Brunetta, inesorabile e manicheo, divide l’Italia in scioperati e stacanovisti del bene comune. Non plus ultra.
Segue compita la Gelmini. Prospetta assunzioni dei docenti in esubero nella divisione Gran Turismo.
Quindi, Maroni e La Russa: bonari eppur zelanti, garantiscono riparazioni militaresco-poliziesche ai danni causati dalla percezione del pericolo.
Berlusconi in summa ribadisce persuaso di aver mantenuto fede a ben tre promesse tre: mandare a casa Prodi, scacciare i comunisti dalla patria Italia, acquisire al Milan Ronaldinho (cito nell’ordine sue testuali parole). Intanto avverte il popolo intero, aeronauti in specie, che insomma guai alla CGIL, perdizione e rovina degli stipendiati di ogni ordine e grado.
Come il logos universale di Seneca, lui semper paret, semel iussit: gli ordini li dà una volta sola, poi obbedisce (ai suoi stessi ordini, resta inteso).
Gli italiani si interessano poco alla politica, assai meno che non avvenisse solo un decennio fa.
Me ne accorgo quando parlo con la gente, dal fruttivendolo, sul lavoro, sul treno: ogni conversazione in odore di impegno civile viene stroncata sul nascere o scivola rapida nel qualunquismo di maniera.
Il disagio per lo stato in cui versa la nostra res publica lo avvertiamo un po’ tutti, ovvio; è che siamo delusi e stanchi per prender parte, irretiti da troppe inestricabili beghe per curarci di altro che non sia il personale banchetto quotidiano. Più facile arrendersi ai declami di villosi in doppio petto e alle performance di veline di nuova generazione, infarcite di buon senso casalingo e spolverate di nozionuncole di storia letteraria italiana: si finisce per crederci, per immedesimarsi addirittura; e a fingersi che è e va bene così, ad evitare querule polemiche, fossero pure solo verbali, a ottundere l’acume della mente, si aiuta non dico l’animo, ma la salute fisica certo. Che altro?
Però, però.
In una sua bella poesia, Saba, sovrapponendosi alla figura del mitico eroe Ulisse, dice:
Il porto accende ad altri i suoi lumi: me al largo sospinge ancora il non domato spirito e della vita il doloroso amore.
Versione novecentesca – con tanto di surplus in termini di inquietudine esistenziale – di quella sete di sapere e di quell’ardire di esperienza che costituiscono il tracciato della onorabilità umana secondo l’Ulisse di Dante, quando rammenta vigoroso ai suoi compagni di essere stati essi creati non “a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”.
La nostra consistenza di uomini è fatta salva se ci interroghiamo, ammesso pure che ogni cosa paia vista e risaputa, se tentiamo di capire, ammesso pure che il buio cognitivo sembri fitto ed invalicabile, se ci sforziamo di leggere, soprattutto oltre le righe, se ci sfiniamo nel cercare ragioni per l’azione, e agiamo di conseguenza, magari sbagliando, per ricominciare di lì, nonostante anni e smacchi messi da parte siano già tanti e noi debilitati.
Di recente ho ripreso in mano le Storie di Tucidide, storiografo greco vissuto nel quinto secolo a.C., il periodo aureo della democrazia ateniese.
Ė un’opera che frequento dal tempo dell’università, gustandola a spizzichi, perché, come il Don Chisciotte di Cervantes, come Il Circolo Pickwick di Dickens, come le Metamorfosi di Ovidio, non pretende il rigore della continuità e anche spulciandola a caso, con la buona ventura che per lo più appartiene al Caso, vi si ritrova ciò che fa alla necessità del momento.
Né si tratta di essere filologi o grecisti per apprezzare Tucidide; bastano un’onesta traduzione e un’intelligenza curiosa verso le vicende umane perché le Storie risultino un’opera appassionante e ragionata, dettagliata e mai soverchia.
Così ho riletto il discorso che nel 431. a.C., al termine della prima stagione della guerra del Peloponneso, Tucidide finge essere stato pronunciato da Pericle, massimo rappresentante della democrazia ateniese, per celebrare l’elogio funebre dei caduti per la patria: solo un pretesto per tessere un indimenticabile elogio della democrazia ateniese.
