"Ciò che mi preme è comprendere. Se altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo" (Hannah Arendt).
Ron Coleman è un uomo di quarantanni, corporatura grossa, capelli con codino un po’ biondi un po’ bianchi, gli occhi scuri che ti guardano in fondo, una sgargiante camicia tipo hawaiana e la camminata a falcate veloci. Lo vedo nella hall della sala-convegni con la moglie Karen che sorseggia un bicchiere di birra. Gli sorrido: mi scruta serio e mi ricambia.
La sala è strapiena: psichiatri, educatori, familiari, pazienti.
Quando Ron Coleman appare sul palco, inizia a parlare con voce profonda, usa pause e timbri ben calibrati; mentre la traduttrice simultanea parla, lui fa smorfie e guarda noi del pubblico.
Ron Coleman è un istrione.
Ron Coleman si schiera contro la psichiatria istituzionale che, fra i suoi tanti dogmi auspicabili, sostiene l’impossibilità di guarire da un disturbo mentale grave. La psichiatria occidentale, sostiene, si pone come unici obiettivi concetti quali mantenimento, controllo sociale, limitazione dei danni, senza nemmeno prendere in considerazione una ripresa attiva-guarigione dell’individuo (meglio definita dal termine recovery) ed offrendo, come unico scenario migliore possibile, una condizione stabilizzata. In questa prospettiva, il paziente cronico non può mai essere il risultato di un fallimento psichiatrico, poiché si preferisce far ricadere le responsabilità sul malato, magari attribuendogli la “resistenza alla terapia”.
Ron Coleman è un temerario.
Improvvisamente cerca di provocarci in maniera terribile come farebbero le “voci”: “Sei sporco, non vali niente, lui è cattivo e ti vuole uccidere… Reagisci!… Non vali niente…”.
Questa breve esperienza provoca angoscia, rabbia per non potere rispondere a tono. Sono tutti sentimenti che noi percepiamo accennati ma che uno “psicotico” vive allo spasimo.
Il “cogito ergo sum” cartesiano si trasforma nella prospettiva di Coleman in “Sono ciò che penso di essere”. Persone con esperienze invalidanti “penseranno di essere” in maniera diversa dalla nostra, rapportandosi con il mondo a loro modo, pagando colpe che spesso sono piovute loro addosso: traumi, abusi, sevizie.
Secondo Coleman “Le persone possono guarire completamente, velocemente e fuori dai servizi , purché si combatta la tendenza a ridurre le cause della malattia mentale a motivi biologici. Non mi sono ammalato da un giorno all’altro ma ho fatto un viaggio verso la malattia, così come ho fatto un viaggio verso la guarigione”.
Ron Coleman strappa applausi.
D’altra parte prima dell’avvento dei neurolettici, gli psicotici guarivano attraverso soli colloqui nel 33% dei casi (Warner, 1991), percentuale che rimane invariata fino ai giorni nostri nonostante l’aumento delle spese per gli psicofarmaci e la gestione dei servizi psichiatrici, che Coleman definisce “spesso organizzati per il mantenimento della malattia e non per la guarigione”. Se le medicine non funzionano bisogna avere il coraggio di cambiare strada senza dare colpa al paziente definendolo semplicemente “resistente al farmaco”. “Sono orgoglioso di lavorare nella psichiatria – afferma Ron – ma talvolta mi vergogno di quello che facciamo ai nostri clienti: nella nostra società si cerca sempre una soluzione adatta per tutti mentre dovremmo cercare la soluzione giusta per quel tipo di persona specifico”.
Un esempio concreto. Ron Coleman in Nuova Zelanda ha avuto l’opportunità di mettere in pratica la sua personale sfida all’organizzazione dei servizi che trattano schizofrenie: presi i 20 pazienti più gravi è stato capace di restituirli al mondo completamente guariti in un periodo da 6 a 12 mesi.
Il segreto della sua tecnica risiede nell’ascoltare e interagire con le voci del paziente, cercando di valorizzare e avvicinare al paziente quelle positive e allontanare e contrattare con quelle persecutorie. Non sedarle attraverso farmaci e costrizioni fisiche, ma renderle tollerabili, accettabili, amiche: non si possono cambiare gli eventi della vita ma si può lavorare sul nostro modo di relazionarci ad essi e di percepirli.
