Salvare il pianeta
19 Gennaio 2016
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Salvare il pianeta

I prossimi anni ci aiuteranno a capire se l’accordo sul cambiamento climatico, sottoscritto il 12 dicembre 2015 a Parigi, ha quella portata storica che molti gli attribuiscono. Un fatto è chiaro fin da oggi: i rappresentanti dei 195 paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Parigi sono riusciti a stupirci. Hanno scritto, nero su bianco, che, per salvare il pianeta, il riscaldamento globale non dovrà crescere più di due gradi centigradi rispetto alla fase pre-industriale e che si farà ogni sforzo per mantenere tale crescita al di sotto di un grado e mezzo. Siamo di fronte ad un obiettivo ambizioso che, se perseguito adeguatamente, può innescare cambiamenti epocali nella qualità ambientale e nello sviluppo socio-economico globale.

Gli scettici affermano che nulla accadrà dopo Parigi perché l’ accordo non è del tutto vincolante e che, per di più, mancano gli strumenti operativi necessari per passare dalla enunciazione ai fatti. Non è escluso che abbiano ragione. Mi permetto, tuttavia, di dire che da Parigi doveva venire soprattutto un messaggio esplicito sui rischi che il mondo corre se non cambia strada. E quel messaggio è arrivato chiaro e forte. Ora non ci sono dubbi che il contenimento del riscaldamento globale è una esigenza urgente e inderogabile. Ora sappiamo che per salvare il pianeta non basta passare dagli idrocarburi alle energie rinnovabili. È indispensabile farlo il più velocemente possibile. Il cambiamento dei modelli produttivi e degli stili di vita, premessa indispensabile per evitare quel rischio, deve passare, però, attraverso una riflessione culturale e una innovazione socio-economica capace di coinvolgere miliardi di uomini e le loro istituzioni rappresentative.

Il punto di partenza è chiaro. Le principali energie fossili – carbone, petrolio e gas – sono disponibili in quantità considerevoli e, se i processi economici non saranno adeguatamente governati, saranno bruciate interamente e con esse saranno cancellate molte possibilità di sopravvivenza per l’ambiente e per l’uomo. La cultura, le conoscenze scientifiche, gli strumenti tecnologici già disponibili, insieme alla consapevolezza dell’importanza della sostenibilità ambientale per la qualità della nostra vita, ci consentono di classificare le energie fossili tra le risorse di un passato del quale sbarazzarsi. D’altro canto, le principali fonti di energia rinnovabile – idrica, eolica e solare – si stanno diffondendo ma, per essere competitive e pienamente utilizzabili, hanno bisogno di ingenti investimenti sul fronte della ricerca e dell’innovazione.

Molti imprenditori globali cominciano a prendere atto di questo nuovo scenario. Nel 2014 la Rockfeller Brothers annunciò lo spostamento di consistenti investimenti dalle fossili alle rinnovabili affermando, per bocca di Steven Rockfeller: “l’operazione ha una dimensione non solo morale ma anche economica. Prevediamo problemi per le aziende che non difenderanno il pianeta dai cambiamenti climatici”. Poco più di un mese fa, Bill Gates, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos hanno annunciato la creazione di un fondo da 20 miliardi di dollari per sostenere la ricerca sulle energie pulite. Nel contempo, un gruppo di venti Paesi concordava il raddoppio degli investimenti nelle energie verdi, portandoli a un totale di 20 miliardi di dollari l’anno.

I fatti che accadono, e perfino la tempistica del loro verificarsi, ci dicono che la collaborazione tra pubblico e privato può rendere disponibili le risorse necessarie per dare alla Ricerca e all’Innovazione la possibilità di rendere l’energia rinnovabile più conveniente degli idrocarburi. Ma il compito di guidare e accelerare il passaggio alla green economy, puntando anche sull’innovazione degli apparati produttivi e delle infrastrutture sociali, tocca alle istituzioni, a partire da quelli nazionali. Ad esse bisogna chiedere di promuovere, a livello globale, l’attivazione di uno strumento fondamentale per accelerare il cambiamento necessario: una consistente carbon tax volta a rendere meno conveniente il ricorso agli idrocarburi e a sostenere la ricerca di tecnologie capaci di produrre energia a basso contenuto di emissioni.

Ma questo è un ragionamento che vale per i paesi che devono cambiare il loro modello di sviluppo. Per i paesi in via di sviluppo il discorso è diverso. La loro unica possibilità di crescita resta legata all’uso delle energie a minor costo come il carbone e il petrolio. A meno che il senso di responsabilità di chi è cresciuto, anche a scapito di chi è rimasto fermo, non induca a rivedere al rialzo quei cento miliardi l’anno che, in base all’accordo di Parigi e a partire dal 2020, i paesi sviluppati dovranno dare ai paesi più poveri per poter accedere all’utilizzo delle fonti rinnovabili.

Di certo, se l’accordo di Parigi sarà o meno “storico” lo decideremo noi con le nostra disponibilità a cambiare stile di vita e con l’indirizzo politico e programmatico che sapremo dare ai nostri rappresentanti istituzionali.☺

 

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