I discorsi, frapposti numerosi alla pura esposizione degli eventi, sono parte integrante della storiografia di Tucidide, e se il loro esito si misura in primis sul piano retorico, essendo essi un ottimo strumento per rendere suadente la narrazione, il loro peso specifico è di natura più sostanziale: sebbene, infatti, nelle indicazioni programmatiche delle Storie Tucidide avesse promesso di riprodurre nei discorsi ciò che i diversi oratori effettivamente avevano detto o che verisimilmente avrebbero potuto dire, scansata l’iniziale pretesa di veridicità documentaria, i discorsi rappresentano per Tucidide l’occasione per risalire dal particolare all’universale, dai fatti alla loro interpretazione, rivelando, insieme ai moventi più veri ed intimi dell’agire dei protagonisti, i suoi stessi pensieri in quanto storico, la sua filosofia della storia, frutto di una lunga meditazione sull’agire dell’uomo e sulle ragioni che lo determinano.
Mi pare importante, a quasi venticinque secoli da allora, che noi ci confrontiamo con l’idea di democrazia che un moderato come Tucidide espone per bocca di un moderato come Pericle (né lo storico né il capo politico ateniese poterono dirsi oltranzisti della democrazia!): ci servirebbe a misurare la distanza con l’oggi, a valutare a quale livello di indegnità sia giunta nel 2008 la considerazione della democrazia in Italia.
Trascrivo solo qualche passo del discorso di Pericle, scelto tra quelli che mi sono parsi più illuminanti e suscettibili della nostra attenzione e riflessione.
Scrive Tucidide:
Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini, ma siamo noi stessi un modello piuttosto che imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza si chiama democrazia. Secondo le leggi vi è per tutti l’uguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene ma per merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di fare del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale… Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illegale, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente a quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta… Presentiamo la nostra città aperta a tutti, e non succede mai che con espulsioni di straneri noi impediamo a qualcuno di vedere o di conoscere qualcosa da cui un nemico potrebbe trarre vantaggio vedendola: non abbiamo maggior fiducia nelle misure preventive e negli inganni che nel coraggio che proviene da noi stessi e che mostriamo al momento di passare all’azione…
Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Ci serviamo della ricchezza più come mezzo per agire che per vantarcene a parole… Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari pubblici; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi infatti siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione verso ciò che bisogna compiere…E benefichiamo gli altri senza paura, non tanto per calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà.
Interesse della maggioranza, uguaglianza secondo le leggi, ossequio delle norme che garantiscono dai soprusi, apertura allo straniero, partecipazione di tutti alla vita della polis, attitudine a ponderare, riflettendo, le questioni di interesse comune, armonia tra parole ed azioni, e poi fiducia, e libertà: questi i fondamenti della democrazia ateniese.
Ogni commento avrebbe il sapore di un vaniloquio; solo “grazie” a Tucidide, perché davvero è riuscito a consegnarci, per dirla con lui, un “possesso per l’eternità”. ☺
LucianaZingaro@libero.it
Brunetta, inesorabile e manicheo, divide l’Italia in scioperati e stacanovisti del bene comune. Non plus ultra.
Segue compita la Gelmini. Prospetta assunzioni dei docenti in esubero nella divisione Gran Turismo.
Quindi, Maroni e La Russa: bonari eppur zelanti, garantiscono riparazioni militaresco-poliziesche ai danni causati dalla percezione del pericolo.
Berlusconi in summa ribadisce persuaso di aver mantenuto fede a ben tre promesse tre: mandare a casa Prodi, scacciare i comunisti dalla patria Italia, acquisire al Milan Ronaldinho (cito nell’ordine sue testuali parole). Intanto avverte il popolo intero, aeronauti in specie, che insomma guai alla CGIL, perdizione e rovina degli stipendiati di ogni ordine e grado.
Come il logos universale di Seneca, lui semper paret, semel iussit: gli ordini li dà una volta sola, poi obbedisce (ai suoi stessi ordini, resta inteso).
Gli italiani si interessano poco alla politica, assai meno che non avvenisse solo un decennio fa.
Me ne accorgo quando parlo con la gente, dal fruttivendolo, sul lavoro, sul treno: ogni conversazione in odore di impegno civile viene stroncata sul nascere o scivola rapida nel qualunquismo di maniera.
