sente invulnerabile e non esita ad opprimere sempre più le detenute. Si può sopportare tutto. Tutto ciò che riguarda soltanto se stessi. Ma il metodo della responsabilità collettiva in vigore nella colonia ha delle conseguenze più gravi. Per ciò che fai, soffre tutta la tua unità, tutto il campo. E, cosa più perversa: ne soffrono tutte coloro che ti sono diventate care.

Una mia conoscente, una donna molto colta, è stata spedita all’unità punitiva, dove viene picchiata tutti i giorni, perché ha letto e commentato con me il documento intitolato “Regolamento interno dei centri penitenziari”. Sono stati compilati rapporti su tutte le persone in contatto con me. Ciò che mi faceva male, era vedere perseguitare donne che mi sono vicine. Allora il tenente-colonnello Kuprianov mi disse, ridacchiando: “Non ti devono rimanere molte amiche!”. E mi spiegò che tutto ciò succedeva a causa della denuncia del mio legale.

Adesso capisco che avrei dovuto dichiarare lo sciopero della fame fin dal mese di maggio, nella situazione di allora. Ma di fronte alla pressione terribile che l’amministrazione imponeva alle altre detenute, avevo sospeso i miei reclami contro la colonia.

Tradotto dal russo al francese da Marie N.Pane – pubblicato sul sito Mediapart

A cura di Loredana Alberti

eoc

eoc