un famelico bisogno
18 Aprile 2010 Share

un famelico bisogno

 

Idealmente al vostro cospetto, più del resto temo che mi scambiate per una belzebù della critica letteraria, saputa e compresa di sé, come tanti specialisti di letteratura auto-persuasi di esser tali, specie in periferia. Non sono: ogni mio consiglio di lettura è stato, meglio, è attualmente, un’esperienza di vita che mi penetra, mente e sentimenti; quanto per quella via mi comunica, tanto metto in comune con voi, semplicemente e senza altre pretese (di qui, oltre che dalle diffuse incompetenze in materia di scrittura, l’uso accentratore della prima persona, antipatico fuori di dubbio.). Ennesima premessa, dall’apparenza vana e tuttavia per me urgente. Capirete.

Al dunque.

Credo di aver parlato poco con voi di poesia; pure ne leggo: secondo la solita modalità caotica e frammentaria, a tratti concentrata a tratti vaga, spinta comunque da un bisogno intermittente e  famelico di assaporare un pezzo di verità, bella se anche veicola dolore (bello: ieri, su una nota testata italiana un ugualmente noto italianista sponsorizzava la quotidiana sonorità di questo aggettivo di fronte ai più mediatici, mass-mediatici, eccellente, magico, fantastico, sovraccaricati di senso al punto da perdere senso; siamo in due, almeno).

Bisogno famelico di verità: una poesia di E. Dickinson dice bene, a mio avviso, questa proprietà specifica della poesia, di ogni poesia, purché  riuscita – aggiungo -, in quanto capace di superare i limiti dello sfogo eccentrico e della grafomania; ve ne trascrivo un brano, per gli anglofoni in inglese, cosicché – fortunati! – possano sentirne la musica pura, scevra dei rumori esterni di suono e di senso che inevitabilmente disturbano anche la migliore delle traduzioni:

Questo era un poeta-colui

Che distilla un senso stupefacente

Dai significati ordinari

E nettare così immenso

 

Dalla specie familiare

Che perì sulla nostra porta

Ci stupisce non essere stati noi

Ad arrestarla prima

 

This was a Poet-It is That

Distills amazing sense

From ordinary Meanings-

And Attar so immense

 

From the familiar species

That perished by the Door-

We wonder it was not Ourselves

Arrested it-before.

Il poeta scopre ciò che è sotto gli occhi di ognuno, scontorna l’esperienza individuale e collettiva, ne estrae il senso, lo spreme dall’evento passeggero, dando ad essa forma definitiva e stupendoci con la inevitabilità della sua parola, che sentiamo nostra, come se anche noi l’avessimo potuto dire.

Il famelico bisogno di poesia di cui parlavo per me è di tanti, tutti va a finire, lasciamo poi stare che la consapevolezza del bisogno sia più o meno emergente ed elaborata, e che i casi della vita, minima parte dei quali controllabili – sono convinta -, maturino sensibilità diverse di fronte alla poesia, nella misura stessa in cui offrono occasioni diverse rispetto alla lettura.

Ho incontrato la poesia di Vittorio Sereni per necessità di studio; poi la necessità si è fatta scelta, perché con quel suo argomentare fuori e dentro la storia e con le sue parole, vibranti di carità umana eppure composte, sentivo un accordo familiare.

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –

sappilo che non finisce qui,

di momento in momento credici a quell’altra vita,

di costa in costa aspettala e verrà

come di là dal valico un ritorno d’estate

Così in epigrafe ad un’antologia di Sereni che ho acquistato sciolta dai vincoli dello studio. Ricordo, appena letto, la condizione di agio piano, e, quasi da un colloquio intimo, il conforto che mi veniva da quell’idea di adesione alla vita coniugata all’ipotesi umanissima di un riscatto ulteriore. Per lente frequentazioni, il mio legame con la poesia di Sereni è diventato più saldo, quasi necessario, come gli amori e le amicizie che non sfolgorano né strepitano, la cui quieta presenza, però, si irrobustisce col tempo. Eccomi, dunque, a suggerirvene la lettura.