Il disagio per lo stato in cui versa la nostra res publica lo avvertiamo un po’ tutti, ovvio; è che siamo delusi e stanchi per prender parte, irretiti da troppe inestricabili beghe per curarci di altro che non sia il personale banchetto quotidiano. Più facile arrendersi ai declami di villosi in doppio petto e alle performance di veline di nuova generazione, infarcite di buon senso casalingo e spolverate di nozionuncole di storia letteraria italiana: si finisce per crederci, per immedesimarsi addirittura; e a fingersi che è e va bene così, ad evitare querule polemiche, fossero pure solo verbali, a ottundere l’acume della mente, si aiuta non dico l’animo, ma la salute fisica certo. Che altro?
Però, però.
In una sua bella poesia, Saba, sovrapponendosi alla figura del mitico eroe Ulisse, dice:
Il porto accende ad altri i suoi lumi: me al largo sospinge ancora il non domato spirito e della vita il doloroso amore.
Versione novecentesca – con tanto di surplus in termini di inquietudine esistenziale – di quella sete di sapere e di quell’ardire di esperienza che costituiscono il tracciato della onorabilità umana secondo l’Ulisse di Dante, quando rammenta vigoroso ai suoi compagni di essere stati essi creati non “a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”.
La nostra consistenza di uomini è fatta salva se ci interroghiamo, ammesso pure che ogni cosa paia vista e risaputa, se tentiamo di capire, ammesso pure che il buio cognitivo sembri fitto ed invalicabile, se ci sforziamo di leggere, soprattutto oltre le righe, se ci sfiniamo nel cercare ragioni per l’azione, e agiamo di conseguenza, magari sbagliando, per ricominciare di lì, nonostante anni e smacchi messi da parte siano già tanti e noi debilitati.
Di recente ho ripreso in mano le Storie di Tucidide, storiografo greco vissuto nel quinto secolo a.C., il periodo aureo della democrazia ateniese.
Ė un’opera che frequento dal tempo dell’università, gustandola a spizzichi, perché, come il Don Chisciotte di Cervantes, come Il Circolo Pickwick di Dickens, come le Metamorfosi di Ovidio, non pretende il rigore della continuità e anche spulciandola a caso, con la buona ventura che per lo più appartiene al Caso, vi si ritrova ciò che fa alla necessità del momento.
Né si tratta di essere filologi o grecisti per apprezzare Tucidide; bastano un’onesta traduzione e un’intelligenza curiosa verso le vicende umane perché le Storie risultino un’opera appassionante e ragionata, dettagliata e mai soverchia.
Così ho riletto il discorso che nel 431. a.C., al termine della prima stagione della guerra del Peloponneso, Tucidide finge essere stato pronunciato da Pericle, massimo rappresentante della democrazia ateniese, per celebrare l’elogio funebre dei caduti per la patria: solo un pretesto per tessere un indimenticabile elogio della democrazia ateniese.
I discorsi, frapposti numerosi alla pura esposizione degli eventi, sono parte integrante della storiografia di Tucidide, e se il loro esito si misura in primis sul piano retorico, essendo essi un ottimo strumento per rendere suadente la narrazione, il loro peso specifico è di natura più sostanziale: sebbene, infatti, nelle indicazioni programmatiche delle Storie Tucidide avesse promesso di riprodurre nei discorsi ciò che i diversi oratori effettivamente avevano detto o che verisimilmente avrebbero potuto dire, scansata l’iniziale pretesa di veridicità documentaria, i discorsi rappresentano per Tucidide l’occasione per risalire dal particolare all’universale, dai fatti alla loro interpretazione, rivelando, insieme ai moventi più veri ed intimi dell’agire dei protagonisti, i suoi stessi pensieri in quanto storico, la sua filosofia della storia, frutto di una lunga meditazione sull’agire dell’uomo e sulle ragioni che lo determinano.
Mi pare importante, a quasi venticinque secoli da allora, che noi ci confrontiamo con l’idea di democrazia che un moderato come Tucidide espone per bocca di un moderato come Pericle (né lo storico né il capo politico ateniese poterono dirsi oltranzisti della democrazia!): ci servirebbe a misurare la distanza con l’oggi, a valutare a quale livello di indegnità sia giunta nel 2008 la considerazione della democrazia in Italia.
Trascrivo solo qualche passo del discorso di Pericle, scelto tra quelli che mi sono parsi più illuminanti e suscettibili della nostra attenzione e riflessione.
