Willy, don roberto, e la fabbrica dell’odio
19 Ottobre 2020
laFonteTV (3191 articles)
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Willy, don roberto, e la fabbrica dell’odio

Nelle scorse settimane ci siamo misurati con l’inaudita violenza dell’ aggressione mortale a Colleferro al giovane Willy Monteiro e poco dopo, proprio negli ultimi giorni, con quella altrettanto efferata nei confronti di don Roberto Malgesini.

In entrambi i casi questi omicidi hanno dato occasione per colorite reazioni sui social network e al proliferare di commenti giornalistici circa le possibili ragioni di una manifestazione così smodata di violenza e di odio. Alcuni sostengono dalle colonne dei giornali e dei nuovi media che questa violenza provenga da aree a diverso titolo marginali e/o periferiche ai grandi poli urbani o ancora da un malinteso senso della fama e della visibilità personale ingenerata dalla digitalizzazione crescente della comunicazione e da un edonismo sconsiderato basato sul nesso inscindibile tra perfezione (a patto che di perfezione si possa parlare) del corpo – macchine potenti – prevaricazione sugli altri – successo sui social come assicurazione della propria esistenza in vita.

Al di là del dolore e dello sconcerto insanabili che ci lascia la scomparsa di due persone a diverso titolo miti, gentili e generose, vorrei spendere qui solo qualche parola per commentare alcune delle riflessioni cresciute intorno a questi tragici accadimenti di recente. Si è andata infatti accentuando l’idea e il conseguente racconto mediatico di una supposta, quanto pregiudiziale opposizione tra metropoli e provincia che attribuisce, in genere, al contesto periferico e provinciale un’antica quanto retorica paura di romanticismo e “nostalgia strutturale”, quanto in altri casi una definizione della stessa come “terra dispersa” (waste land) o “di nessuno” (no man’s land) o ancora “terra di briganti” senza legge né regole.

Al contrario io credo, basandomi proprio sulle etnografie, che sono proprio le letture intermedie e interstiziali che ci permettono di interpretare e agire in quel fluido trascorrere tra città, provincia, aree peri-urbane, rurali, periferie fragili, interne uscendo da logiche dicotomiche miopi e in ultima istanza non feconde per una azione innovativa e consapevole.

La realtà è che lo sfumato e complesso territorio tra città, campagne, aree interne, montagne ha visto più recentemente destrutturarsi la sua stessa forma caratterizzante e crescere i quartieri di cemento e un modello del vivere associato e dell’abitare non endogeno, ma copiato, scimmiottando dalle aree già di per sé periferiche e fallimentari delle città, lasciando le comunità sole a gestire la difficile gestione delle convivenze e i molti fronti dello scontro sociale, culturale ed economico.

È cambiata la composizione demografica anche dei borghi, la terziarizzazione del lavoro, l’abbandono progressivo delle campagne e delle montagne come luogo produttivo, una sempre maggiore mercificazione dei luoghi, una modernizzazione frettolosa, una progressiva privatizzazione degli spazi e delle attività, una incrinatura profonda nel sistema della partecipazione sociale e della solidarietà. Nel vuoto aperto da questa incrinatura il culto dei corpi perfetti, della forza incontrollata, del divertimento illimitato diviene più centrale di ogni rispetto, di ogni relazione come atto estremo di preservazione dei privilegi, esclusivo e marginalizzante.

È questa crescente difesa dei privilegi di alcuni che oggi viene elevata a principio di appartenenza alla ‘parte giusta del mondo’, abilmente usata e retorizzata dalle destre estreme, che ha reso familiare, “digeribile” anche la violenza senza freni e senza ragioni – se mai ve ne sono – dei brutali assassinii di queste ultime settimane.

Ciò rende opaca e illeggibile ogni gentilezza, impedisce di comprendere il senso del dono e lo slancio generoso. Lo ridicolizza e lo declassa a marginale attardarsi nella tenerezza, esaltando a categoria ispiratrice dei rapporti e delle relazioni la forza e lo sprezzo come unico modo di affermarsi a danno degli altri.

Ciò che emerge dalla disgregazione di solidarietà e mutualismo è la frattura radicale nell’idea stessa di reciprocità. La lettura di questi tragici episodi non può esaurirsi nella retorica dell’edonismo impazzito con cui, in fondo facilmente, si è voluto leggere il tragico caso di Willy. Analogamente non è possibile e non sarebbe giusto limitare a una lettura individualistica, minimizzante l’uccisione disperata e irrelata di don Roberto da parte di uno dei suoi assistiti affetto da un severo disagio psichico. È saltato, in entrambi i casi, un contesto capace di funzionare da accoglienza e da cornice per le persone coinvolte in questi contesti; quel senso di comunità che avrebbe dato sostegno e protezione al gesto gentile di Willy e senso al generoso protendersi di don Roberto.

Per comprendere questi tragici eventi si deve percorrere la strada impervia ed estrema che mette radicalmente in discussione l’idea di un consumo del mondo indiscriminato, senza limiti né autocontrollo. Ciò si traduce per ciò stesso in un altrettanto violento e irrelato consumo di vite.

I corpi sono materia irrilevante, oggetti. Fuori dal circuito di reciprocità e di senso connesso alla relazione, le persone divengono merce, immagini, forme spolpate e disanimate che abitano apparentemente solo lo spazio di un display. Possono essere plasmate, destrutturate, negate come cose da consumare e da gettare. Così, ascoltare e prevenire il disagio e ricostruire rispetto e reciprocità si fa scelta emotiva e morale, ma diviene al tempo stesso una scelta politica e una radicale forma di pacificazione sociale.☺

 

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