Il curriculum poetico di Sereni, lungo, ricco, variato, attraversa per tre quarti il Novecento, convulsioni storiche e trend letterari compresi: da Frontiera, al Diario di Algeria, fino a Gli strumenti umani (le tre sue meglio note raccolte di poesia), la Storia funge alternativamente da sfondo vago, da materia prima, da casuale ma irrinunciabile variante di una riflessione in poesia sulla vita; e Sereni passa da un pur discreto assenso alla poetica dell’ermetismo, contrassegnata dal modulo principe dell’assenza esistenziale e linguistica, ad una dichiarata volontà di “fedeltà al tempo e alle circostanze vissute” (parole sue), che si manifesta in una più marcata presenza di prosa nel tessuto dei suoi versi.

Non è qui luogo per un consuntivo della poesia di Sereni, non ne sono capace né è mia ambizione; ché anzi, e con maggior forza per la presentazione e la conoscenza astratte di un poeta, ripeterei quanto Dante Isella, introducendo la stessa edizione antologica di Sereni cui prima accennavo,  diceva a proposito degli interventi di chiosa alle singole poesie: “A chi sappia porgerle orecchio la poesia sa parlare da sé, in aenigmate. Nulla vale quanto l’emozione del muto colloquio diretto col testo”.

A voi la libera valutazione: intellettiva, emotiva, musicale; ora, solo rari spunti estratti dal carnet di temi, di voci, di ritmi della poesia di Sereni, che almeno su me esercita tanto fascino.

La perplessità esistenziale, ad esempio, che accompagna l’elegia della giovinezza al tramonto e della scomparsa di un’epoca e che si traduce in assidua presenza dei morti, grazie ai quali, nei quali, ciò che vive rivela la sua friabilità e la sua verità ultima (…Voi morti non ci date mai quiete/ e forse è vostro/ il gemito che va tra le foglie/ nell’ora che s’annuvola il Signore;…Nella morte già certa/ cammineremo con più coraggio,/ andremo a lento guado coi vani/ nell’onda che rotolo minuta;…Siamo tutti sospesi/ a un tacito evento questa sera/ entro quel raggio di torpediniera/ che ci scruta poi gira se ne va;… Questo trepido vivere nei morti).

Ancora, l’allegoria della vita, intesa come transito e prigionia, ben oltre gli effettivi spostamenti e le concrete gabbie di cui si è fatto prova nella guerra (…Ora ogni fronda è muta/ compatto il guscio d’oblio/ perfetto il cerchio;… Questa è la musica ora:/ delle tende che sbattono sui pali./ Non è musica d’angeli, è la mia/ sola musica e mi basta -;… E la voce più chiara non è più/ che un trepestio di pioggia sulle tende,/ un’ultima fronda sonora/ su queste paludi del sonno/ corse a volte da un sogno).

Soprattutto attraente, la nozione del tempo e dello spazio. I testi di Sereni recano spesso una doppia data, di partenza e di arrivo, sorta di inarcamento cronologico che – sono parole dello stesso poeta – “non implica in alcun modo fasi di lavorazione protratte al segno dell’incontentabilità o del rigore dal punto di vista stilistico bensì una serie di modifiche e aggiunte, di deviazioni articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni offerte o suggerite quando non imposte dall’esistenza, dal caso, dalla disposizione dell’ora”. Allo iato temporale risponde, nello spazio, il circuito del ritorno: i luoghi già vissuti, rivisitati, si animano di situazioni e presenze reali mescolate a circostanze, figure, ricordi provenienti dal passato, in un continuo fluire e sovrapporsi dello spazio-tempo.

E quest’osmosi, se pure rende radicale l’insicurezza, il dubbio sulla propria identità, costituisce una forma di redenzione dalla vita: il tempo dell’ora, per eccellenza il tempo di Sereni, conoscibile per diretta esperienza, si accompagna costantemente ad un passato che non è museo memoriale, ma attualità, “una somma di sostanze, ossia qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi”(sono parole di Sereni), di modo che il presente risulta essere  realizzazione parziale e riduttiva di un numero altissimo di potenzialità non tradotte in atto, di destini mancati, a cui il poeta restituisce una speranza e che riporta in vita, rivendicando loro diritto all’essere oltre i minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità:

…I morti non è quel che di giorno

in giorno va sprecato, ma quelle

toppe d’’inesistenza, calce o cenere

pronte a farsi movimento e luce.

 Non dubitare, – m’investì della sua forza il mare –

parleranno.

A presto. ☺

 

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