Scrive Tucidide:
Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini, ma siamo noi stessi un modello piuttosto che imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza si chiama democrazia. Secondo le leggi vi è per tutti l’uguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene ma per merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di fare del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale… Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illegale, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente a quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta… Presentiamo la nostra città aperta a tutti, e non succede mai che con espulsioni di straneri noi impediamo a qualcuno di vedere o di conoscere qualcosa da cui un nemico potrebbe trarre vantaggio vedendola: non abbiamo maggior fiducia nelle misure preventive e negli inganni che nel coraggio che proviene da noi stessi e che mostriamo al momento di passare all’azione…
Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Ci serviamo della ricchezza più come mezzo per agire che per vantarcene a parole… Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari pubblici; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi infatti siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione verso ciò che bisogna compiere…E benefichiamo gli altri senza paura, non tanto per calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà.
Interesse della maggioranza, uguaglianza secondo le leggi, ossequio delle norme che garantiscono dai soprusi, apertura allo straniero, partecipazione di tutti alla vita della polis, attitudine a ponderare, riflettendo, le questioni di interesse comune, armonia tra parole ed azioni, e poi fiducia, e libertà: questi i fondamenti della democrazia ateniese.
Ogni commento avrebbe il sapore di un vaniloquio; solo “grazie” a Tucidide, perché davvero è riuscito a consegnarci, per dirla con lui, un “possesso per l’eternità”. ☺
Brunetta, inesorabile e manicheo, divide l’Italia in scioperati e stacanovisti del bene comune. Non plus ultra.
Segue compita la Gelmini. Prospetta assunzioni dei docenti in esubero nella divisione Gran Turismo.
Quindi, Maroni e La Russa: bonari eppur zelanti, garantiscono riparazioni militaresco-poliziesche ai danni causati dalla percezione del pericolo.
Berlusconi in summa ribadisce persuaso di aver mantenuto fede a ben tre promesse tre: mandare a casa Prodi, scacciare i comunisti dalla patria Italia, acquisire al Milan Ronaldinho (cito nell’ordine sue testuali parole). Intanto avverte il popolo intero, aeronauti in specie, che insomma guai alla CGIL, perdizione e rovina degli stipendiati di ogni ordine e grado.
Come il logos universale di Seneca, lui semper paret, semel iussit: gli ordini li dà una volta sola, poi obbedisce (ai suoi stessi ordini, resta inteso).
Gli italiani si interessano poco alla politica, assai meno che non avvenisse solo un decennio fa.
Me ne accorgo quando parlo con la gente, dal fruttivendolo, sul lavoro, sul treno: ogni conversazione in odore di impegno civile viene stroncata sul nascere o scivola rapida nel qualunquismo di maniera.
Il disagio per lo stato in cui versa la nostra res publica lo avvertiamo un po’ tutti, ovvio; è che siamo delusi e stanchi per prender parte, irretiti da troppe inestricabili beghe per curarci di altro che non sia il personale banchetto quotidiano. Più facile arrendersi ai declami di villosi in doppio petto e alle performance di veline di nuova generazione, infarcite di buon senso casalingo e spolverate di nozionuncole di storia letteraria italiana: si finisce per crederci, per immedesimarsi addirittura; e a fingersi che è e va bene così, ad evitare querule polemiche, fossero pure solo verbali, a ottundere l’acume della mente, si aiuta non dico l’animo, ma la salute fisica certo. Che altro?
Però, però.
In una sua bella poesia, Saba, sovrapponendosi alla figura del mitico eroe Ulisse, dice:
Il porto accende ad altri i suoi lumi: me al largo sospinge ancora il non domato spirito e della vita il doloroso amore.
Versione novecentesca – con tanto di surplus in termini di inquietudine esistenziale – di quella sete di sapere e di quell’ardire di esperienza che costituiscono il tracciato della onorabilità umana secondo l’Ulisse di Dante, quando rammenta vigoroso ai suoi compagni di essere stati essi creati non “a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”.
La nostra consistenza di uomini è fatta salva se ci interroghiamo, ammesso pure che ogni cosa paia vista e risaputa, se tentiamo di capire, ammesso pure che il buio cognitivo sembri fitto ed invalicabile, se ci sforziamo di leggere, soprattutto oltre le righe, se ci sfiniamo nel cercare ragioni per l’azione, e agiamo di conseguenza, magari sbagliando, per ricominciare di lì, nonostante anni e smacchi messi da parte siano già tanti e noi debilitati.