Siamo tutti schizofrenici?
Siamo tutti un po’ scissi a volte con un piede nella realtà e l’altro nella fantasia, in questo c’è poco di male. Leonardo Da Vinci, Mozart, Gesù, Giovanna D’Arco, Beethoven e Socrate sentivano voci. Non solo persone famose sono in questa lista: molti quando commettono cose sbagliate sentono una voce dire: “Quello che stai facendo è una fesseria”. A ben vedere la differenza tra pensiero, coscienza e “voce” è più sottile di quanto possa apparire e l’essere schizofrenici è forse solo un diverso modo di essere e sentirsi. Non è anormale dunque sentire le voci ma è la risposta ad esse a causare il problema, che viene poi mantenuto e rinforzato dalla società.
Ron Coleman è inquietante.
“Nel 1996 davamo ai nostri pazienti – dice Coleman- un cellulare, dicendo loro che ogni volta che sentivano una voce dovevano prendere il telefono, schiacciare un tasto qualsiasi e rispondere alle voci tramite l’apparecchio. Il risultato fu incredibile perché i pazienti erano in grado di potersi muovere liberamente per i negozi senza che nessuno si allarmasse e chiamasse la polizia per portarli in ospedale”.
L’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) – riferisce Coleman – dice chiaramente che per chiamarsi malattia un disagio deve avere una causa comune, il medesimo modo di progredire e lo stesso esito. Questi tre criteri non sono rispettati perché la ricerca mostra che sono diversi da situazione a situazione. Quindi non ci sono mostri da rinchiudere ma persone agitate da paure e infelicità che sono le nostre pene quotidiane ingigantite.
Per Coleman si può parlare di politica della pazzia: “L’organizzazione dei servizi è critica e ogni sistema cura le persone in un certo modo: l’idea della cura è politica. Quello che accade nella psichiatria rispecchia i valori della società agricola, industriale o contemporanea. La perdita di autorità di Berlusconi in Italia, di Bush negli Stati Uniti e di Blair in Inghilterra sono sintomatici di un indebolimento della tendenza riduzionista a favore di quella della diversità, poiché il capitalismo accetta un solo punto di vista negando gli altri (globalizzazione anche dei comportamenti). Oggi le case farmaceutiche diminuiscono la loro supposta autorità morale in psichiatria, sfidate dallo scetticismo delle persone frustrate dal non vedere guarire i propri cari”. È il concetto di malattia a dover cambiare: “Serve essere consapevoli che la malattia non è solo biologia alterata dentro noi; siamo persone, corpo e mente che interagiscono alimentati dalle emozioni. La biologia ha un suo ruolo dentro l’uomo che si dà un senso all’interno del suo contesto personale, familiare e sociale”.
Ron Coleman è un uditore di voci.
È opinione diffusa anche in Italia che somministrare psicofarmaci sia la sola cosa che si possa fare in moltissime situazioni, forse nella maggioranza dei casi. In un altro considerevole numero di casi, insieme alla somministrazione di farmaci vengono prodotte svariate attività. Si danno psicofarmaci e poi si fa anche altro. Psicoterapia, riabilitazione, inserimenti. Tutto questo rimane però subordinato all’intervento principe, il farmaco. Senza scommettere né sulla psicoterapia, né sulla riabilitazione, né su altro. Il farmaco diventa il braccio, lo strumento fisico del pensiero tutorio dei servizi. Non si punta più su quel tanto o poco potere di “guarigione” che la vita, insieme a tanti motivi disturbanti, porta con sé. Soluzioni abitative, lavorative, di mutuo aiuto, quando siano vere e non limitate dall’invadenza eccessiva dei presidi territoriali, contribuiscono alla trasformazione della persona e contemporaneamente del contesto. Ma su tutto questo bisogna scommettere. E per farlo bisogna aprire la riflessione sulla funzione dei farmaci al di là delle rassicuranti parole di esperti e case farmaceutiche.
