Wangari mathai
13 Gennaio 2019
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Wangari mathai

Il vero cognome di Wangari è Muta Mathai: lei, dopo il divorzio dal marito, deputato keniota, che le ha imposto di usare un altro cognome, ha semplicemente aggiunto al cognome una A ed ha chiuso la questione in quattro e quattr’otto. Perché Wangari è una donna estremamente determinata. Non a caso uno dei suoi libri si intitola Solo il vento mi piegherà e in esso sostiene che “Un albero spinge le radici nel profondo del terreno e tuttavia svetta alto nel cielo. Ci dice che per poter ambire a qualcosa dobbiamo essere ben piantati per terra e che, indipendentemente da quanto in alto arriviamo, è sempre dalle radici che attingiamo il nostro sostentamento”.

“Troppo istruita, troppo forte, troppo di successo troppo testarda e difficile da controllare” è questo il giudizio lapidario del marito di Wangari Mathai, durante la causa di divorzio intentata contro la moglie. Il giudice gli ha dato ragione e quando Wangari si è permessa di definirlo pubblicamente un incompetente è stata sbattuta in carcere per sei mesi, per offesa alla corte.

Già da piccola aveva mostrato la sua determinazione; la mamma decide di iscriverla a scuola contro la tradizione che non prevedeva l’istruzione delle figlie femmine. Da quel momento la bambina, armata di una lavagnetta, un quaderno, una matita, affronta con fierezza a piedi scalzi i 5 km di strada polverosa che la conducono alla sua nuova vita. È nata in una regione montuosa del centro del Kenya, nel 1940, da una famiglia di contadini che viveva lì da molte generazioni.

Quando Wangari ricorda la propria infanzia, ascoltiamo quasi una favola: “Vivevamo in una terra ricca di cespugli, piante rampicanti, felci ed alberi. Dato che la pioggia cadeva in modo irregolare e sicura l’acqua potabile si poteva trovare ovunque. C’erano grandi campi, ben irrigati, di mais, fagioli, frumenti e ortaggi; in pratica non si sapeva cosa fosse la fame. Ma il colonialismo selvaggio e le successive corrotte dominazioni africane rovinano il Kenya. Nel 1943 il padre è costretto, come molti capifamiglia, a lavorare per una famiglia di coloni inglesi, cui erano state assegnate le terre più fertili subito sfruttate con coltivazioni intensive di mais e frumento (che hanno portato in parte alla desertificazione di questi luoghi). I contadini vivono alla stregua di schiavi. Sono costretti a lavorare con salari minimi con cui devono pagare le tasse del nuovo governo che introduce il denaro a scapito degli scambi in natura.

Dopo essersi diplomata con il massimo dei voti alle scuole superiori, nel 1960 le è offerta un’occasione incredibile grazie ad una buona pratica introdotta dal governo degli Stati Uniti dal senatore J. F. Kennedy: lei è fra i 300 studenti kenyoti a vincere una borsa di studio per frequentare un college americano. “L’America mi ha completamente cambiata, vedere il movimento per i diritti civili ha cambiato quello che sapevo sull’essere una cittadina, una donna, su come vivere. Ma ho sempre saputo che sarei tornata”.

E torna ed ha una piccola grande idea, semplice ma potentissima: bisogna ripopolare di verde gli altipiani piantando nuovi alberi per correggere una china che lei si rifiuta di credere irreversibile. Affida questo compito proprio alle donne, l’anello più debole della società, perché capisce che hanno l’energia e la determinazione necessaria per questa nuova rivoluzione. “Abbiamo iniziato piantando alberi ma presto abbiamo cominciato a piantare idee! Stavo facendo vedere che le donne potevano essere indipendenti, che erano forti”.

È l’inizio del movimento Green Belt Movement, quando il piccolo esercito di donne manifesta contro la costruzione abusiva di un complesso residenziale con grattacieli e negozi all’interno dell’Uhurru Park di Nairobi, un misterioso squadrone di uomini armati le aggredisce picchiandole a sangue, mentre le forze di polizia rimangono a guardare senza difenderle. Il commento del presidente Moi è di netta condanna nel confronto delle manifestanti: “le donne devono restare a casa e non immischiarsi nei fatti politici”. Ma Wangari non si arrende e denuncia “vogliono prendere il terreno pubblico che appartiene alla comunità e darlo ad amici e sostenitori politici per le loro ville, e campi da golf”. La donna albero riesce a vincere contro Moi e altri uomini potenti del suo paese. L’uragano Wangari va avanti e, principalmente con le sue donne, pianta quaranta milioni di alberi di acacie nelle terre comunitarie dell’Africa centrale, contribuendo così a realizzare il più grande argine alla deforestazione e all’erosione del suolo che sia mai stato realizzato. “I deserti avanzano da nord a sud e la foresta del Congo è l’unico baluardo alla desertificazione del continente”, spiega Wangari. “Senza quel polmone verde avremo un cambio climatico radicale e pericoloso in tutto il pianeta”. Piantando acacie, questa bella signora, che contagia il mondo con le sue idee, ha vinto nel 2004 il Nobel per la Pace. A tutti quelli che la scoraggiano e le consigliano di abbandonare la battaglia impari, Wangari racconta la storia del colibrì che nella foresta in fiamme mentre tutti gli animali scappano per la paura, cerca di domare l’incendio continuando a portare gocce d’acqua con il suo piccolo becco. Gli altri animali lo prendono in giro ma lui risponde serafico: “possiamo sempre fare qualcosa. Si può sempre portare un po’ d’acqua nel proprio becco”.☺

 

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