Vivere per gli altri
6 Gennaio 2019
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Vivere per gli altri

Servire, voce del verbo amare. Secondo la grammatica italiana è un errore, ma secondo l’esortazione evangelica, che è la grammatica di Dio, è un invito a perdere per avere, dividere per moltiplicare, sottrarre per addizionare.

Il servizio, soprattutto quello donato senza mittente, quindi, in modo gratuito, è una delle forme apicali per far assaggiare la pietanza del proprio amore a chi ne ha bisogno. Vedere, avere compassione, farsi vicini, fasciare le ferite, versare speranza, farsi carico dei bisogni altrui, delle debolezze, portare in posto sicuro, prendersi cura, pagare per gli altri, promettere, se ce ne fosse ancora necessità, di intervenire ulteriormente. Questi verbi, desunti dal racconto del buon samaritano (Luca 10, 29 – 37), sono il nuovo decalogo. Le nuove parole della libertà, del passaggio, della terra promessa, dell’ abbondanza. Coniugarli in tutti i tempi e i modi possibili è la scommessa per una nuova umanità basata sull’interesse per gli altri, sulla sollecitudine, sul farsi carico. Non più “io” al centro ma “tu” perché solo così si diventa “noi”.

Si comprende bene che questa è una palestra dove occorre esercitarsi per irrobustire i muscoli del servizio, della dedizione, piuttosto quelli del profitto, dell’ interesse personale, del tornaconto. Dedicarsi a “fondo perduto” è questa la logica che sottende un tale atteggiamento. Non la sindrome del boomerang: do per avere, mi interesso per comandare, mi dedico per dominare, porto per prevalere, fascio per legare a me, ti porto perché sei mio, mi preoccupo del tuo futuro per farti dipendere da me. No. Occorre depurare i sentimenti, lavare i panni sporchi del vile interesse e indossare, fossero anche stracci, gli indumenti dell’altruismo. Don Tonino Bello direbbe: grembiule. Lo stilista, di questo insolito capo di abbigliamento, è colui che, in modo esemplare, lo ha indossato “nella notte in cui veniva tradito”. Nella notte non solo intesa cronologicamente, ma quella esistenziale, relazionale, sentimentale, nella notte dell’abbandono, il Cristo oppone i gesti del servizio, della dedizione, dello spezzare, del condividere, dell’inclusione perfino di chi lo tradisce. Non diventa alunno di un atteggiamento che esclude, che lascia a se stessi, ma illumina, magistralmente, quella notte con la luce della fraternità, del servizio. Si chiana a lavare i piedi dei suoi discepoli chiamati amici.

“Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male” (L. Tolstoj).

Che la società contemporanea sia stata dichiarata malata pare sia opinione comune, occorre diagnosticare la vera malattia ed individuare il virus più aggressivo per cercare di farla guarire. Una di queste malattie, che trova larghi consensi anche in senso trasversale, è l’indifferenza. Cioè la totale assenza nel mio pensiero, nel mio sguardo, nella mia azione, della presenza e delle necessità di un altro. Vari primari appaiono sulla scena politica, religiosa, sentimentale, culturale, relazionale e, ognuno con i propri mezzi diagnostici, avanza delle ipotesi. Fra questi, uno dei primari contemporanei, papa Francesco, afferma: “occorre essere isole di misericordia nel mare dell’indifferenza”. Ecco la medicina per avviarsi verso un processo di guarigione. Dire all’altro mi interessi. “I care” diceva un primario di altri tempi: don Lorenzo Milani. Uno dei campi di interesse in cui l’indifferenza, talvolta, predomina è il carcere.

La realtà carceraria che in Italia ha raggiunto una popolazione di circa sessantamila reclusi, migliaia oltre la capienza limite, è una condizione di allontanamento sociale oltre che di segregazione. Le distanze, talvolta, diventano così notevoli che il carcere si trasforma in una discarica umana o, come dice un ex detenuto, “un cimitero di morti viventi”. È una realtà, quella del carcere, che non deve essere letta solo come luogo fisico di reclusione ma deve attirare l’attenzione verso coloro che, benché dietro delle sbarre, non cessano d’essere persone con i loro drammi, le loro speranze, le loro attese. Non sono numeri di matricola derivanti dalle iniziali identificative della casa di reclusione e da numeri random, ma sono persone abitate da problemi, segnate da ferite, devastate da sofferenze, tormentate da sensi di colpa ma, soprattutto, persone che sognano, desiderano, progettano. “Una pena senza speranza non è cristiana e non è umana” dice papa Francesco (carcere di regina Coeli 28 marzo 2018).

Ma come e cosa fare per mettersi al servizio di un detenuto? Servire scomoda, occorre lasciare le proprie sicurezze, alzarsi dalle proprie rilassanti abitudini, abbassarsi agli altri, condividere il loro stato, rimetterci di persona, prepararsi all’ingratitudine. Egoisticamente si può pensare, se è questo ciò di cui si va in cerca è meglio paralizzarsi e non muoversi in nessuna direzione. Chi dona deve donare generosamente, preventivamente e gratuitamente. Questi sono gli ingredienti di chi vuole servire. La sorpresa è sempre grande quando ci si accorge che invece di dare si è ricevuto, invece di aiutare si è stati aiutati, invece di soccorrere si è stati soccorsi. Donare, infatti, benefica chi riceve e bonifica chi offre. ☺

 

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