ridere o piangere?
18 Aprile 2010 Share

ridere o piangere?

 

C’è un peccato che “grida vendetta al cospetto di Dio”. Questo peccato così grande, che come un macigno dovrebbe pesare sulle coscienze, è proprio la  frode nella mercede dell’operaio.

Eppure… questa modalità di trattamento nei confronti di una classe di lavoratori già di per se stessa oppressa e chiamata a sostenere un peso sociale enorme, continua a fare vittime innocenti e soprattutto mute. Un altro silenzio, il silenzio degli oppressi, il silenzio di chi è incaprettato da ciò che dovrebbe essere un diritto, il lavoro, e si trasforma il più delle volte in una forma di ricatto: “se vuoi lavorare devi sottometterti e come ti muovi ti soffochi da solo”.

Io ho scelto di non soffocare il mio grido, ma di gridarlo a tutti, perché tutti sappiano qual è il prezzo di tanti anni di lavoro condotti con onestà morale e professionale.

Ho lavorato per dieci anni in un’azienda che produce ferodi, impiantata nel basso Molise circa 16 anni fa grazie alle agevolazioni regionali, e che assume con contratto tessile, e ripeto tessile, nonostante non produca ne camicie ne guanti, ma prodotti di tutt’altro genere.

In forza di quella che una volta era la lavorazione dell’amianto, che come fibra rientrava nel materiale di produzione dei ferodi, il contratto, che avvantaggia sia l’azienda (se si considera il costo della manodopera che è il più basso della categoria e quello del prodotto finito che invece ha dei costi molto elevati sul mercato) sia il sindacato (che nel comparto tessile ha iscritti i solo provenienti dalle aziende produttrici di ferodi, e si mantiene con questi ultimi!) resta inesorabilmente tessile, né metalmeccanico, né plastico, né chimico. Tessile e basta! Questa azienda oggi offre lavoro a circa 200 miei colleghi, alcuni con contratto a Tempo Indeterminato e altri tanti interinali.

Avevo urgenza di un lavoro, come tanti di noi molisani con un titolo di studio di grado universitario in tasca, ma con l’urgenza di avere una situazione economica che potesse soddisfare le esigenze di una famiglia; questa urgenza che impone scelte poco romantiche e brucia il sogno di una vita lavorativa compatibile con le proprie aspirazioni ed esigenze. E così, mio malgrado, sono entrata in un mondo nuovo, la fabbrica, consapevole che avrei dovuto vendere la mia forza lavoro, la mia fatica, il mio impegno in cambio di un salario. Ma ho capito, ben presto, che avrei dovuto vendere qualcosa di più e allo stesso prezzo: la creatività, la gioia, la parola, la voglia di crescere, la voglia di migliorarsi, le aspirazioni, il tempo. Il mio tempo!

A loro interessa una parte di te, quella che non pensa, non ha emozioni, non ha sensazioni, non sente caldo, non sente freddo, non sente la fatica, non si chiede se una cosa sia giusta oppure no. Ti pagano per produrre con o senza mal di schiena, sempre di più, sempre di più. E così passano gli anni, anzi passano le stagioni. Sono passate così quaranta stagioni. Le estati, torride fuori e torride dentro lo stabilimento, calde, caldissime in cui il termometro all’interno segna 40°. E non ci si può muovere, devi restare lì al tuo posto, rischi di svenire, ma ce la devi fare. Ricorderò quella come la fabbrica dove d’estate fa caldo e d’inverno pure.

L’importante è che ogni giorno, ogni notte tu produca, e sempre di più, sempre di più. Non esistono buone o cattive condizioni di lavoro esiste solo buona o cattiva volontà. Alla fine ci credi, e ti abitui, e pensi che quella sia la normalità.

La polvere… quante battaglie per avere un ambiente più respirabile, e intanto, quella patina nera che ti si insinua dappertutto, ti si attacca addosso, che non riesci a togliere dalle mani talmente è sottile e ti entra nelle pieghe della pelle nonostante i guanti, che ti colora di nero il muco quando soffi il naso.

Poi c’è stato il terremoto. Il basso Molise nel caos, il governo che si impegna a sgravare i lavoratori dal tributo Irpef  per permettere la ripresa. E con il salario da nababbi che si percepisce, beh, forse è il caso di accettare. Tanto poi si restituiranno nel tempo, in 27 anni!

Poi arriva l’alluvione, azienda in ginocchio: acqua e fango in ogni dove e arrivano i soldi, all’azienda! Mentre noi operai a rimboccarci le maniche per scrostare il fango e ricominciare a lavorare, a produrre.

Sembra che i sogni non siano fatti per essere realizzati e invece intravedo la possibilità di uscire da questo inferno, da questa galea dove devi remare, remare senza chiederti dove si sta andando: devi solo abbassare la testa e remare.

Mobilità! Ammortizzatore sociale per epurare l’organico da tutti i soggetti che vorrebbero andare via, o quelli un po’ rognosi che sarebbe meglio non avere più tra i piedi. Bene è l’occasione giusta. Cominci a pensarti in un nuovo lavoro, e insieme a come investire i proventi che ti hanno reso quei dieci anni di lavoro. Il TFR! Chiedo i conteggi, perché dal totale bisogna togliere i soldi del terremoto. Quelli che ci hanno lasciato in busta, qualche centinaio di euro al mese, e che avremmo dovuto restituire in 27 anni? Si proprio quelli!

E beh sì, l’azienda si trattiene tutto il malloppo dal TFR, perché altrimenti chi li restituisce all’Inps adesso che io vado via in mobilità? E se ne occupa lei stessa, mi fa la cortesia e me li toglie tutti insieme; sempre quelli che se avessi continuato a lavorare avrei restituito in 27 anni!

A quanto ammonta il mio TFR? 1.400 euro, ossia dopo dieci anni di lavoro di quel maledetto lavoro il trattamento di fine rapporto ammonta a 1.400 euro.

Non so se ridere, non so se piangere, non so che fare. E’ forse questo il peccato che grida vendetta al cospetto di Dio? Non è forse questa la frode della mercede dell’operaio? ☺

 

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