In generale gli psicologi e gli stessi operatori della riabilitazione “non vedono” questa subordinazione e questa distorsione, per non dire delle cosiddette cooperative sociali che sembrano proprio pensare a tutt’altro. La riabilitazione, la psicoterapia ecc. diventano, se va bene, un lavoro di riduzione del danno psichiatrico.
Il successo riscosso dai gruppi di auto-aiuto all’estero è dovuto proprio alla modalità di approcciarsi al fenomeno. Il poterne parlare liberamente, il poter condividere le emozioni, l’uscire dall’isolamento, l’essere compresi, sono tutte qualità che portano alla rassicurazione, alla speranza e alla successiva capacità di parlare, affrontare il male e discuterne in famiglia e con amici. È stato dimostrato quanto sia importante l’appoggio dei familiari o amici, soprattutto per evitare “ricadute” Le misure riabilitative che sono risultate migliori, sono infatti basate sul principio di eguaglianza e sul coinvolgimento delle persone all’interno del processo di aiuto, per sviluppare una crescita nell’auto-consapevolezza e nell’autodeterminazione e per costituire una nuova identità personale. Il potere decisionale viene spostato dal sistema all’individuo ed il ruolo dell’operatore e quello dell’utente si cancellano per ridefinirsi a vicenda.
Ron Coleman ha vinto di nuovo: a quando la ricostruzione di tutti? ☺
ninive@aliceposta.it
"Ciò che mi preme è comprendere. Se altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo" (Hannah Arendt).
Ron Coleman è un uomo di quarantanni, corporatura grossa, capelli con codino un po’ biondi un po’ bianchi, gli occhi scuri che ti guardano in fondo, una sgargiante camicia tipo hawaiana e la camminata a falcate veloci. Lo vedo nella hall della sala-convegni con la moglie Karen che sorseggia un bicchiere di birra. Gli sorrido: mi scruta serio e mi ricambia.
La sala è strapiena: psichiatri, educatori, familiari, pazienti.
Quando Ron Coleman appare sul palco, inizia a parlare con voce profonda, usa pause e timbri ben calibrati; mentre la traduttrice simultanea parla, lui fa smorfie e guarda noi del pubblico.
Ron Coleman è un istrione.
Ron Coleman si schiera contro la psichiatria istituzionale che, fra i suoi tanti dogmi auspicabili, sostiene l’impossibilità di guarire da un disturbo mentale grave. La psichiatria occidentale, sostiene, si pone come unici obiettivi concetti quali mantenimento, controllo sociale, limitazione dei danni, senza nemmeno prendere in considerazione una ripresa attiva-guarigione dell’individuo (meglio definita dal termine recovery) ed offrendo, come unico scenario migliore possibile, una condizione stabilizzata. In questa prospettiva, il paziente cronico non può mai essere il risultato di un fallimento psichiatrico, poiché si preferisce far ricadere le responsabilità sul malato, magari attribuendogli la “resistenza alla terapia”.
Ron Coleman è un temerario.
Improvvisamente cerca di provocarci in maniera terribile come farebbero le “voci”: “Sei sporco, non vali niente, lui è cattivo e ti vuole uccidere… Reagisci!… Non vali niente…”.
Questa breve esperienza provoca angoscia, rabbia per non potere rispondere a tono. Sono tutti sentimenti che noi percepiamo accennati ma che uno “psicotico” vive allo spasimo.
Il “cogito ergo sum” cartesiano si trasforma nella prospettiva di Coleman in “Sono ciò che penso di essere”. Persone con esperienze invalidanti “penseranno di essere” in maniera diversa dalla nostra, rapportandosi con il mondo a loro modo, pagando colpe che spesso sono piovute loro addosso: traumi, abusi, sevizie.
Secondo Coleman “Le persone possono guarire completamente, velocemente e fuori dai servizi , purché si combatta la tendenza a ridurre le cause della malattia mentale a motivi biologici. Non mi sono ammalato da un giorno all’altro ma ho fatto un viaggio verso la malattia, così come ho fatto un viaggio verso la guarigione”.
Ron Coleman strappa applausi.