Di recente ho ripreso in mano le Storie di Tucidide, storiografo greco vissuto nel quinto secolo a.C., il periodo aureo della democrazia ateniese.
Ė un’opera che frequento dal tempo dell’università, gustandola a spizzichi, perché, come il Don Chisciotte di Cervantes, come Il Circolo Pickwick di Dickens, come le Metamorfosi di Ovidio, non pretende il rigore della continuità e anche spulciandola a caso, con la buona ventura che per lo più appartiene al Caso, vi si ritrova ciò che fa alla necessità del momento.
Né si tratta di essere filologi o grecisti per apprezzare Tucidide; bastano un’onesta traduzione e un’intelligenza curiosa verso le vicende umane perché le Storie risultino un’opera appassionante e ragionata, dettagliata e mai soverchia.
Così ho riletto il discorso che nel 431. a.C., al termine della prima stagione della guerra del Peloponneso, Tucidide finge essere stato pronunciato da Pericle, massimo rappresentante della democrazia ateniese, per celebrare l’elogio funebre dei caduti per la patria: solo un pretesto per tessere un indimenticabile elogio della democrazia ateniese.
I discorsi, frapposti numerosi alla pura esposizione degli eventi, sono parte integrante della storiografia di Tucidide, e se il loro esito si misura in primis sul piano retorico, essendo essi un ottimo strumento per rendere suadente la narrazione, il loro peso specifico è di natura più sostanziale: sebbene, infatti, nelle indicazioni programmatiche delle Storie Tucidide avesse promesso di riprodurre nei discorsi ciò che i diversi oratori effettivamente avevano detto o che verisimilmente avrebbero potuto dire, scansata l’iniziale pretesa di veridicità documentaria, i discorsi rappresentano per Tucidide l’occasione per risalire dal particolare all’universale, dai fatti alla loro interpretazione, rivelando, insieme ai moventi più veri ed intimi dell’agire dei protagonisti, i suoi stessi pensieri in quanto storico, la sua filosofia della storia, frutto di una lunga meditazione sull’agire dell’uomo e sulle ragioni che lo determinano.
Mi pare importante, a quasi venticinque secoli da allora, che noi ci confrontiamo con l’idea di democrazia che un moderato come Tucidide espone per bocca di un moderato come Pericle (né lo storico né il capo politico ateniese poterono dirsi oltranzisti della democrazia!): ci servirebbe a misurare la distanza con l’oggi, a valutare a quale livello di indegnità sia giunta nel 2008 la considerazione della democrazia in Italia.
Trascrivo solo qualche passo del discorso di Pericle, scelto tra quelli che mi sono parsi più illuminanti e suscettibili della nostra attenzione e riflessione.
Scrive Tucidide:
Abbiamo un sistema di governo che non emula le leggi dei vicini, ma siamo noi stessi un modello piuttosto che imitatori di altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra lo stato nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza si chiama democrazia. Secondo le leggi vi è per tutti l’uguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene ma per merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di fare del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale… Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illegale, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente a quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta… Presentiamo la nostra città aperta a tutti, e non succede mai che con espulsioni di straneri noi impediamo a qualcuno di vedere o di conoscere qualcosa da cui un nemico potrebbe trarre vantaggio vedendola: non abbiamo maggior fiducia nelle misure preventive e negli inganni che nel coraggio che proviene da noi stessi e che mostriamo al momento di passare all’azione…
Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Ci serviamo della ricchezza più come mezzo per agire che per vantarcene a parole… Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari pubblici; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi infatti siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione verso ciò che bisogna compiere…E benefichiamo gli altri senza paura, non tanto per calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà.
Interesse della maggioranza, uguaglianza secondo le leggi, ossequio delle norme che garantiscono dai soprusi, apertura allo straniero, partecipazione di tutti alla vita della polis, attitudine a ponderare, riflettendo, le questioni di interesse comune, armonia tra parole ed azioni, e poi fiducia, e libertà: questi i fondamenti della democrazia ateniese.
Ogni commento avrebbe il sapore di un vaniloquio; solo “grazie” a Tucidide, perché davvero è riuscito a consegnarci, per dirla con lui, un “possesso per l’eternità”. ☺
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