Vivere la transizione
21 Marzo 2023
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Vivere la transizione

Credo che la nostra situazione in Italia e in particolare nel Molise, ma forse anche nel mondo, sia molto più di transizione che di alternativa; cioè di deserto e di esodo: il passaggio in tempi brevi da una società ad un’altra. La condizione spirituale della nostra generazione è quella di non avere, se non in minima parte, la disponibilità di alternativa perché noi non abbiamo nessuna sicurezza se la società che verrà dopo questa sarà veramente migliore di quella di oggi, in quanto una cosa non è migliore solo perché sta nel futuro. Però né vogliamo, né possiamo sottrarci alla transizione. Non possiamo né vogliamo sottrarci all’appello che viene  da questo futuro; non possiamo sottrarci alla realtà storica che ormai ci impone una società nuova. Non possiamo in alcun modo fissare la situazione esistente, congelarla, perpetuarla esorcizzando il cambiamento che arriva.

Il nostro problema è come vivere la transizione. È il nostro problema come uomini e donne, come cittadini del mondo, di questo Paese e di questa regione. Ancor più è il nostro problema come cristiani vivere la transizione non in stato di eccezione, di incertezza e di paura, ma come una condizione di salvezza e di grazia, come una opportunità, come la condizione più congeniale al nostro stesso essere cristiani, dato che siamo per definizione gli uomini del passaggio, della Pasqua. Noi che viviamo fra una memoria e un’attesa, tra un già e non ancora, tra un’anamnesi ed un escaton. La figura storica e concreta di Gesù, profeta escatologico, messaggero del Regno di Dio che irrompe nel tempo degli uomini, ci apre a due percezioni che specificano questa scoperta.

Innanzitutto la percezione di una estraneità che sconvolge il nostro mondo e richiede un mutamento radicale dei suoi assetti a cui corrisponde una “metanoia-conversio- ne” profonda del proprio modo di vita.

La seconda è quella di una estraneità radicale della sua figura rispetto al contesto della cultura e dei valori della società borghese contemporanea. Il futuro aperto dal Regno di Dio, come un ladro, ci deruba delle nostre certezze e dei nostri valori nel discorso della montagna. Una figura dell’umano che ci si presenta spoglia di tutti i tratti e i titoli che possono renderlo simile a noi. È come uno straniero che ostenda un profilo conflittuale rispetto all’assetto consolidato del nostro mondo.

Riemerge prepotente la riscoperta e la definizione di un concetto di ‘comunità’: una convinzione comune tenuta insieme da un legame che funziona come forza associativa e crea uno spazio comune. Se in quello spazio sociale, in cui vige un legame sociale, si introduce un estraneo si crea una diluizione della forza del vincolo. Di qui la reazione di ‘esclusione’ o di ‘inclusione’ propria del legame sociale. Si tocca il cosiddetto ‘paradosso della comunità’: per mantenersi nella sua identità, essa deve escludere, marcare un confine che divide. Ma quanto più esclude e demarca, tanto più la comunità è esposta al rischio di dissolversi. L’appartenenza ad una comunità, ad una totalità sociale, è all’origine della cittadinanza: cittadino/a è chi è caratterizzato da una appartenenza; straniero risulta colui che originariamente è estraneo a questa appartenenza. La realtà più interessante è che nella cittadinanza si istruiscono e si sedimentano tutti quei ‘beni’ ovvero quei ‘diritti’ nei quali si esplica storicamente la “cosa pubblica”.

Sembra che la filosofia, cui compete pensare il proprio tempo, sia stata refrattaria ai grandi fenomeni umani e politici che hanno scosso il nostro mondo. La nostra storia del novecento ha proposto alla politica e alla società le sfide delle appartenenze, eclusioni, diritti e tutele dei soggetti umani, delle comunità – dalla più piccola, la famiglia, a quelle del villagio, del comune, della metropoli, delle province, delle regioni, degli Stati -, dell’intero mondo umano dentro l’unico mondo fisico nell’unica terra, piccolo pianeta nell’immenso universo. Frammenti di riflessione si ritrovano sui temi delle visioni politiche, economiche e sociali ma nessuna che affronti i temi “segno dei tempi” per la cura di un mondo antropico e biologico altro da quello che stiamo vivendo carico di guerre che non risolvono ma sono il problema; guerre giocate dagli eserciti tanto quanto quelle economiche dove gli interessi di pochi sovrastano i bisogni di tutti, o quelle informatiche  dove esiste solo ciò che va in rete, mentre c’è un mondo reso “nascosto-invisibile”, come il liguaggio politico ha osato fare per i migranti per sfilarsi dalle proprie responsabilità.

‘Risposta’ nuova e ‘responsabilità’ assunta, il «nuovo umanesimo» indicato dal Concilio Vaticano II, all’uomo artefice della cultura: «Siamo testimoni della nascita di un nuovo umanesimo in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia» (GS n.55). Se allora (1965) era una dolce speranza, oggi è il carico di una tragica delusione.☺

 

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