D’altra parte prima dell’avvento dei neurolettici, gli psicotici guarivano attraverso soli colloqui nel 33% dei casi (Warner, 1991), percentuale che rimane invariata fino ai giorni nostri nonostante l’aumento delle spese per gli psicofarmaci e la gestione dei servizi psichiatrici, che Coleman definisce “spesso organizzati per il mantenimento della malattia e non per la guarigione”. Se le medicine non funzionano bisogna avere il coraggio di cambiare strada senza dare colpa al paziente definendolo semplicemente “resistente al farmaco”. “Sono orgoglioso di lavorare nella psichiatria – afferma Ron – ma talvolta mi vergogno di quello che facciamo ai nostri clienti: nella nostra società si cerca sempre una soluzione adatta per tutti mentre dovremmo cercare la soluzione giusta per quel tipo di persona specifico”.
Un esempio concreto. Ron Coleman in Nuova Zelanda ha avuto l’opportunità di mettere in pratica la sua personale sfida all’organizzazione dei servizi che trattano schizofrenie: presi i 20 pazienti più gravi è stato capace di restituirli al mondo completamente guariti in un periodo da 6 a 12 mesi.
Il segreto della sua tecnica risiede nell’ascoltare e interagire con le voci del paziente, cercando di valorizzare e avvicinare al paziente quelle positive e allontanare e contrattare con quelle persecutorie. Non sedarle attraverso farmaci e costrizioni fisiche, ma renderle tollerabili, accettabili, amiche: non si possono cambiare gli eventi della vita ma si può lavorare sul nostro modo di relazionarci ad essi e di percepirli.
Siamo tutti schizofrenici?
Siamo tutti un po’ scissi a volte con un piede nella realtà e l’altro nella fantasia, in questo c’è poco di male. Leonardo Da Vinci, Mozart, Gesù, Giovanna D’Arco, Beethoven e Socrate sentivano voci. Non solo persone famose sono in questa lista: molti quando commettono cose sbagliate sentono una voce dire: “Quello che stai facendo è una fesseria”. A ben vedere la differenza tra pensiero, coscienza e “voce” è più sottile di quanto possa apparire e l’essere schizofrenici è forse solo un diverso modo di essere e sentirsi. Non è anormale dunque sentire le voci ma è la risposta ad esse a causare il problema, che viene poi mantenuto e rinforzato dalla società.
Ron Coleman è inquietante.
“Nel 1996 davamo ai nostri pazienti – dice Coleman- un cellulare, dicendo loro che ogni volta che sentivano una voce dovevano prendere il telefono, schiacciare un tasto qualsiasi e rispondere alle voci tramite l’apparecchio. Il risultato fu incredibile perché i pazienti erano in grado di potersi muovere liberamente per i negozi senza che nessuno si allarmasse e chiamasse la polizia per portarli in ospedale”.
L’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) – riferisce Coleman – dice chiaramente che per chiamarsi malattia un disagio deve avere una causa comune, il medesimo modo di progredire e lo stesso esito. Questi tre criteri non sono rispettati perché la ricerca mostra che sono diversi da situazione a situazione. Quindi non ci sono mostri da rinchiudere ma persone agitate da paure e infelicità che sono le nostre pene quotidiane ingigantite.
Per Coleman si può parlare di politica della pazzia: “L’organizzazione dei servizi è critica e ogni sistema cura le persone in un certo modo: l’idea della cura è politica. Quello che accade nella psichiatria rispecchia i valori della società agricola, industriale o contemporanea. La perdita di autorità di Berlusconi in Italia, di Bush negli Stati Uniti e di Blair in Inghilterra sono sintomatici di un indebolimento della tendenza riduzionista a favore di quella della diversità, poiché il capitalismo accetta un solo punto di vista negando gli altri (globalizzazione anche dei comportamenti). Oggi le case farmaceutiche diminuiscono la loro supposta autorità morale in psichiatria, sfidate dallo scetticismo delle persone frustrate dal non vedere guarire i propri cari”. È il concetto di malattia a dover cambiare: “Serve essere consapevoli che la malattia non è solo biologia alterata dentro noi; siamo persone, corpo e mente che interagiscono alimentati dalle emozioni. La biologia ha un suo ruolo dentro l’uomo che si dà un senso all’interno del suo contesto personale, familiare e sociale”.
Ron Coleman è un uditore di voci.
È opinione diffusa anche in Italia che somministrare psicofarmaci sia la sola cosa che si possa fare in moltissime situazioni, forse nella maggioranza dei casi. In un altro considerevole numero di casi, insieme alla somministrazione di farmaci vengono prodotte svariate attività. Si danno psicofarmaci e poi si fa anche altro. Psicoterapia, riabilitazione, inserimenti. Tutto questo rimane però subordinato all’intervento principe, il farmaco. Senza scommettere né sulla psicoterapia, né sulla riabilitazione, né su altro. Il farmaco diventa il braccio, lo strumento fisico del pensiero tutorio dei servizi. Non si punta più su quel tanto o poco potere di “guarigione” che la vita, insieme a tanti motivi disturbanti, porta con sé. Soluzioni abitative, lavorative, di mutuo aiuto, quando siano vere e non limitate dall’invadenza eccessiva dei presidi territoriali, contribuiscono alla trasformazione della persona e contemporaneamente del contesto. Ma su tutto questo bisogna scommettere. E per farlo bisogna aprire la riflessione sulla funzione dei farmaci al di là delle rassicuranti parole di esperti e case farmaceutiche.
In generale gli psicologi e gli stessi operatori della riabilitazione “non vedono” questa subordinazione e questa distorsione, per non dire delle cosiddette cooperative sociali che sembrano proprio pensare a tutt’altro. La riabilitazione, la psicoterapia ecc. diventano, se va bene, un lavoro di riduzione del danno psichiatrico.
Il successo riscosso dai gruppi di auto-aiuto all’estero è dovuto proprio alla modalità di approcciarsi al fenomeno. Il poterne parlare liberamente, il poter condividere le emozioni, l’uscire dall’isolamento, l’essere compresi, sono tutte qualità che portano alla rassicurazione, alla speranza e alla successiva capacità di parlare, affrontare il male e discuterne in famiglia e con amici. È stato dimostrato quanto sia importante l’appoggio dei familiari o amici, soprattutto per evitare “ricadute” Le misure riabilitative che sono risultate migliori, sono infatti basate sul principio di eguaglianza e sul coinvolgimento delle persone all’interno del processo di aiuto, per sviluppare una crescita nell’auto-consapevolezza e nell’autodeterminazione e per costituire una nuova identità personale. Il potere decisionale viene spostato dal sistema all’individuo ed il ruolo dell’operatore e quello dell’utente si cancellano per ridefinirsi a vicenda.
Ron Coleman ha vinto di nuovo: a quando la ricostruzione di tutti? ☺
"Ciò che mi preme è comprendere. Se altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo" (Hannah Arendt).
Ron Coleman è un uomo di quarantanni, corporatura grossa, capelli con codino un po’ biondi un po’ bianchi, gli occhi scuri che ti guardano in fondo, una sgargiante camicia tipo hawaiana e la camminata a falcate veloci. Lo vedo nella hall della sala-convegni con la moglie Karen che sorseggia un bicchiere di birra. Gli sorrido: mi scruta serio e mi ricambia.
La sala è strapiena: psichiatri, educatori, familiari, pazienti.
Quando Ron Coleman appare sul palco, inizia a parlare con voce profonda, usa pause e timbri ben calibrati; mentre la traduttrice simultanea parla, lui fa smorfie e guarda noi del pubblico.
Ron Coleman è un istrione.
Ron Coleman si schiera contro la psichiatria istituzionale che, fra i suoi tanti dogmi auspicabili, sostiene l’impossibilità di guarire da un disturbo mentale grave. La psichiatria occidentale, sostiene, si pone come unici obiettivi concetti quali mantenimento, controllo sociale, limitazione dei danni, senza nemmeno prendere in considerazione una ripresa attiva-guarigione dell’individuo (meglio definita dal termine recovery) ed offrendo, come unico scenario migliore possibile, una condizione stabilizzata. In questa prospettiva, il paziente cronico non può mai essere il risultato di un fallimento psichiatrico, poiché si preferisce far ricadere le responsabilità sul malato, magari attribuendogli la “resistenza alla terapia”.
Ron Coleman è un temerario.
Improvvisamente cerca di provocarci in maniera terribile come farebbero le “voci”: “Sei sporco, non vali niente, lui è cattivo e ti vuole uccidere… Reagisci!… Non vali niente…”.
Questa breve esperienza provoca angoscia, rabbia per non potere rispondere a tono. Sono tutti sentimenti che noi percepiamo accennati ma che uno “psicotico” vive allo spasimo.
Il “cogito ergo sum” cartesiano si trasforma nella prospettiva di Coleman in “Sono ciò che penso di essere”. Persone con esperienze invalidanti “penseranno di essere” in maniera diversa dalla nostra, rapportandosi con il mondo a loro modo, pagando colpe che spesso sono piovute loro addosso: traumi, abusi, sevizie.
Secondo Coleman “Le persone possono guarire completamente, velocemente e fuori dai servizi , purché si combatta la tendenza a ridurre le cause della malattia mentale a motivi biologici. Non mi sono ammalato da un giorno all’altro ma ho fatto un viaggio verso la malattia, così come ho fatto un viaggio verso la guarigione”.
Ron Coleman strappa applausi.
D’altra parte prima dell’avvento dei neurolettici, gli psicotici guarivano attraverso soli colloqui nel 33% dei casi (Warner, 1991), percentuale che rimane invariata fino ai giorni nostri nonostante l’aumento delle spese per gli psicofarmaci e la gestione dei servizi psichiatrici, che Coleman definisce “spesso organizzati per il mantenimento della malattia e non per la guarigione”. Se le medicine non funzionano bisogna avere il coraggio di cambiare strada senza dare colpa al paziente definendolo semplicemente “resistente al farmaco”. “Sono orgoglioso di lavorare nella psichiatria – afferma Ron – ma talvolta mi vergogno di quello che facciamo ai nostri clienti: nella nostra società si cerca sempre una soluzione adatta per tutti mentre dovremmo cercare la soluzione giusta per quel tipo di persona specifico”.
Un esempio concreto. Ron Coleman in Nuova Zelanda ha avuto l’opportunità di mettere in pratica la sua personale sfida all’organizzazione dei servizi che trattano schizofrenie: presi i 20 pazienti più gravi è stato capace di restituirli al mondo completamente guariti in un periodo da 6 a 12 mesi.
Il segreto della sua tecnica risiede nell’ascoltare e interagire con le voci del paziente, cercando di valorizzare e avvicinare al paziente quelle positive e allontanare e contrattare con quelle persecutorie. Non sedarle attraverso farmaci e costrizioni fisiche, ma renderle tollerabili, accettabili, amiche: non si possono cambiare gli eventi della vita ma si può lavorare sul nostro modo di relazionarci ad essi e di percepirli.
Siamo tutti schizofrenici?
Siamo tutti un po’ scissi a volte con un piede nella realtà e l’altro nella fantasia, in questo c’è poco di male. Leonardo Da Vinci, Mozart, Gesù, Giovanna D’Arco, Beethoven e Socrate sentivano voci. Non solo persone famose sono in questa lista: molti quando commettono cose sbagliate sentono una voce dire: “Quello che stai facendo è una fesseria”. A ben vedere la differenza tra pensiero, coscienza e “voce” è più sottile di quanto possa apparire e l’essere schizofrenici è forse solo un diverso modo di essere e sentirsi. Non è anormale dunque sentire le voci ma è la risposta ad esse a causare il problema, che viene poi mantenuto e rinforzato dalla società.
Ron Coleman è inquietante.
“Nel 1996 davamo ai nostri pazienti – dice Coleman- un cellulare, dicendo loro che ogni volta che sentivano una voce dovevano prendere il telefono, schiacciare un tasto qualsiasi e rispondere alle voci tramite l’apparecchio. Il risultato fu incredibile perché i pazienti erano in grado di potersi muovere liberamente per i negozi senza che nessuno si allarmasse e chiamasse la polizia per portarli in ospedale”.
L’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) – riferisce Coleman – dice chiaramente che per chiamarsi malattia un disagio deve avere una causa comune, il medesimo modo di progredire e lo stesso esito. Questi tre criteri non sono rispettati perché la ricerca mostra che sono diversi da situazione a situazione. Quindi non ci sono mostri da rinchiudere ma persone agitate da paure e infelicità che sono le nostre pene quotidiane ingigantite.
Per Coleman si può parlare di politica della pazzia: “L’organizzazione dei servizi è critica e ogni sistema cura le persone in un certo modo: l’idea della cura è politica. Quello che accade nella psichiatria rispecchia i valori della società agricola, industriale o contemporanea. La perdita di autorità di Berlusconi in Italia, di Bush negli Stati Uniti e di Blair in Inghilterra sono sintomatici di un indebolimento della tendenza riduzionista a favore di quella della diversità, poiché il capitalismo accetta un solo punto di vista negando gli altri (globalizzazione anche dei comportamenti). Oggi le case farmaceutiche diminuiscono la loro supposta autorità morale in psichiatria, sfidate dallo scetticismo delle persone frustrate dal non vedere guarire i propri cari”. È il concetto di malattia a dover cambiare: “Serve essere consapevoli che la malattia non è solo biologia alterata dentro noi; siamo persone, corpo e mente che interagiscono alimentati dalle emozioni. La biologia ha un suo ruolo dentro l’uomo che si dà un senso all’interno del suo contesto personale, familiare e sociale”.
Ron Coleman è un uditore di voci.
È opinione diffusa anche in Italia che somministrare psicofarmaci sia la sola cosa che si possa fare in moltissime situazioni, forse nella maggioranza dei casi. In un altro considerevole numero di casi, insieme alla somministrazione di farmaci vengono prodotte svariate attività. Si danno psicofarmaci e poi si fa anche altro. Psicoterapia, riabilitazione, inserimenti. Tutto questo rimane però subordinato all’intervento principe, il farmaco. Senza scommettere né sulla psicoterapia, né sulla riabilitazione, né su altro. Il farmaco diventa il braccio, lo strumento fisico del pensiero tutorio dei servizi. Non si punta più su quel tanto o poco potere di “guarigione” che la vita, insieme a tanti motivi disturbanti, porta con sé. Soluzioni abitative, lavorative, di mutuo aiuto, quando siano vere e non limitate dall’invadenza eccessiva dei presidi territoriali, contribuiscono alla trasformazione della persona e contemporaneamente del contesto. Ma su tutto questo bisogna scommettere. E per farlo bisogna aprire la riflessione sulla funzione dei farmaci al di là delle rassicuranti parole di esperti e case farmaceutiche.
In generale gli psicologi e gli stessi operatori della riabilitazione “non vedono” questa subordinazione e questa distorsione, per non dire delle cosiddette cooperative sociali che sembrano proprio pensare a tutt’altro. La riabilitazione, la psicoterapia ecc. diventano, se va bene, un lavoro di riduzione del danno psichiatrico.
Il successo riscosso dai gruppi di auto-aiuto all’estero è dovuto proprio alla modalità di approcciarsi al fenomeno. Il poterne parlare liberamente, il poter condividere le emozioni, l’uscire dall’isolamento, l’essere compresi, sono tutte qualità che portano alla rassicurazione, alla speranza e alla successiva capacità di parlare, affrontare il male e discuterne in famiglia e con amici. È stato dimostrato quanto sia importante l’appoggio dei familiari o amici, soprattutto per evitare “ricadute” Le misure riabilitative che sono risultate migliori, sono infatti basate sul principio di eguaglianza e sul coinvolgimento delle persone all’interno del processo di aiuto, per sviluppare una crescita nell’auto-consapevolezza e nell’autodeterminazione e per costituire una nuova identità personale. Il potere decisionale viene spostato dal sistema all’individuo ed il ruolo dell’operatore e quello dell’utente si cancellano per ridefinirsi a vicenda.
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